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domenica 22 agosto 2010

Michel Foucault. Un'archeologia delle scienze umane: Le Parole e Le Cose.

L'ispirazione a scrivere Le parole e le cose (1966), come spiegato nell'introduzione, era venuta a Foucault dalla lettura di un racconto di Borges, nel quale lo scrittore argentino fa riferimento a "una certa enciclopedia cinese" in cui "gli animali si dividono in: a) appartenenti all'Imperatore; b) imbalsamati; c) addomesticati; d) maialini da latte; e) sirene; f) favolosi; g) cani in libertà; h) inclusi nella presente classificazione; i) che si agitano follemente; j) innumerevoli; k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello; l) et coetera; m) che fanno l'amore; n) che da lontano sembrano mosche"1. La stranezza di questa classificazione suggerisce a Foucault, attraverso "il fascino esotico di un altro pensiero, il limite del nostro"2. In altri termini, l'enciclopedia di Borges può essere assunta come simbolo di schemi altri di categorizzazione. Nasce allora, naturalmente, la domanda: quali sono i confini del nostro modo di pensare? In che modo noi, occidentali moderni, ordiniamo i fenomeni?

Argomento fondamentale di questo volume sono i "codici fondamentali di una cultura che impongono un ordine alla nostra esperienza"3.
L'archeologia della scienze umane si sforza di studiare la struttura dei discorsi delle varie discipline che hanno preteso di avanzare teorie sulla società, sugli individui e sul linguaggio. Come sostiene Foucault "una tale analisi non appartiene alla storia delle idee o delle scienze: è piuttosto uno studio che cerca di ritrovare ciò che ha reso possibile conoscenza e teoria; sulla base di quale spazio d'ordine il sapere si è costituito, sullo sfondo di quale a priori storico [...] certe idee sono potute apparire, certe scienze hanno potuto costituirsi, certe esperienze riflettersi in filosofie, certe razionalità formarsi per, forse subito, dissolversi e svanire"4. Per far questo Foucault introduce la nozione di episteme, cioè un a priori storico in questo senso assimilabile ai codici fondamentali di una cultura: "l'episteme non è una forma di conoscenza o un tipo di razionalità che, attraversando le scienze più diverse, manifesterebbe l'unità sovrana di un soggetto, di uno spirito o di un'epoca, è piuttosto l'insieme delle relazioni che, in una data epoca, si possono scoprire tra le scienze quando le si analizza a livello delle regolarità discorsive"5.

La storia delle epistemi di Foucault evidenzia costantemente delle discontinuità tra i vari blocchi storici, ed egli si dà l'obiettivo di isolare e descrivere i sistemi epistemici che contraddistinguono le tre epoche più importanti del pensiero occidentale, convenzionalmente definite come Rinascimento, Età Classica e Modernità.

L'episteme più antica, quella del Rinascimento, viene definita "la prosa del mondo", caratterizzata dall'unità di parole e cose, in un continuo intreccio di rassomiglianze: l'uomo del Rinascimento pensava in termini di similitudine.
Esistevano quattro tipi di similitudine: la convenientia, che univa le cose l'una prossima all'altra, per esempio animale e pianta, terra e mare, costituendo così una "grande catena degli esseri; l'emulatio che significava similitudine all'interno della distanza: così si diceva che il cielo assomigliava al volto umano perché anch'esso ha due occhi, il sole e la luna; l'analogia, che aveva una gamma di estensione ancora più ampia, basata meno sulla similitudine delle cose e più sulla similitudine dei rapporti; e, per finire, la simpatia, che collegava praticamente qualsiasi cosa a qualsiasi altra, in un'identificazione virtualmente priva di limiti: tramite essa, ciascun elemento della realtà era concepito come attratto da un altro, e tutte le differenze si dissolvevano nel gioco di tale universale attrazione. La simpatia collegava il fato dell'uomo al corso dei pianeti, il cosmo ai nostri umori: il suo potere era talmente grande che, lasciato a se stesso, avrebbe posto il mondo intero sotto il suo dominio. Fortunatamente la simpatia era moderata dal suo opposto, l'antipatia. L'alternanza tra le due dava luogo all'identità tra le cose, al fatto che possono somigliare le une alle altre.6
L'episteme della similitudine aveva anche un idioma cognitivo di tipo speciale: la segnatura, il segno di tutte le similitudini. La conoscenza rinascimentale ipotizzava che Dio avesse posto un marchio o segnatura sulle cose in modo da manifestare le loro reciproche rassomiglianze. E tuttavia, dal momento che il più delle volte le segnature di Dio erano celate, la conoscenza doveva forzatamente essere un'esegesi dell'arcano. Così stando le cose, l'eruditio si confondeva con la divinatio: sapere era divinare. In questo senso, la conoscenza non era né osservazione, né dimostrazione, quanto piuttosto interpretazione. Le segnature, a loro volta, ponevano i segni stessi sotto il principio della corrispondenza universale.
La semiotica universale seguiva il regime ternario dei segni, che comprendeva un significante e un significato collegati da una "congiuntura", vale a dire da una similitudine di qualche tipo. Di conseguenza i segni non erano considerati arbitrari, né lo era il linguaggio.

Improvvisamente, nel XVII secolo questa episteme della conoscenza crolla: "l'attività della mente - scrive Foucault - non consisterà più ormai nell'avvicinare le cose tra loro, nel mettersi alla ricerca di tutto ciò che in esse può rivelare una sorta di parentela [...], ma al contrario nel discernere: cioè nello stabilire le identità"7.
In altre parole, entra in scena la rappresentazione. Si tratta della prima mutazione epistemica descritta da Foucault in Le parole e le cose, preannunciata, secondo l'autore, da un capolavoro letterario: il Don Chisciotte, "la prima delle opere moderne poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze deridere all'infinito segni e similitudini, poiché il linguaggio, in essa, spezza la sua vecchia parentela con le cose, per entrare in quella sovranità solitaria da cui riapparirà, nel suo essere scosceso, solo dopo che è diventato letteratura"8.
La rappresentazione quindi diviene l'anima della episteme classica (corrispondente al periodo compreso grosso modo tra la metà del XVII secolo e la fine del XVIII). Le sue strutture principali sono la mathesis, "scienza dell'ordine calcolabile"9 e la tassonomia, il principio di classificazione, di ordinata tabulazione, il cui miglior esempio è costituito dalla botanica di Linneo. Lo stesso idioma cognitivo - il "linguaggio" della conoscenza - viene ora visto in una luce diversa. L'episteme classica concepiva la significazione come un regime binario: il linguaggio è concepito come "trasparente" e, di conseguenza, non vi è più nessuna ipotesi per legami nascosti (le "congiunture" dell'episteme rinascimentale) e per un'interpretazione elaborata. La "divinatio" viene ben presto eliminata dalla sfera della conoscenza legittima. Significante e significato sono considerati collegati in modo arbitrario, ma anche estremamente chiaro. Compito dell'uomo è più quello di dare una descrizione artificiale dell'ordine già esistente. Non è stato lui a creare il mondo e nemmeno, in ultima analisi, le rappresentazioni. Egli ha elaborato un linguaggio artificiale, un ordinamento convenzionale dei segni. Ma non è l'uomo a conferire loro un significato. Questo è quanto Foucault intende dire quando sostiene che non esisteva nessuna teoria della significazione nell'età classica.

Ne risulta che la natura umana, se rapportata alla natura, ha un ruolo particolare: quello di produrre l'attività umana della conoscenza. Natura e natura umana sono legate insieme dal potere del discorso. Rappresentazione ed essere si ritrovano entrambi all'interno del discorso, vale a dire del linguaggio 10. Ne consegue pertanto che "il linguaggio classico come discorso comune della rappresentazione e delle cose, come luogo all'interno del quale natura e natura umana si intersecano, esclude in modo assoluto qualcosa come una 'scienza dell'uomo'; finché tale linguaggio ha parlato nella cultura occidentale, non è stato possibile che l'esistenza umana fosse messa in questione per se stessa"11. Visto che si dava per scontato che il linguaggio, per sua stessa natura, rendesse possibile una adeguata rappresentazione, il ruolo degli esseri umani nel collegare rappresentazione e cose non aveva bisogno di essere problematizzato.12

Per Foucault questa età della rappresentazione può essere sintetizzata analizzando ciò che è o non è in grado di comparire in un particolare quadro, che sia in grado di raffigurare la comprensione dell'essere durante l'età classica. Foucault inizia Le parole e le cose con una densa descrizione del celebre quadro di Velasquez, Las Meninas (1656). La sua spiegazione del dipinto serve a tematizzare la struttura del sapere nell'età classica; l'analisi mostra come vi siano raffigurati tutti i temi della concezione classica della rappresentazione: il pittore, che ha smesso per un attimo di dipingere, sta fissando uno spazio nel quale siamo collocati noi, in quanto spettatori. Non possiamo vedere cosa stia dipingendo, perché la tela ci volge il retro. Tuttavia, proprio per la composizione del quadro, noi siamo assoggettati allo sguardo del pittore, siamo uniti al dipinto in quanto sembra che il pittore stia guardando proprio noi. Invece "il pittore dirige gli occhi verso di noi solo nella misura in cui ci troviamo nel luogo del suo modello. Noialtri spettatori siamo in sovrappiù"13. E' evidente che noi occupiamo lo stesso spazio che è occupato anche dal modello del pittore. Sulla parete in fondo alla sala possiamo vedere una serie di quadri quasi interamente oscurati dalla penombra. C'è tuttavia un'eccezione che risalta con evidenza: si tratta di uno specchio. Ciò che vediamo nello specchio è l'immagine di due personaggi, il re Filippo IV e sua moglie Marianna. Essi costituiscono il modello reale che il pittore sta dipingendo; nel quadro, accanto allo specchio, è situato il vano di una porta, nel quale è racchiusa l'immagine di un uomo, colto nell'atto di osservare la scena del dipinto, sia le figure che sono in esso rappresentate, sia i modelli che il pittore sta ritraendo. Chiaramente, questo personaggio è una rappresentazione dello spettatore.

Ovviamente, secondo la lettura di Foucault, il tema espresso da Las Meninas è quello della rappresentazione. Il paradosso centrale del dipinto è costituito dall'impossibilità di rappresentare l'atto della rappresentazione. Se il compito essenziale dell'età classica era disporre su un quadro delle rappresentazioni ordinate, la sola cosa che questa età non potè realizzare fu di porre sul quadro stesso, così costituito, l'attività del rappresentare. Infatti, anzittutto abbiamo il pittore che organizza il quadro ma che non può comparire in esso nell'atto di dipingere. Lo vediamo in un istante di pausa e, quando tornerà a dipingere, scomparirà dietro la tela. In secondo luogo, vediamo che il re (che è il modello del pittore), compare solo marginalmente riflesso nello specchio. Se così non fosse ed egli, in quanto soggetto e oggetto, costituisse il tema centrale del dipinto, tutte le tensioni interne al quadro si allenterebbero: il primo piano riempirebbe la cornice e la prospettiva verrebbe interrotta. Ma questo non accade, in quanto il tema centrale del dipinto è la rappresentazione, mentre il re è solo un modello. In terzo luogo, ciò che lo spettatore vede è un quadro in via di esecuzione. Ma quando Velasquez pone un personaggio in fondo al dipinto, questi da spettatore si trasforma in oggetto del dipinto. Nemmeno lo specchio ci cattura in quanto spettatori che stanno guardando il quadro: lo specchio riflette i due modelli, ma non noi. Quindi nemmeno la funzione svolta dallo spettatore viene rappresentata come atto 14.
Il dipinto è riuscito perfettamente: esso mostra tutte le funzioni necessarie alla rappresentazione ed anche l'impossibilità di riunirle insieme in un quadro. Quello che manca è un soggetto unificato e unificante che dovrebbe fornire una collocazione a queste rappresentazioni, trasformandole in un proprio oggetto. Questo soggetto farà la sua comparsa, secondo Foucault, nel momento in cui verrà alla luce l'uomo, ossia con Kant.

Ed infatti, in modo improvviso, verso la fine del XVIII secolo, si verifica un altro decisivo mutamento epistemologico, che segna la fine dell'età classica e rende possibile l'apparizione dell'uomo. Foucault non ci offre nessuna spiegazione di questo fondamentale cambiamento epistemologico. Egli si limita a delineare i tratti dei mutamenti che si sono verificati, ma non spiega nulla. Questa ostinata posizione dell'autore non deriva tanto da una inclinazione all'oscurantismo quanto dalla constatazione che ogni spiegazione ha senso solo all'interno di uno specifico sistema di riferimento e quindi all'interno di una specifica episteme.

Quindi, a un certo punto, l'uomo fa la sua apparizione e diventa misura di tutte le cose. Non appena l'ordine del mondo non risulta più imposto da Dio e, di conseguenza, non più rappresentabile in un quadro, allora la continua relazione che aveva posto in rapporto l'uomo con gli altri esseri del mondo viene abbandonata. L'uomo, che un tempo era un essere tra gli altri esseri, non soltanto diventa un soggetto tra oggetti, ma presto si accorge anche del fatto che ciò che sta tentando di comprendere non è costituito soltanto dagli oggetti del mondo, bensì anche da se stesso. L'uomo diventa il soggetto e l'oggetto del proprio conoscere.15
Le cose " sfuggono [...] allo spazio del quadro e presentano alla conoscenza un loro spazio interno"16 che non può essere rappresentato nel senso classico della misurazione e della tassonomia. Così la storia naturale cede il posto alla biologia, la grammatica generale viene sostituita dalla filologia, e l'economia politica prende il posto dell'analisi delle ricchezze (l'economia dell'età classica).

Le nuove scienze non sono in alcun modo un proseguimento delle loro arcaiche sorelle, con le quali condividono soltanto le tre empiricità - vita, lavoro, linguaggio - intese come aree più che oggetti; ciò che a Foucault preme dimostrare è che non può esservi alcun ponte tra una qualsiasi episteme e l'altra: una qualche continuità può esistere solo all'interno delle epistemi 17.
Il punto principale su cui argomenta Foucault, è che in tutto questo l'uomo, principale soggetto di questi tre discorsi scientifici, viene riconosciuto nella sua esistenza contingente: la modernità ha inizio con l'incredibile e impraticabile idea di un essere la cui finitudine gli consente di prendere il posto di Dio. Quest'idea, che irrompe in modo del tutto evidente con Kant e in base alla quale "i limiti della conoscenza fondano positivamente la possibilità di sapere"18, viene chiamata da Foucault analitica della finitudine. Foucault ci invita a svegliarci dal "sonno antropologico"19 che ossessiona la conoscenza moderna. Infatti, se nell'episteme classica l'uomo quale soggetto centrale della conoscenza mancava, l'episteme moderna ha fatto qualcosa di più che ristabilire l'equilibrio: lo ha ristabilito troppo, dimenticando che l'uomo, quale fulcro della conoscenza attraverso la sua finitudine, non è altro che una figura di passaggio nell'imperscrutabile movimento dell'epistemi:

"L'uomo è un'invenzione di cui l'archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt'al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz'altro scommettere che l'uomo sarebbe cancellato, come sull'orlo del mare un volto di sabbia"20.
Queste frasi costituiscono le ultimissime righe di Le parole e le cose, le frasi più criptiche, più dibattute; quelle insomma che faranno gridare all'"assassinio" della storia e dell'uomo. In realtà, l'obiettivo di Foucault è quello di indicare una prospettiva che assomiglia piuttosto a un destino della conoscenza: quando verrà l'onda dell'episteme successiva, l'uomo, quale spazio di conoscenza, sarà spazzato via 21.

Quando, con l'episteme moderna, fu l'uomo concreto a divenire l'oggetto privilegiato della conoscenza, ci si accorse ben presto che questo "oggetto arduo" non era facilmente racchiudibile nella trasparenza delle rappresentazioni statiche e della classificazione. Un'analitica della finitudine richiedeva che le condizioni della conoscenza venissero chiarite per mezzo degli stessi contenuti empirici dati nella vita umana: il corpo dell'uomo, i suoi rapporti sociali, le sue norme e valori.
Ora, questo metteva l'uomo, da un punto di vista epistemologico, in una posizione difficile. Infatti, da una parte conoscere l'uomo si riduceva a cogliere le determinazioni dell'esistenza umana concreta nei fatti della vita, del lavoro e del linguaggio. Ma d'altra parte, riducendo l'uomo al suo aspetto empirico, non sarebbe più stato possibile fornire una spiegazione di come avviene la conoscenza. Di conseguenza l'uomo è costretto ad essere uno strano "allotropo empirico-trascendentale"22, un'esigenza epistemologica quasi impossibile da soddisfare in modo completo. Non c'è da meravigliarsi, dunque, che una tale ambigua figura di conoscenza sia minacciata da una prospettiva di dissoluzione.

In tutto questo emergono la funzione e il ruolo giocati dalle scienze umane che, secondo Foucault, affrontando i significati umani sono costantemente auto-critiche: non appena prendono un insieme di significati impiegati dall'uomo quale animale vivente lo trattano in quanto superficie di un qualche senso più profondo. Le scienze umane come la sociologia o la psicologia però, si limitano a considerare l'oggetto-uomo senza considerare l'uomo stesso che indaga e costruisce un sapere-potere su di sé. La psicoanalisi sarebbe invece una contro-scienza perché, interessandosi all'inconscio, all'impensé, rifiuta una mera rappresentazione cosciente del soggetto e conduce un discorso "interminabile" non tanto sopra l'uomo ma con l'uomo. Se le scienze umane lo hanno costituito quale oggetto di sapere e perciò lo hanno letteralmente inventato, la psicoanalisi (e l'etnologia) lo hanno piuttosto dissolto all'interno del linguaggio. A questo punto "sorge il tema di una teoria pura del linguaggio"23, dove si inserisce la terza e fondamentale di queste "controscienze": la linguistica strutturale. Il soggetto è attraversato dal linguaggio, ne è agito, è fatto della stessa sostanza delle sue parole, mostrando anche la sua limitatezza, la sua finitudine. Se storicamente il soggetto si è costituito come oggetto di un discorso, ora il linguaggio, raccogliendosi su di sé, lo destina alla dispersione.. "L'uomo è esistito là dove il discorso ha taciuto. Ora, ecco che con Saussure, Freud e Husserl, al cuore di quanto vi è di più fondamentale nella conoscenza dell'uomo, riappare il problema del senso e del segno. Il che significa che ci possiamo chiedere se [...] si tratta di contrassegni che annunciano la scomparsa dell'uomo, visto che finora l'ordine dell'uomo e quello dei segni nella nostra cultura erano stati incompatibili l'uno con l'altro. L'uomo sarebbe morto di questi segni che sono nati in lui; è questo che Nietzsche, per primo, ha voluto dire"24.

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