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martedì 15 giugno 2010

L'integrazione degli islamici G.Sartori.

In tempi brevi la Ca­mera dovrà pronun­ciarsi sulla cittadi­nanza e quindi, an­che, sull’«italianizzazio­ne» di chi, bene o male, si è accasato in casa no­stra. Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chia­ve di «razzismo». Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno «xenofobo», mentre chi lo gradisce è uno «xenofi­lo ». E che non c’è intrinse­camente niente di male in nessuna delle due rea­zioni.
Chi più avversa l’immi­grazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini fir­mò, con Bossi, una legge molto restrittiva. Ora, in­vece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapi­da. Chissà perché. Fini è un tattico e il suo dire è «asciutto»: troppo asciut­to per chi vorrebbe capi­re. Ma a parte questa gira­volta, il fronte è da tempo lo stesso. Berlusconi ap­poggia Bossi (per esserne appoggiato in contrac­cambio nelle cose che lo interessano). Invece il fronte «accogliente» è co­stituito dalla Chiesa e dal­la sinistra. La Chiesa deve essere, si sa, misericordio­sa, mentre la xenofilia del­la sinistra è soltanto un «politicamente corretto» che finora è restato male approfondito e spiegato.
Due premesse. Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla «integra­bilità» dell’islamico. Se­condo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall'espe­rienza. La domanda è allo­ra se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorpo­razione etico-politica (nei valori del sistema politi­co), in società non islami­che. La risposta è sconfor­tante: no.
Il caso esemplare è l'In­dia, dove le armate di Al­lah si affacciarono agli ini­zi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominaro­no l’intero Paese. Si avver­ta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi pa­ciosi, pacifici; e la maggio­ranza è indù, e cioè poli­teista capace di accoglie­re nel suo pantheon di di­vinità persino un Mao­metto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventa­re il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesi­stenza in cagnesco finisse­ro in un mare di sangue. Conosco, s’intende, an­che altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Tur­chia. Tutti casi che rivela­no un ritorno a una mag­giore islamizzazione, e non (come si sperava al­meno per la Turchia) l’av­vento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico.
Veniamo all’Europa. In­ghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritro­vano con una terza gene­razione di giovani islami­ci più infervorati e incatti­viti che mai. Il fatto sor­prende perché cinesi, giapponesi, indiani, si ac­casano senza problemi nell’Occidente pur mante­nendo le loro rispettive identità culturali e religio­se. Ma — ecco la differen­za — l’Islam non è una re­ligione domestica; è inve­ce un invasivo monotei­smo teocratico che dopo un lungo ristagno si è ri­svegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo «italianizzan­dolo » è un rischio da gi­ganteschi sprovveduti, un rischio da non rischia­re.

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