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venerdì 17 settembre 2010

PRECARI NELLA SCUOLA PUBBLICA

Per molti ragazzi italiani è ricominciato l’anno scolastico e, puntuale come le malattie stagionali, ricomincia la polemica decennale sui precari della scuola. Si tratta di una polemica che va avanti da svariati anni e che quest’anno ha come bersaglio il ministro Gelmini reo di aver “espulso dalla scuola” svariate decine di migliaia di giovani insegnanti precari. Per orientarsi sulla questione è necessario fare qualche osservazione preliminare. Il fenomeno del precariato nella P.A. deriva dalla cattiva abitudine di molte amministrazioni di fare ricorso a forme contrattuali flessibili (contratti a termine, co.co.pro., …..) invece di procedere a regolari assunzioni a tempo indeterminato previo pubblico concorso.

I veri motivi di questa sciagurata prassi sono essenzialmente due: aggirare i vincoli alle nuove assunzioni disposti per contenere la spesa pubblica e disporre di procedure di selezione del personale più rapidi e soprattutto più discrezionali. La flessibilità del lavoro anche nelle pubbliche amministrazioni fu introdotta con le riforme Bassanini che si basavano sul presupposto che fosse opportuno modernizzare anche il lavoro pubblico con l’introduzione di forme contrattuali flessibili, come era già stato fatto – a partire dalla riforma del ministro Treu – per il lavoro privato. Alla base vi è un errore di impostazione. Mentre nel privato, per le imprese che sono sul mercato e contatto con la concorrenza, la flessibilità rappresenta un fattore di modernizzazione perché consente di adeguare l’offerta di lavoro alle reali e mutevoli esigenze produttive ed alle effettive capacità economiche delle imprese, nel pubblico nulla di tutto ciò si verifica. Il precariato nella burocrazia è essenzialmente uno strumento al servizio delle peggiori logiche clientelari ed assistenziali. Non è altro che un modo per alimentare la tendenza a gestire la cosa pubblica per favorire le reti di amicizie e conoscenze o, peggio, per proseguire quella folle politica che ha caratterizzato gli ultimi quattro decenni della pubblica amministrazione come ammortizzatore sociale. Il precariato nella scuola presenta suoi tratti particolari, perché in qualche misura deriva da alcuni elementi strutturali che caratterizzano la scuola e la differenziano da tutte le altre pubbliche amministrazioni. Nella scuola il precariato è servito storicamente, e serve tuttora, a supplire alla mancanza temporanea dei docenti di ruolo (malattie, maternità, aspettative). In un qualsiasi ufficio pubblico, se viene provvisoriamente a mancare un dipendente, il lavoro di questo viene normalmente svolto dai colleghi dell’ufficio, o al massimo si potrà applicare un dipendente di altro ufficio pubblico. Nella scuola invece ogni classe di alunni richiede una costante presenza di un insegnante per ogni ora di lezione e quindi l’insegnante mancante temporaneamente deve essere necessariamente sostituito da altro insegnante. Insegnante che, per le supplenze brevi, potrà essere un collega della stessa scuola (semmai di altra materia) ma che, per le supplenze lunghe, non può che essere un nuovo insegnate per l’appunto precario, ovvero non titolare di una sua cattedra di insegnamento. Per questo è del tutto illusorio pensare di risolvere “definitivamente” il problema dei precari. Se anche, con la bacchetta magica, fosse possibile immettere istantaneamente nei ruoli della scuola tutti gli attuali precari, immediatamente il problema si riproporrebbe perché avremmo bisogno di nuovi supplenti per coprire tutte le legittime assenze degli insegnati di ruolo (ex precari compresi). E ciò a prescindere dagli effetti negativi in termini di qualità del servizio che tale immissione inevitabilmente produrrebbe.

L’unico modo per affrontare il problema precari nella scuola è cercare di ridurre la domanda di personale docente non di ruolo per far fronte alla necessità di sostituire il personale docente di ruolo momentaneamente indisponibile. Il che vuol dire semplicemente aumentare le ore di disponibilità (alle supplenze) degli insegnanti di ruolo. Ma tale soluzione, già praticata negli ultimi anni, potrebbe servire a ridurre il problema ma non certo ad eliminarlo. Se un professore di matematica è assente per sei mesi non posso certo pensare di sostituirlo con la rotazione degli altri insegnati della scuola di italiano, inglese o educazione fisica! O forse potrebbe essere utile porre un limite massimo alle supplenze che i docenti precari possono svolgere. Ciò non determinerebbe una riduzione delle dimensioni del problema ma servirebbe almeno ad impedire che si consolidino aspettative degli insegnanti temporanei verso la tanto agognata immissione in ruolo. Sono queste le ragioni per le quali gli attacchi al ministro Gelmini sono del tutto sbagliati. La sua unica colpa sarebbe quella di aver introdotto alcune riforme che riducono la necessità di insegnanti temporanei! Ma è proprio questa la strada per ridurre il problema del precariato. Abbiamo abolito i gloriosi concorsi a cattedra che, pur con tutte le loro pecche, selezionavano i giovani laureati più preparati (vincere un concorso a cattedra rappresentava un traguardo importante).

Abbiamo istituito le fallimentari Scuole di Specializzazione all'Insegnamento ed una procedura di selezione dei docenti che ricorda quella dei vecchi uffici di collocamento. Ci manca solo che dichiariamo intangibile il diritto dei precari a continuare a lavorare e semmai ad essere immessi in ruolo indipendentemente dalle necessità della scuola ed indipendentemente da una realistica valutazione sul loro effettivo contributo alla qualità del servizio scolastico. Certo, in Italia troppo spesso la scuola, come le altre pubbliche amministrazioni, è stata governata avendo di mira non le esigenze degli utenti del servizio ma quelle dei dipendenti che vi prestano la loro opera. Il che ha storicamente rappresentato la principale causa della sua dequalificazione. E questo dovrebbe far riflettere i cantori della scuola pubblica, oggi evidentemente troppo presi dalla necessità di cavalcare demagogicamente la protesta dei precari.

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