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domenica 22 agosto 2010

Michel Foucault. La cura di sé come pratica di libertà.

Come già accennato, nel mondo greco-romano la cura di sé è stata il modo in cui la libertà individuale si è riflessa come etica: dai primi dialoghi platonici fino ai testi del tardo stoicismo (Epitteto, Marco Aurelio...) questo concetto ha realmente attraversato tutta la riflessione morale 1. Ma che cosa significava esattamente, e in che cosa consistevano queste tecniche di sé?

Il precetto di prendersi cura di se stessi (epimelèistai eautù) era, per i Greci, uno dei principi basilari della vita nelle città, una delle regole fondamentali della condotta sociale e personale e dell'arte di vivere. Per noi, oggi, si tratta di un concetto abbastanza oscuro e sfocato, e solitamente, quale precetto fondamentale della filosofia antica, pensiamo piuttosto al precetto delfico "conosci te stesso" (ghnoti sautòn). La nostra tradizione filosofica, secondo Foucault, ha probabilmente esagerato l'importanza di quest'ultima norma di condotta a scapito della prima: nei testi greci e romani il precetto di conoscere se stessi è sempre associato a quello della cura di sé, ed era proprio questo bisogno di prendersi cura di sé che rendeva operativa la massima delfica.

Il termine cura indica il senso di un'attività del soggetto, di un lavoro etico che si compie su se stessi; un'attività che esprime l'attenzione verso qualcosa, un lavorare su qualcosa che implica, nello stesso tempo, sia una conoscenza, un certo sapere, sia una tecnica che ne permette l'applicazione pratica. Un'attenzione in cui il momento teorico è, in certo qual modo, non tanto subordinato ma adeguato, misurato alla costituzione etica ed estetica di sé: un "conosci te stesso" costantemente associato a prescrizioni e ad esercizi specifici, a pratiche e tecniche di sé volte sia a far progredire verso la conquista della sovranità su se stessi, sia a saper misurare il punto in cui si è giunti per farsi, come dice Epitteto, guardiani di se stessi.
In un seminario tenuto nell'autunno del 1982 all'università del Vermont, Foucault analizza l'evoluzione del concetto di prendersi cura di sé, e nota come dall'Alcibiade di Platone, dove compare per la prima volta, fino al tardo stoicismo, subisce importanti trasformazioni. Al tempo di Socrate, anzitutto, questo precetto è rivolto ai giovani, come preparazione alla vita adulta. Più tardi, con Epicuro e poi con gli stoici, esso diviene una cura perpetua durante tutto il corso della vita.

Una seconda differenza riguarda la funzione di questa "cura": nell'Alcibiade la cura di sé si imponeva in ragione delle mancanze della pedagogia, e come completamento di essa. A partire dal momento in cui l'applicazione a sé diventa una pratica adulta, il ruolo pedagogico tende a cancellarsi, mentre si afferma soprattutto una funzione di critica: disfarsi delle cattive abitudini, dei cattivi maestri e delle false opinioni che derivano dall'ambiente circostante.
Infine, cambia il rapporto con la figura del maestro: questi resta una figura molto importante, ma in epoca imperiale vi sarà una indipendenza sempre più marcata rispetto alla relazione amorosa: l'eros della Grecia classica (dove il maestro era l'oggetto del vero amore in quanto permetteva l'accesso alla verità) gioca un ruolo tutt'al più occasionale. "Ciò non toglie - spiega Foucault - che le relazioni affettive non fossero spesso intense. Senza dubbio le nostre categorie di amicizia e di amore sono molto inadatte a decifrarle"2.

Nel periodo ellenistico e imperiale, la "cura di sé" divenne quindi un tema filosofico comune: fu accettata da Epicuro e dai suoi seguaci, dai cinici, dagli stoici come Seneca, dai pitagorici. Essa divenne una sorta di meditazione attiva, sviluppata attraverso formule che venivano ideate, praticate e insegnate dando luogo non solo a rapporti individuali e interindividuali, ma anche alla formazione di un nuovo modo di conoscenza, all'elaborazione di un nuovo sapere.
Fra queste pratiche, assunse un'importanza crescente la scrittura: "annotare riflessioni su se stessi da rileggere in seguito, scrivere trattati e lettere agli amici per aiutarli, tenere taccuini allo scopo di riattivare nel tempo le verità di cui si aveva bisogno" 3. Riprendendo un'espressione di Plutarco, Foucault chiama ethopoietica questa funzione della scrittura che vede comparire in due forme già conosciute dello scrivere, presenti e affermate nel I e II secolo: gli hypomneamata e la corrispondenza.

In senso tecnico, gli hypomneamata potevano essere quaderni di conti, registri pubblici, quaderni personali che servivano da promemoria. Ad essi si affidavano citazioni, frammenti di opere, riflessioni ecc., e costituivano una memoria materiale delle cose dette, ascoltate o pensate. Ma non bisogna pensare ad essi come ad un semplice sostegno della memoria: "essi costituivano piuttosto un materiale e un quadro per esercizi da effettuare frequentemente: leggere, rileggere, meditare, discorrere con se stessi e con gli altri"4. A portata di mano, quindi, non soltanto per poterli richiamare alla coscienza, ma per poterli utilizzare, appena ce ne fosse bisogno, nell'azione.

Anche la corrispondenza, nella forma delle lettere amicali, costituisce un terreno di autoesercizio volto alla formazione e al governo di sé e degli altri: come ci ricorda Seneca infatti la lettera agisce ad un duplice livello, su chi scrive in quanto lo scrivente legge se stesso nell'atto stesso dello scrivere, e sul destinatario che rilegge 5.

Un movimento duplice che però, sottolinea Foucault, non mira, come sarà più tardi nel caso delle annotazioni spirituali monastiche, alla liberazione dei moti nascosti dell'anima e alla purificazione dello spirito ma a "far coincidere lo sguardo dell'altro e quello che si porta su di sé", una coincidenza tra governo di sé e governo degli altri che abbatte il rischio della dominazione sull'altro perché esercitando un potere su di sé tramite lo sguardo dell'altro si regola il potere sugli altri.

L'esercizio della scrittura come meditazione rappresenta solo una delle numerose e diverse tecniche di sé diffuse nell'età imperiale. In generale è possibile distinguere tra esercizi che si effettuavano in situazioni reali ed esercizi che costituivano allenamenti grazie al pensiero. Tra questi ultimi, molto praticata (sebbene rifiutata dagli Epicurei) era la praemeditatio malorum, meditazione dei mali futuri: rappresentarsi, in sostanza, il peggio che può succederci, come se fosse reale e attuale, allo scopo non di vivere in anticipo dolori e sofferenze future, ma di convincerci che non si tratta di reali sciagure.
All'altro polo c'erano esercizi che si effettuavano realmente: pratiche di astinenza, di privazione o di resistenza fisica allo scopo di stabilire e di attestare l'indipendenza dell'individuo rispetto al mondo esteriore.

Al vertice di tutti questi esercizi c'era la famosa melete thanatou, meditazione o esercizio della morte. Essa rappresentava una maniera di rendere la morte attuale nella vita. Fra tutti gli Stoici, Seneca si esercitava molto in questa pratica. Il suo obiettivo era quello di fare in modo di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Per comprendere questo esercizio bisogna ricordare le corrispondenze tradizionali stabilite tra i diversi cicli del tempo: i momenti della giornata, dall'alba al tramonto, erano messi in rapporto simbolico con le stagioni dell'anno, dalla primavera all'inverno; e queste stagioni a loro volta messe in rapporto con le età della vita, dall'infanzia alla vecchiaia. L'esercizio perciò consisteva nel vivere l'intera durata della vita come fosse compresa in una sola giornata. La sera era dunque il momento della morte, il momento in cui si potevano valutare le proprie azioni e il progresso morale compiuto fino all'ultimo giorno.

Paul Veyne racconta come, negli ultimi otto mesi della sua vita, Foucault fosse molto occupato da questa idea del lavoro di sé su di sé; aveva riflettuto molto sull'idea del suicidio, e affermava di non aver paura della morte. Il lavoro di sé su di sé consisteva per lui "nel mettere le proprie teorie alla prova su se stesso, nel vivere la sua filosofia e nel compenetrarsene, come voleva la saggezza antica". La scrittura dei suoi ultimi due libri - con l'irruzione della prima persona, con uno stile calmo e lineare così diverso da quello delle opere precedenti - gli è quasi certamente servita come un "esercizio spirituale per questo lavoro di sé su di sé, che è stato per lui anche una preparazione all'idea di morte"6.

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