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domenica 7 novembre 2010

Tutto sui mass media e sulla comunicazione.


Mass Media
di Cesare Del Frate


 






GENERE DI MEDIA? RADIO, TELEVISIONE E FAMIGLIA MODERNA
 






Se i media hanno il potere di influire radicalmente sulla percezione che abbiamo di noi
stessi, questo potere è particolarmente evidente nel ruolo che giocano nella costruzione
della nostra identità di genere. “Costruzione” e “genere” sono due concetti
inestricabilmente legati nella teoria sociale contemporanea, da quando il pensiero
femminista ha iniziato a mettere in questione il determinismo biologico attraverso il quale
sono categorizzati il maschile, il femminile e l’orientamento sessuale: “genere” si oppone a
“sesso” come quella dimensione identitaria non deducibile meccanicamente da attributi
biologici.
Il genere è allora la genealogia della sua costruzione sociale, in cui la
dimensione individuale si interseca con strutture storiche e culturali che rendono intelligibili
e vivibili certe forme di vita piuttosto che altre.
L’idea di costruzione sociale del genere ha aperto un ricchissimo campo d’analisi,
permettendo di interrogare le formazioni storiche e sociali sottese alle costellazioni valoriali
e ai comportamenti; in particolare, i gender studies hanno decostruito una serie di
opposizioni simboliche, quali pubblico/privato, attività/passività, ragione/passione, in cui il
primo termine (implicitamente maschile) è valorizzato ed il secondo svalutato. Parlare di
genere, invece che di sesso, consente di problematizzare ciò che saremmo portati a
ritenere “naturale”: ad esempio la domesticità, la remissività, la propensione alla cura e
all’abnegazione delle donne da un lato, e dall’altro l’aggressività, la razionalità, la
vocazione pubblica degli uomini. E non solo, ma anche la naturalità dell’orientamento
eterosessuale.
Ovviamente il concetto di genere non ha solo una valenza analitica ed epistemologica:
supporta anche rivendicazioni politiche volte a contestare la discriminazione sessuale, in
nome di un’uguaglianza e di una libertà che hanno come premessa la decostruzione del
“mito” della naturalità. La critica femminista si fonda, in ultima analisi, sulla sottrazione
delle donne (e degli uomini) ad un presupposto destino biologico che assegnerebbe
identità fisse ed immutabili. Se il genere è una costruzione sociale e non un dato
immodificabile, allora possiamo incidere su questa costruzione, lavorare per costruire
identità differenti al di là del sessismo e della discriminazione4.
Il lavoro dell’identità passa per la cultura: ecco perché i media, in quanto veicoli principali
dei simboli e dell’ordine del discorso, sono da sempre stati al centro dell’attenzione della
critica femminista e, più in generale, dei gender studies. Riguardo a tale filone di ricerca
proporrò, di seguito, una lettura selettiva, che prende le mosse dalla recente “svolta
qualitativa” nella ricerca sull’audience. Le ricerche a cui farò principalmente riferimento
derivano dall’approccio in senso lato etnografico6 che ha assunto sempre maggiore
rilevanza negli studi sul pubblico, fino a configurarsi come una sorta di “paradigma”. Nelle
analisi qualitative dei media c’è una rinnovata attenzione ai processi di interpretazione ed
assimilazione dei testi da parte dei soggetti, secondo un’impostazione con un vasto
background teorico, che va dalla “svolta linguistica” al modello semiotico del lettore,
dall’etnografia postmoderna alle teorie post-strutturaliste sulla disseminazione dei
significati.
Non potendo ricostruire l’intero campo di studi, presenterò due prospettive fra loro
collegate che consentono di guardare in modo interessante al nesso identità-generemedia.
Per prima cosa, discuterò della rilevanza dell’immaginario culturale nella
strutturazione dell’identità di genere. In seguito, esaminerò ricerche empiriche che
mostrano la rilevanza del consumo mediale nella costituzione delle routines e delle
pratiche della vita quotidiana che sostengono ed in cui sono calate le identità di genere.
L’identità si radica nei tempi e nei luoghi della vita quotidiana: tempi e luoghi che vengono
definiti anche secondo coordinate di genere in quella pratica situata che è il consumo
mediale. Infine, mi occuperò delle forme di domesticazione dei media, con riferimento alla
radio e alla televisione, per mostrare i modi in cui i mezzi di comunicazione vengono
integrati nella vita domestica e, al contempo, ridefiniscono la vita familiare in cui sono
inseriti. Il filo rosso dell’argomentazione è il nesso fra media, consumo familiare, identità di
genere, in una prospettiva storico-sociologica che prende in esame l’ingresso nelle case
della radio e della televisione.

Che genere di immaginario?

L’elaborazione dell’identità di genere avviene quindi, per gran parte, nella dimensione
culturale della rappresentazione: ecco perché i media sono sempre stati uno dei focus
principali dell’interesse e della ricerca nei gender studies. Il nostro, dice lo studioso di
media Thompson, è un mondo mediato, nel senso che il fare esperienza è sempre più
affidato alla mediazione delle rappresentazioni mediali:

Le forme simboliche mediate plasmano sempre più sia la nostra conoscenza
dell’universo che si trova al di là della sfera di ciò che sperimentiamo
personalmente, sia le nostre idee sulle posizioni che occupiamo in esso.

La sfera dell’esperienza si allarga ben al di là del campo di azione consentito dalla
presenza corporea: il mondo è, in gran parte, ciò che ne vediamo riflesso nello schermo
dei media. E la rappresentazione del mondo è anche la rappresentazione di noi stessi, del
posto che vi occupiamo: la nostra identità non può prescindere dalle immagini che
dovrebbero rispecchiarci. Almeno secondo un’idea ingenua dei media: più che di mero
rispecchiamento, si tratta qui di un processo costituente, che installa e, in un certo senso,
“crea”, mentre li racconta, il mondo e i soggetti che lo abitano, il contesto e gli attori che
noi siamo. Non sto avallando una concezione deterministica dell’influenza dei media:
l’identità non è l’effetto meccanico della rappresentazione mediale, in un gioco di
ribaltamento di specchi. Anzi, la ricerca sociale sui media oggi insiste sugli esiti spesso
imprevedibili dei processi di ricezione e lettura mediale: i soggetti si riappropriano dei
significati attraverso pratiche di interpretazione incessanti e complesse, lo stiamo per
vedere. Ciò che vorrei sottolineare è che il nostro rapporto con i media non è esteriore: i
media non si limitano a rispecchiarci, né noi, per converso, siamo semplicemente la
proiezione delle immagini mediali. C’è piuttosto un rapporto intimo, soprattutto per quanto
riguarda l’identità di genere. Un rapporto in cui si elabora il senso di sé e della propria
storia nella cornice di racconti e storie ben più vasti:

La fantasia non rappresenta soltanto un esercizio cognitivo, un film interiore
che proiettiamo all’interno del teatro della mente. Essa struttura la
relazionalità e partecipa alla stilizzazione dell’incarnazione stessa. I corpi non
sono spazialità date. Nella loro spazialità, essi si attuano nel tempo:
invecchiando, cambiando forma, cambiando significato – a seconda delle loro
interazioni – e la rete di relazioni visive, discorsive e tattili che diviene parte
della loro storicità, del loro passato, presente e futuro.

A questo proposito Tota, riprendendo una metafora proposta dall’antropologo Augé,
parla di una “guerra dei sogni” che avviene sul campo di battaglia dell’immaginario:

Le immagini diventano letteralmente risorse attraverso cui negoziare la
definizione del reale, spazi e tempi entro cui competere per dare forma alla
propria soggettività [...]. in tal senso, l’immaginario è ciò che istituisce l’ordine
del possibile e quello del probabile, strutturando materialmente i confini di ciò
che siamo o non siamo in grado di pensare. Senza immagini l’io non può
pensare se stesso.

La metafora della guerra dei sogni sottolinea sia il dinamismo storico dell’immaginario, sia
il lavoro di riappropriazione dei simboli da parte dei soggetti. Le rappresentazioni del
genere, allora, possono essere analizzate, da un lato, secondo la profondità della loro
stratificazione genealogica e la complessità della loro circolazione discorsiva ed
istituzionale, dall’altro guardando alle pratiche di interpretazione e risignificazione delle
immagini che rendono l’atto del vedere sempre singolare.


Ma allora in che modo concettualizzare l’influenza dei media nella costruzione dell’identità
di genere? Tota propone un modello a tre stadi, che parte dalla diffusione di certi immagini
del maschile e del femminile per arrivare alla creazione di un immaginario che favorisce,
pur non determinando, certe identificazioni piuttosto che altre:

Immagini di genere contenute nei testi mediali (un telefilm, uno spot
pubblicitario, un talk show)

Maggiore diffusione di una certa rappresentazione della donna o dell’uomo in
un certo contesto sociale (ad esempio, fra gli/le adolescenti italiani/e, se lo
spot è destinato ad un target giovane)

Maggiore probabilità che gli/le adolescenti italiani/e si identifichino con le
immagini e i modelli relazionali proposti dal testo mediale in questione19

Il concetto utilizzato da Tota di probabilità non va inteso in senso unicamente statistico,
perché si riferisce anche, e soprattutto, all’apertura di un orizzonte di possibilità. Il vero
potere dell’immaginario risiede proprio nella sua capacità di delimitare ciò che è o non è
possibile (pensabile, raffigurabile), le immagini attraverso le quali possiamo edificare il
nostro senso di sé in modo più o meno coerente. Ad esempio, le pubblicità (Carosello, per
citare soltanto il contenitore pubblicitario più noto) ed i programmi televisivi del primo
dopoguerra mostravano come modello di donna la casalinga moderna e buona madre. La
vocazione al lavoro retribuito e l’aspirazione alla carriera non erano integrabili in questa
immagine: erano un’assenza, un vuoto, nell’orizzonte di possibilità configurato
dall’immaginario. Ancora oggi la nostra società stenta a proporre immagini coerenti della
donna madre e lavoratrice, e la coesistenza di questi due ruoli, anche a livello di
rappresentazioni mediali, è spesso contraddittoria o, quanto meno, problematica.

Anche la figura del padre è segnata, nell’immaginario mediale, da forti aporie. Come rileva
Hochschild, le ansie generate dall’instabilità del mondo del lavoro e, più in generale, dalla
crisi delle forme di socializzazione, tendono ad alimentare il mito rassicurante dell’intimità
domestica, dove la casa diviene il rifugio idealizzato da un mondo esterno le cui certezze
sono state erose. L’idealizzazione della casa è anche l’idealizzazione iperbolica della
madre, forse la più potente ideologia di genere contemporanea. Forti e Guaraldo
collegano il mito della maternità allo sviluppo della biopolitica nelle società liberali, in ottica
foucaultiana, analizzando la costruzione del “discorso maternalista” e della donna come
s/oggetto biopolitico:

Da Bowlby a Winnicott, passando per il celebre Doctor Spock fino
all’insospettabile Talcott Parsons, la nuova tendenza nel mondo delle scienze
sociali [del dopoguerra] è quella di attribuire al legame tra madre e figlio – e a
quella che lo stesso Parsons chiamò «maternità esclusiva» – una «necessità
funzionale» al fine di proteggere i bambini (e gli uomini) dalla durezza della
vita iperproduttiva di una società tutta permeata da logiche di mercato.

Commentando le tesi di Hochschild, potremmo aggiungere che il mito materno è da un
lato ingombrante ed opprimente per molte donne, dall’altro oscura la costituzione di
un’immagine matura e significativa di paternità.
Un altro caso significativo sul potere costituente dell’immaginario riguarda le identità
stigmatizzate: quelle gay e lesbica. Butler, discutendo di tali identità, analizza la funzione
normativa e regolatoria dell’immaginario nel delimitare ciò che conta come umano e ciò
che invece ne è escluso. Nel momento in cui il desiderio e la relazione eterosessuale
vengono istituiti come l’unica e vera forma di desiderio e relazione, la soggettività gay si
trova ad essere derealizzata. È ciò che non corrisponde alle norme che regolano il
desiderio, l’altro fantasmatico dell’umano:

Il fatto di essere definiti irreali e che questa definizione venga, per così dire,
istituzionalizzata come forma di trattamento differenziato significa diventare
l’altro in opposizione al quale si definisce l’umano [...]. Per poter essere
oppressi occorre per prima cosa diventare intelligibili e scoprire che si è
essenzialmente inintelligibili (che in realtà le leggi culturali e linguistiche non ti
considerano possibile), significa scoprire che non ti è ancora stato consentito
di accedere all’umano, significa scoprire che stai parlando, solo e sempre,
come se tu fossi umano, ma con la sensazione di non esserlo, significa
scoprire che il tuo linguaggio è privo di significato e che non vi sarà alcun
riconoscimento, poiché le norme, attraverso cui si attua il riconoscimento, non
sono a tuo favore.

Butler reinterpreta la dialettica hegeliana per sostenere che, nell’immaginario, avviene un
riconoscimento asimmetrico in cui il soggetto (eterosessuale) si costituisce escludendo ed
opponendo a sé una soggettività negata, un meno-che-soggetto (omosessuale).
Applicando il discorso di Butler al nostro argomento, possiamo notare come l’immaginario
mediale escluda costitutivamente la rappresentazione della soggettività omosessuale, così
contribuendo non solo alla sua stigmatizzazione ma anche alla sua derealizzazione. Dico
costitutivamente perché anche le rare eccezioni in l’omosessualità viene rappresentata si
tratta pur sempre di una raffigurazione tramite i codici dominanti dell’eterosessualità, per
cui il gay è un uomo effemminato e la lesbica una donna mascolina (secondo
un’inversione speculare della norma). Come nel caso del film Il vizietto, ma anche, seppur
in modo molto meno stereotipato e decisamente più divertente, nel telefilm Will & Grace.
L’immaginario mediale, quindi, ha il potere di delimitare ciò che è possibile e ciò che non lo
è nelle forme di soggettivazione. Più che imporre dei modelli, i media regolano la sfera
della possibilità rendendo reali e praticabili certe identità e rendendo inintelligibili
(derealizzando) altre identificazioni. Certo, le norme sociali e simboliche del
riconoscimento e della soggettivazione possono essere disattese: in ogni caso, non
possiamo prescinderne, anche quando le reinterpretiamo o, al limite, le sovvertiamo (in
entrambi i casi con un costo), manteniamo con esse un legame intimo e costitutivo, seppur
nella modalità del disconoscimento.

La radio: da giocattolo tecnologico ad intrattenitrice della famiglia

Il ruolo giocato dai media nella costruzione del genere avviene, prima ancora che sul
piano della rappresentazione, nella vita quotidiana: cioè in quel contesto in cui i media,
intesi come artefatti al contempo tecnologici e culturali, vengono incorporati nelle routines
di tutti i giorni. Da un punto di vista sociologico il tempo e lo spazio non sono dimensioni
già date, bensì strutturate dalle relazioni sociali: è in questa fitta trama che i media si
inseriscono come risorse che riqualificano gli spazi, che organizzano il tempo, ridefinendo i
significati dell’intimità, della scena pubblica, delle dinamiche familiari. Gli studi sociali
sulla tecnologia hanno mostrato che il significato degli oggetti non risiede nelle loro
caratteristiche tecniche, ma nell’uso che ne viene fatto: è questo il modello teorico del
social shaping of technology. Nel caso dei media, Silverstone ha proposto il modello
dell’addomesticamento; il telefono, la radio, la televisione sono costrutti che i soggetti
addomesticano collocandoli nei tempi e luoghi della loro quotidianità. A partire da questo
teorico, gli studi su genere e media hanno esplorato la rilevanza dell’addomesticamento
della tecnologia nella costruzione del genere: discuterò gli esempi della radio e della
televisione.
 
Durante la diffusione iniziale della radio, agli inizi del ’900, i pubblici vedevano in essa sia
un segno di modernità sia uno strumento dall’affascinante manipolabilità tecnica: ce lo
mostra Shaun Moores, in una ricerca condotta con interviste in profondità in cui ha
indagato la memoria culturale della radio29. La ricezione era spesso incerta, e richiedeva il
posizionare fili che agganciassero l’apparecchio a pali, spesso i pali del bucato dietro
casa. Anche altri aspetti tecnici richiedevano vigilanza: le batterie, le procedure di
sintonizzazione, il controllo del suono. La radio, dice Moores, era un “meraviglioso
giocattolo” legato al piacere della sperimentazione tecnica e della manipolabilità
dell’artefatto. Forme di consumo chiaramente codificate come maschili: ed infatti dalle
interviste di Moores emerge una sostanziale esclusione delle donne. La radio era
insomma un “giocattolo” per uomini, il cui consumo si concentrava, più che sul suo
carattere di medium, sul suo essere un meccanismo complesso a cui dedicare attenzione
e nei confronti del quale sviluppare competenze e abilità. Non era tanto importante ciò che
la radio trasmetteva, quanto il lavoro, ed il godimento associato, necessario a sintonizzare,
a “pulire” il suono, a confrontare le diverse rese dei diversi apparecchi. Se l’esperienza
tecnica è culturalmente codificata come “maschile”, troviamo nelle prime forme di
consumo della radio una specifica declinazione di genere nel piacere della manipolazione
della tecnologia, una modalità di fruizione focalizzata sulle caratteristiche tecniche del
medium a scapito del messaggio.
A partire dagli anni ’20 il consumo della radio si diversifica: negli USA i produttori iniziano a
confezionare programmi rivolti ad un pubblico femminile. Questo perché il discorso
radiofonico iniziò a rivolgersi alla famiglia come proprio pubblico privilegiato, ed alle madri
come custodi dell’intimità familiare. La radio stessa stava cambiando. Intanto le modalità di
diffusione del suono, con il superamento dagli auricolari a favore degli altoparlanti,
favorirono un consumo non più individuale ma collettivo. Inoltre il suo aspetto, più attento
al design e alla moda: la radio, da oggetto considerato brutto e ingombrante, stava
acquisendo una funzione di arredamento e di esibizione di status. Progettati da designer
ed architetti, realizzati in elegante bakelite, fortemente pubblicizzati, gli apparecchi della
Murphy o della Ecko si proponevano come elementi indispensabili del comfort della casa
moderna.
La programmazione, che come dicevamo ora costruisce simbolicamente il suo pubblico
come familiare, si organizzò secondo scansioni temporali che dovevano assecondare i
ritmi della vita domestica: di giorno i tempi del lavoro in casa delle mogli, di sera il tempo
del ritrovo fra i coniugi ed i figli. La radio così si proponeva, di giorno, come la compagna
della casalinga nei lavori routinari, la sera come l’amica che avrebbe intrattenuto la
famiglia riunita. In altre parole, la radio contribuì a definire e a stabilizzare quell’“invenzione
recente” che era l’ideologia della domesticità. Non va dimenticato che la divisione fra
luoghi e tempi del lavoro e della casa nasce con la rivoluzione industriale: sebbene la
connotazione simbolica dell’abitazione come luogo femminile sia ben più antica, il
dislocamento dei processi produttivi fuori della casa avviene soltanto con la creazione
delle fabbriche, i mutamenti demografici connessi all’urbanizzazione di massa, la perdita di
importanza, sia economica che simbolica, dell’artigianato e dell’agricoltura. Questa
separazione fra i luoghi sociali della casa e del lavoro, tuttavia, non è ancora una divisione
di genere. Donne e bambini partecipano in massa al mercato del lavoro salariato. Nel
corso dell’ottocento solo una minoranza, vale a dire il ceto borghese, inizia a coltivare
l’ideologia della domesticità femminile, contrassegnando la rispettabilità della donna con la
distanza, che è anche una segregazione, dal lavoro (salariato)32.
Agli inizi del ’900, negli Stati Uniti ed in Inghilterra il panorama sociale cambia: la mobilità
porta strati crescenti della classe operaia nel cosiddetto “ceto medio”. Lo stile di vita
borghese si propone come modello, soprattutto attraverso quello che Sparke chiama il
culto della domesticità. È all’interno di queste trasformazioni che va collocato il ruolo dei
mezzi di comunicazione nel ridefinire le identità di genere. Adottando e diffondendo il
modello della famiglia borghese, con il suo “eroe”, il lavoratore disciplinato, e la sua
“vestale”, la madre-casalinga, la radio e la televisione si pongono come i principali alfieri
del culto della domesticità.
La codificazione simbolica della radio associa l’artefatto tecnologico al focolare domestico,
quasi ad identificarli. Un articolo di Radio Times del 1935 recita: «Lasciarsi alle spalle la
pioggia battente, chiudere la porta, abbassare le tendine e accendere il fuoco nel
caminetto – ecco uno dei veri piaceri della vita [...]. Solo quando vi siete sistemati vicino al
vostro caminetto apprezzerete davvero il divertimento che la radio può offrirvi»34. La
privatizzazione del tempo libero e dello svago aveva il suo centro nella casa e nella
famiglia, anche grazie a radio e televisione, in sintonia con il modello borghese ed in
opposizione a quello che veniva considerato il poco rispettabile girovagare per strada o
divertirsi nei bar dei ceti inferiori:

Se prima erano escluse dal pubblico degli ascoltatori, le casalinghe e le madri
divennero per molti versi centrali in questa nuova celebrazione della “famiglia”
compiuta dalla radio. I programmi radiofonici di giorno si rivolgevano alla
donna nella sua veste di custode della sfera privata, informandola sulle
tecniche di allevamento dei bambini o consigliandola sulla gestione della casa
[...]. Tali programmi equiparavano la salute dei membri della famiglia alla
“salute” generale della nazione. Il benessere del corpo degli individui e quello
del “corpo sociale” nel suo complesso venivano esplicitamente connessi tra loro.

Le formazioni discorsive veicolate dalla radio chiedono alla casalinga di farsi garante
dell’ordine morale della famiglia, assicurando così la riproduzione della società.
Riproduzione materiale e simbolica sono qui un tutt’uno, compendiati e, in un certo senso,
incarnati, da quella madre a cui si chiede di corrispondere alle esigenze della nazione.
Che coincidono con quelle della famiglia, o almeno così vengono presentate. Se i mass
media, sincronizzando i lettori/spettatori di tutto lo Stato, creano per la prima volta un
sentimento di coappartenenza ad una comunità nazionale, come ha mostrato Benedict
Anderson36, la storia culturale della radio ci mostra il differenziale di genere insito in quel
messaggio apparentemente universale che la nazione trasmette, in tutti i sensi, ai cittadini.
In una complessa compenetrazione di retoriche politiche e vita quotidiana, nel contesto
ordinario del salotto con radio, alle donne è chiesto di vigiliare sulla rigenerazione dei
valori e dei sentimenti che stanno a fondamento della società.

Nella prima metà del ’900 la radio viene addomesticata nella vita quotidiana prima come
giocattolo artificiale maschile, ed in seguito come compagna della casalinga ed
intrattenitrice della famiglia. Abbiamo qui a che fare con un mutamento profondo sia dei
modelli familiari sia delle attività culturali, che si ritraggono dallo spazio pubblico per
privatizzarsi accanto al focolorare del culto della domesticità. Infine, questo ritrarsi è, al
contempo, il dispiegarsi di una nuova forma di biopolitica della nazione, in cui la madre
viene designata e celebrata come la custode dell’ordine morale.

La televisione: sogno ed incubo della casalinga moderna

La televisione è il medium più emblematico della rivoluzione della cultura di massa:
incarna le ansie e le contraddizioni della mediatizzazione della cultura e della vita
quotidiana, tanto da essere stata innalzata a feticcio che in sé riassume tutti i mali o tutte
le promesse del progresso. Vorrei di seguito mostrare come il discorso sulla televisione sia
stato orchestrato secondo uno spartito di genere, in base alla femminilizzazione simbolica
dello spettatore e alla codificazione del medium come centro della vita domestica.
Nel suo fondamentale studio sulla televisione Raymond Williams definisce il tubo catodico
il fulcro di quella privatizzazione mobile che ha ridefinito la vita e la socialità urbana del
dopoguerra, in pieno boom economico38. Con privatizzazione mobile Williams intende la
polarità fra vita domestica e vita lavorativa che organizza le società della ricostruzione
economica e sociale postbellica. Mentre le città accentrano le attività produttive, in
concomitanza con l’espansione del terziario, i lavoratori si spostano in periferia nei nuovi
quartieri suburbani che intendono offrire un ambiente tranquillo e rilassato.

[La complessità della società moderna è] caratterizzata da due tendenze,
apparentemente contraddittorie ma intrinsecamente connesse, dello stile di
vita della moderna società urbana industriale: da un lato la mobilità, dall’altro
l’apparente autosufficienza della residenza familiare. Il primo periodo della
tecnologia pubblica, ben esemplificato dalle ferrovie e dall’illuminazione
urbana, veniva sostituito da un tipo di tecnologia per il quale non è stata
ancora trovata una definizione soddisfacente; una tecnologia funzionale ad
uno stile di vita mobile, ma allo stesso tempo centrato sull’abitazione: una
forma di privatizzazione mobile. Il broadcasting, nella sua forma applicata, fu
il prodotto sociale di questa tendenza.

In contrapposizione allo spazio pubblico del lavoro, epitomizzato dal caos e dalla frenesia
cittadini, la periferia di case a schiera, giardini e filari di alberi promette un rifugio
rassicurante in un contesto artificialmente naturale. Il lungo processo storico di
consolidamento della famiglia mononucleare, e la conseguente privatizzazione dello
spazio domestico, trova qui il suo culmine: la riorganizzazione degli spazi della produzione
porta alla dispersione della famiglia allargata, insieme alla progettazione dello spazio
domestico secondo i dettami modernisti dell’efficienza e della funzionalità. La crescente
distanza fra la residenza, l’ufficio e la fabbrica stimolò l’espansione delle tecnologie della
mobilità, dominate dai due artefatti che in un certo modo simbolizzano il secolo: la
televisione e l’automobile. L’automobile è lo strumento che permette di inserirsi nella
struttura produttiva in trasformazione. La televisione crea quel collegamento con l’esterno
e con la sfera pubblica di cui la casa ha bisogno.
La mobilità va qui intesa non solo come fenomeno fisico: il trasporto dei corpi o delle
immagini. Si tratta anche di una mobilità simbolica fra pubblico e privato e fra le diverse
cornici di senso dell’ordine sociale. Non a caso l’automobile e il televisore sono diventati lo
status symbol del lavoratore e della famiglia moderni, entrambi sovraccaricati da una
costellazione immaginaria che identificava il progresso stesso con la mobilità.

La televisione allora entra nelle case come tramite che media il rapporto con l’esterno
secondo le esigenze della ridefinizione delle reti sociali nel paradigma della mobilità. Più
ancora della radio, la TV si propone come amica e compagna della casalinga a fronte
dell’isolamento imposto dalla privatizzazione mobile e dal lavoro domestico. Nel verde
quartiere residenziale, nella casa il cui acquisto ha segnato il “rito” di ingresso della
famiglia nel ceto medio, il capofamiglia è uscito in macchina per andare al lavoro e la
donna, mentre svolge le routines della cura della casa e dei figli, si ritrova isolata. La TV
qui assolve una funzione ambientale, secondo la nota definizione di Lull: sottofondo
luminoso e sonoro delle incombenze domestiche, il contenuto del messaggio è meno
importante della funzione di “vicinanza” e di “accompagnamento” .
Per Meyrowitz la televisione assolve un importante ruolo emancipatorio, perché consente
alle donne degli anni ’50 e ’60 di superare il confinamento domestico, tanto da porsi come
terreno di cultura per l’imminente contestazione del movimento femminista. Tuttavia,
Meyrowitz trascura il ruolo giocato dalla televisione nella riproduzione dell’ideologia
familiare: con la televisione la casalinga viaggia rimanendo ferma, e il luogo in cui rimane,
materialmente e soprattutto simbolicamente, è propio la casa. Secondo la famosa
metafora della “finestra sul mondo”, la televisione consente l’accesso a luoghi distanti
attraverso la mobilità dell’immaginario: in questo senso, la TV può essere considerata un
medium che rompe la segregazione domestica femminile ma che, al contempo, opera
questa “trasgressione” senza mettere realmente in discussione i confini simbolici e
materiali della casa. La casalinga evade trasportata dall’immaginazione televisiva, il tutto
mentre porta a termine i lavori domestici.
Sulle politiche di genere del consumo televisivo rimane fondamentale la pioneristica
ricerca etnografica di David Morley, che ha indagato le diverse relazioni con il medium dei
membri della famiglia. Dalle osservazioni e dalle interviste di Morley emergono differenti
stili di fruizione: gli uomini sono interessati ai programmi sportivi e di informazione, le
donne alle fiction e ai programmi di intrattenimento. I due stili di non sono paritari, come
Morley commenta ironicamente parlando di “politica del telecomando”: quando il marito è
a casa, è lui a decidere quali programmi guardare, impugnando il telecomando come una
sorta di “scettro” del potere. Non si tratta però soltanto del controllo della televisione, ma
anche della gerarchia morale fra i due stili di visione. L’interesse per i telegiornali ed i
programmi di approfondimento è culturalmente approvato e legittimato, cosa che non vale
per la passione per le fiction e le soap operas. Abbiamo chiaramente a che fare con una
serie di opposizioni simboliche che si intersecano con il binarismo di genere:
razionalità/irrazionalità, informazione/intrattenimento, cittadinanza attiva/cittadinanza
passiva, attenzione critica/sguardo irriflessivo, autocontrollo/emotività.
La capacità della televisione di connettere l’esterno con l’interno può essere vista,
ritornando a Williams, come la risposta alle esigenze della mobilità privatizzata: un lavoro
di interfaccia fra la sfera pubblica e quella privata, scandita secondo una
“complementarietà gerarchizzata” di ruoli fra l’uomo e la donna. Su questi punti costituisce
ormai un classico la ricerca svolta da Lynn Spigel sulla storia culturale della televisione,
lavoro condotto tramite l’analisi di riviste femminili, delle pubblicità e di riviste di settore46.
Per prima cosa, Spigel nota che all’utopia della perfetta integrazione sociale tramite la
televisione facevano da contraltare ansie, femminili, sulla segregazione della famiglia
mononucleare. Nelle riviste degli anni ’50 e ’60 esaminate dalla ricerca abbondano le
immagini di mariti pigramente assuefatti alla televisione mentre le mogli puliscono; un altro
monito ricorrente riguarda i bambini che corrono rischi psicologici e morali per la
sovraesposizione al medium. La televisione era quindi al centro di discorsi contrastanti, fra
esaltazione del progresso della famiglia moderna e preoccupazione riguardo i rapporti fra
le generazioni e la disgregazione della famiglia stessa.
La televisione può essere così analizzata come un artefatto polivalente, sia perché
oggetto di speranze e di ansie conflittuali, sia perché attua un ruolo di negoziazione del
confine fra pubblico e privato:

Nel contesto dello spostamento verso i quartieri residenziali periferici, la
televisione fu immaginata come un “appuntamento romantico”. Le pubblicità
ritraevano coppie vestite alla moda in posa davanti alla TV come nel mezzo di
una serata a passeggio per la città. Mentre la televisione veniva così
promossa come un’immaginaria serata in città, il modello della televisione
come “teatro domestico” faceva altrettanto spesso riferimento ad un ritorno
nostalgico al valori sedentari della famiglia [...]. In questo senso, i pubblicitari
promettevano che la televisione avrebbe negoziato i desideri inestricabili della
partecipazione alla sfera pubblica e allo stile di vita familiare-privatizzato. La
TV offriva un viaggio immaginario nel mondo metropolitano mentre, al
contempo, consentiva ai membri della famiglia di rimanere nello spazio
protetto della casa di periferia .


Dalla ricerca di Spigel emerge un ulteriore significato dell’articolazione del nesso
pubblico/privato. Se fin qui abbiamo parlato della mobilità fra casa e mondo del lavoro,
possiamo ora considerare anche l’aspetto del consumo. Lo stile di vita metropolitano
ritratto nei programmi televisivi è un potente veicolo di diffusione della cultura
consumistica. La televisione negozia il divergente rapporto fra il desiderio di
partecipazione al rutilante universo dei consumi, da un lato, e dall’altro l’aspirazione alla
sicurezza dell’intimità familiare.


Le mie Conclusioni

Radio e televisione sono entrate nelle case venendo addomesticate da donne e uomini.
Nel processo, hanno contribuito a rimodellare il significato della vita domestica in cui
venivano inserite. Il periodo è quello delle trasformazioni della società in corso di
modernizzazione, un lasso di tempo dominato dai miti interrelati della mobilità e della
domesticità, l’epicentro di questi mutamenti era la famiglia mononucleare ed il suo salotto
con radio e TV. La storia culturale e la storia del consumo dei mass media, da questo
punto di vista, mostrano la complessità, e anche le contraddizioni, della costruzione dei
modelli di genere e di intimità domestica, catturati da utopie modernizzanti e da ansie di
disgregazione.


http://www.metabasis.it/6/pdf_06/06_05_DelFrate.pdf

3 commenti:

  1. Caro Ottavio Palumbo, oggi, è stato l'aver incontrato il tuo blog che ho capito quanta strada io abbia davanti a me, anche se ho appena compiuto 70 anni! IL tuo blog è fenomenale, credimi. Un abbraccio, tuo Massimo Palladino

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  2. Caro Ottavio Palumbo, dimenticavo di dirti che anche io sono un autore di svariati libri e che presento l'ultimo il 14 maggio al Salone Internazionale del libro al Lingotto di Torino. Chissà se ci si potrà conoscere? Cari saluti, Massimo Palladino

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  3. Caro Ottavio, non vorrei disturbarti ma, rileggendo il tuo web, mi chiedo e ti chiedo: oltre radio e televisione, del web che ne pensi? Lo associ ai due mezzi di telecomunicazione già citati, oppure siamo in una differente lunghezza di comunicazione?

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