Assieme ai moltissimi che lo hanno firmato ho sentito la necessità fin dai giorni in cui manipoli di studenti bivaccavano sui tetti e in cima ai monumenti, graziosamente ricevendo politici e intellettuali desiderosi di prostrarsi al senso comune della protesta: viva la cultura, viva i giovani, viva il futuro.
Pareva già in quei giorni e poi sempre di più fino alle violenze di piazza, che il testo della riforma Gelmini fosse depositario di un potere inusitato e funesto: "cancellare una generazione", "rubare il futuro ai nostri ragazzi", "uccidere la cultura e la ricerca". Sapevo e sapevamo che non era così: neppure una legge che si fosse follemente prefissata simili obiettivi avrebbe avuto la garanzia dell’efficacia. Figuriamoci la riforma dell’Università, frutto di compromessi, trattative, accordi, emendamenti, che ne hanno semmai attutito le molte buone intenzioni.
Questa legge non salva e non danna, è – come dicono gli americani – un "pezzo di legislazione" importante e che va nella giusta direzione. L’appello dimostra che al di là del vociare dei tetti e delle piazze, sono in tanti nel mondo universitario a pensarla così. Solo che la riforma Gelmini ha smesso molto presto di essere il tema della discussione e dello scontro. Al suo posto si è aperta una voragine demagogica che doveva inghiottire Silvio Berlusconi e tutto il suo governo: indegni per definizione e per vizio antropologico di avere a che fare con la cultura e con l’Università. Non si tratta di fan di Berlusconi, e forse neppure della Gelmini, ma solo di persone che hanno dedicato la loro vita all’insegnamento e non vogliono fare festa attorno alla bara dell’Università italiana solo perché il conformismo imperante ha bisogno di un cadavere e di un assassino.
(tratto da Il Giornale)
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