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giovedì 25 novembre 2010

Contributi per quotidiani, stampa, esagerati.

Non è per iniziare a fare qualche critica ma giudicate voi.
Ho linkato il report dei contributi statali all'editoria.
Date un occhiata per curiosità, l'ho fatto anch'io e guardate quali sono le cifre!

http://www.governo.it/DIE/dossier/contributi_editoria_2008/stampa.html

domenica 7 novembre 2010

Tutto sui mass media e sulla comunicazione.


Mass Media
di Cesare Del Frate


 






GENERE DI MEDIA? RADIO, TELEVISIONE E FAMIGLIA MODERNA
 






Se i media hanno il potere di influire radicalmente sulla percezione che abbiamo di noi
stessi, questo potere è particolarmente evidente nel ruolo che giocano nella costruzione
della nostra identità di genere. “Costruzione” e “genere” sono due concetti
inestricabilmente legati nella teoria sociale contemporanea, da quando il pensiero
femminista ha iniziato a mettere in questione il determinismo biologico attraverso il quale
sono categorizzati il maschile, il femminile e l’orientamento sessuale: “genere” si oppone a
“sesso” come quella dimensione identitaria non deducibile meccanicamente da attributi
biologici.
Il genere è allora la genealogia della sua costruzione sociale, in cui la
dimensione individuale si interseca con strutture storiche e culturali che rendono intelligibili
e vivibili certe forme di vita piuttosto che altre.
L’idea di costruzione sociale del genere ha aperto un ricchissimo campo d’analisi,
permettendo di interrogare le formazioni storiche e sociali sottese alle costellazioni valoriali
e ai comportamenti; in particolare, i gender studies hanno decostruito una serie di
opposizioni simboliche, quali pubblico/privato, attività/passività, ragione/passione, in cui il
primo termine (implicitamente maschile) è valorizzato ed il secondo svalutato. Parlare di
genere, invece che di sesso, consente di problematizzare ciò che saremmo portati a
ritenere “naturale”: ad esempio la domesticità, la remissività, la propensione alla cura e
all’abnegazione delle donne da un lato, e dall’altro l’aggressività, la razionalità, la
vocazione pubblica degli uomini. E non solo, ma anche la naturalità dell’orientamento
eterosessuale.
Ovviamente il concetto di genere non ha solo una valenza analitica ed epistemologica:
supporta anche rivendicazioni politiche volte a contestare la discriminazione sessuale, in
nome di un’uguaglianza e di una libertà che hanno come premessa la decostruzione del
“mito” della naturalità. La critica femminista si fonda, in ultima analisi, sulla sottrazione
delle donne (e degli uomini) ad un presupposto destino biologico che assegnerebbe
identità fisse ed immutabili. Se il genere è una costruzione sociale e non un dato
immodificabile, allora possiamo incidere su questa costruzione, lavorare per costruire
identità differenti al di là del sessismo e della discriminazione4.
Il lavoro dell’identità passa per la cultura: ecco perché i media, in quanto veicoli principali
dei simboli e dell’ordine del discorso, sono da sempre stati al centro dell’attenzione della
critica femminista e, più in generale, dei gender studies. Riguardo a tale filone di ricerca
proporrò, di seguito, una lettura selettiva, che prende le mosse dalla recente “svolta
qualitativa” nella ricerca sull’audience. Le ricerche a cui farò principalmente riferimento
derivano dall’approccio in senso lato etnografico6 che ha assunto sempre maggiore
rilevanza negli studi sul pubblico, fino a configurarsi come una sorta di “paradigma”. Nelle
analisi qualitative dei media c’è una rinnovata attenzione ai processi di interpretazione ed
assimilazione dei testi da parte dei soggetti, secondo un’impostazione con un vasto
background teorico, che va dalla “svolta linguistica” al modello semiotico del lettore,
dall’etnografia postmoderna alle teorie post-strutturaliste sulla disseminazione dei
significati.
Non potendo ricostruire l’intero campo di studi, presenterò due prospettive fra loro
collegate che consentono di guardare in modo interessante al nesso identità-generemedia.
Per prima cosa, discuterò della rilevanza dell’immaginario culturale nella
strutturazione dell’identità di genere. In seguito, esaminerò ricerche empiriche che
mostrano la rilevanza del consumo mediale nella costituzione delle routines e delle
pratiche della vita quotidiana che sostengono ed in cui sono calate le identità di genere.
L’identità si radica nei tempi e nei luoghi della vita quotidiana: tempi e luoghi che vengono
definiti anche secondo coordinate di genere in quella pratica situata che è il consumo
mediale. Infine, mi occuperò delle forme di domesticazione dei media, con riferimento alla
radio e alla televisione, per mostrare i modi in cui i mezzi di comunicazione vengono
integrati nella vita domestica e, al contempo, ridefiniscono la vita familiare in cui sono
inseriti. Il filo rosso dell’argomentazione è il nesso fra media, consumo familiare, identità di
genere, in una prospettiva storico-sociologica che prende in esame l’ingresso nelle case
della radio e della televisione.

Che genere di immaginario?

L’elaborazione dell’identità di genere avviene quindi, per gran parte, nella dimensione
culturale della rappresentazione: ecco perché i media sono sempre stati uno dei focus
principali dell’interesse e della ricerca nei gender studies. Il nostro, dice lo studioso di
media Thompson, è un mondo mediato, nel senso che il fare esperienza è sempre più
affidato alla mediazione delle rappresentazioni mediali:

Le forme simboliche mediate plasmano sempre più sia la nostra conoscenza
dell’universo che si trova al di là della sfera di ciò che sperimentiamo
personalmente, sia le nostre idee sulle posizioni che occupiamo in esso.

La sfera dell’esperienza si allarga ben al di là del campo di azione consentito dalla
presenza corporea: il mondo è, in gran parte, ciò che ne vediamo riflesso nello schermo
dei media. E la rappresentazione del mondo è anche la rappresentazione di noi stessi, del
posto che vi occupiamo: la nostra identità non può prescindere dalle immagini che
dovrebbero rispecchiarci. Almeno secondo un’idea ingenua dei media: più che di mero
rispecchiamento, si tratta qui di un processo costituente, che installa e, in un certo senso,
“crea”, mentre li racconta, il mondo e i soggetti che lo abitano, il contesto e gli attori che
noi siamo. Non sto avallando una concezione deterministica dell’influenza dei media:
l’identità non è l’effetto meccanico della rappresentazione mediale, in un gioco di
ribaltamento di specchi. Anzi, la ricerca sociale sui media oggi insiste sugli esiti spesso
imprevedibili dei processi di ricezione e lettura mediale: i soggetti si riappropriano dei
significati attraverso pratiche di interpretazione incessanti e complesse, lo stiamo per
vedere. Ciò che vorrei sottolineare è che il nostro rapporto con i media non è esteriore: i
media non si limitano a rispecchiarci, né noi, per converso, siamo semplicemente la
proiezione delle immagini mediali. C’è piuttosto un rapporto intimo, soprattutto per quanto
riguarda l’identità di genere. Un rapporto in cui si elabora il senso di sé e della propria
storia nella cornice di racconti e storie ben più vasti:

La fantasia non rappresenta soltanto un esercizio cognitivo, un film interiore
che proiettiamo all’interno del teatro della mente. Essa struttura la
relazionalità e partecipa alla stilizzazione dell’incarnazione stessa. I corpi non
sono spazialità date. Nella loro spazialità, essi si attuano nel tempo:
invecchiando, cambiando forma, cambiando significato – a seconda delle loro
interazioni – e la rete di relazioni visive, discorsive e tattili che diviene parte
della loro storicità, del loro passato, presente e futuro.

A questo proposito Tota, riprendendo una metafora proposta dall’antropologo Augé,
parla di una “guerra dei sogni” che avviene sul campo di battaglia dell’immaginario:

Le immagini diventano letteralmente risorse attraverso cui negoziare la
definizione del reale, spazi e tempi entro cui competere per dare forma alla
propria soggettività [...]. in tal senso, l’immaginario è ciò che istituisce l’ordine
del possibile e quello del probabile, strutturando materialmente i confini di ciò
che siamo o non siamo in grado di pensare. Senza immagini l’io non può
pensare se stesso.

La metafora della guerra dei sogni sottolinea sia il dinamismo storico dell’immaginario, sia
il lavoro di riappropriazione dei simboli da parte dei soggetti. Le rappresentazioni del
genere, allora, possono essere analizzate, da un lato, secondo la profondità della loro
stratificazione genealogica e la complessità della loro circolazione discorsiva ed
istituzionale, dall’altro guardando alle pratiche di interpretazione e risignificazione delle
immagini che rendono l’atto del vedere sempre singolare.


Ma allora in che modo concettualizzare l’influenza dei media nella costruzione dell’identità
di genere? Tota propone un modello a tre stadi, che parte dalla diffusione di certi immagini
del maschile e del femminile per arrivare alla creazione di un immaginario che favorisce,
pur non determinando, certe identificazioni piuttosto che altre:

Immagini di genere contenute nei testi mediali (un telefilm, uno spot
pubblicitario, un talk show)

Maggiore diffusione di una certa rappresentazione della donna o dell’uomo in
un certo contesto sociale (ad esempio, fra gli/le adolescenti italiani/e, se lo
spot è destinato ad un target giovane)

Maggiore probabilità che gli/le adolescenti italiani/e si identifichino con le
immagini e i modelli relazionali proposti dal testo mediale in questione19

Il concetto utilizzato da Tota di probabilità non va inteso in senso unicamente statistico,
perché si riferisce anche, e soprattutto, all’apertura di un orizzonte di possibilità. Il vero
potere dell’immaginario risiede proprio nella sua capacità di delimitare ciò che è o non è
possibile (pensabile, raffigurabile), le immagini attraverso le quali possiamo edificare il
nostro senso di sé in modo più o meno coerente. Ad esempio, le pubblicità (Carosello, per
citare soltanto il contenitore pubblicitario più noto) ed i programmi televisivi del primo
dopoguerra mostravano come modello di donna la casalinga moderna e buona madre. La
vocazione al lavoro retribuito e l’aspirazione alla carriera non erano integrabili in questa
immagine: erano un’assenza, un vuoto, nell’orizzonte di possibilità configurato
dall’immaginario. Ancora oggi la nostra società stenta a proporre immagini coerenti della
donna madre e lavoratrice, e la coesistenza di questi due ruoli, anche a livello di
rappresentazioni mediali, è spesso contraddittoria o, quanto meno, problematica.

Anche la figura del padre è segnata, nell’immaginario mediale, da forti aporie. Come rileva
Hochschild, le ansie generate dall’instabilità del mondo del lavoro e, più in generale, dalla
crisi delle forme di socializzazione, tendono ad alimentare il mito rassicurante dell’intimità
domestica, dove la casa diviene il rifugio idealizzato da un mondo esterno le cui certezze
sono state erose. L’idealizzazione della casa è anche l’idealizzazione iperbolica della
madre, forse la più potente ideologia di genere contemporanea. Forti e Guaraldo
collegano il mito della maternità allo sviluppo della biopolitica nelle società liberali, in ottica
foucaultiana, analizzando la costruzione del “discorso maternalista” e della donna come
s/oggetto biopolitico:

Da Bowlby a Winnicott, passando per il celebre Doctor Spock fino
all’insospettabile Talcott Parsons, la nuova tendenza nel mondo delle scienze
sociali [del dopoguerra] è quella di attribuire al legame tra madre e figlio – e a
quella che lo stesso Parsons chiamò «maternità esclusiva» – una «necessità
funzionale» al fine di proteggere i bambini (e gli uomini) dalla durezza della
vita iperproduttiva di una società tutta permeata da logiche di mercato.

Commentando le tesi di Hochschild, potremmo aggiungere che il mito materno è da un
lato ingombrante ed opprimente per molte donne, dall’altro oscura la costituzione di
un’immagine matura e significativa di paternità.
Un altro caso significativo sul potere costituente dell’immaginario riguarda le identità
stigmatizzate: quelle gay e lesbica. Butler, discutendo di tali identità, analizza la funzione
normativa e regolatoria dell’immaginario nel delimitare ciò che conta come umano e ciò
che invece ne è escluso. Nel momento in cui il desiderio e la relazione eterosessuale
vengono istituiti come l’unica e vera forma di desiderio e relazione, la soggettività gay si
trova ad essere derealizzata. È ciò che non corrisponde alle norme che regolano il
desiderio, l’altro fantasmatico dell’umano:

Il fatto di essere definiti irreali e che questa definizione venga, per così dire,
istituzionalizzata come forma di trattamento differenziato significa diventare
l’altro in opposizione al quale si definisce l’umano [...]. Per poter essere
oppressi occorre per prima cosa diventare intelligibili e scoprire che si è
essenzialmente inintelligibili (che in realtà le leggi culturali e linguistiche non ti
considerano possibile), significa scoprire che non ti è ancora stato consentito
di accedere all’umano, significa scoprire che stai parlando, solo e sempre,
come se tu fossi umano, ma con la sensazione di non esserlo, significa
scoprire che il tuo linguaggio è privo di significato e che non vi sarà alcun
riconoscimento, poiché le norme, attraverso cui si attua il riconoscimento, non
sono a tuo favore.

Butler reinterpreta la dialettica hegeliana per sostenere che, nell’immaginario, avviene un
riconoscimento asimmetrico in cui il soggetto (eterosessuale) si costituisce escludendo ed
opponendo a sé una soggettività negata, un meno-che-soggetto (omosessuale).
Applicando il discorso di Butler al nostro argomento, possiamo notare come l’immaginario
mediale escluda costitutivamente la rappresentazione della soggettività omosessuale, così
contribuendo non solo alla sua stigmatizzazione ma anche alla sua derealizzazione. Dico
costitutivamente perché anche le rare eccezioni in l’omosessualità viene rappresentata si
tratta pur sempre di una raffigurazione tramite i codici dominanti dell’eterosessualità, per
cui il gay è un uomo effemminato e la lesbica una donna mascolina (secondo
un’inversione speculare della norma). Come nel caso del film Il vizietto, ma anche, seppur
in modo molto meno stereotipato e decisamente più divertente, nel telefilm Will & Grace.
L’immaginario mediale, quindi, ha il potere di delimitare ciò che è possibile e ciò che non lo
è nelle forme di soggettivazione. Più che imporre dei modelli, i media regolano la sfera
della possibilità rendendo reali e praticabili certe identità e rendendo inintelligibili
(derealizzando) altre identificazioni. Certo, le norme sociali e simboliche del
riconoscimento e della soggettivazione possono essere disattese: in ogni caso, non
possiamo prescinderne, anche quando le reinterpretiamo o, al limite, le sovvertiamo (in
entrambi i casi con un costo), manteniamo con esse un legame intimo e costitutivo, seppur
nella modalità del disconoscimento.

La radio: da giocattolo tecnologico ad intrattenitrice della famiglia

Il ruolo giocato dai media nella costruzione del genere avviene, prima ancora che sul
piano della rappresentazione, nella vita quotidiana: cioè in quel contesto in cui i media,
intesi come artefatti al contempo tecnologici e culturali, vengono incorporati nelle routines
di tutti i giorni. Da un punto di vista sociologico il tempo e lo spazio non sono dimensioni
già date, bensì strutturate dalle relazioni sociali: è in questa fitta trama che i media si
inseriscono come risorse che riqualificano gli spazi, che organizzano il tempo, ridefinendo i
significati dell’intimità, della scena pubblica, delle dinamiche familiari. Gli studi sociali
sulla tecnologia hanno mostrato che il significato degli oggetti non risiede nelle loro
caratteristiche tecniche, ma nell’uso che ne viene fatto: è questo il modello teorico del
social shaping of technology. Nel caso dei media, Silverstone ha proposto il modello
dell’addomesticamento; il telefono, la radio, la televisione sono costrutti che i soggetti
addomesticano collocandoli nei tempi e luoghi della loro quotidianità. A partire da questo
teorico, gli studi su genere e media hanno esplorato la rilevanza dell’addomesticamento
della tecnologia nella costruzione del genere: discuterò gli esempi della radio e della
televisione.
 
Durante la diffusione iniziale della radio, agli inizi del ’900, i pubblici vedevano in essa sia
un segno di modernità sia uno strumento dall’affascinante manipolabilità tecnica: ce lo
mostra Shaun Moores, in una ricerca condotta con interviste in profondità in cui ha
indagato la memoria culturale della radio29. La ricezione era spesso incerta, e richiedeva il
posizionare fili che agganciassero l’apparecchio a pali, spesso i pali del bucato dietro
casa. Anche altri aspetti tecnici richiedevano vigilanza: le batterie, le procedure di
sintonizzazione, il controllo del suono. La radio, dice Moores, era un “meraviglioso
giocattolo” legato al piacere della sperimentazione tecnica e della manipolabilità
dell’artefatto. Forme di consumo chiaramente codificate come maschili: ed infatti dalle
interviste di Moores emerge una sostanziale esclusione delle donne. La radio era
insomma un “giocattolo” per uomini, il cui consumo si concentrava, più che sul suo
carattere di medium, sul suo essere un meccanismo complesso a cui dedicare attenzione
e nei confronti del quale sviluppare competenze e abilità. Non era tanto importante ciò che
la radio trasmetteva, quanto il lavoro, ed il godimento associato, necessario a sintonizzare,
a “pulire” il suono, a confrontare le diverse rese dei diversi apparecchi. Se l’esperienza
tecnica è culturalmente codificata come “maschile”, troviamo nelle prime forme di
consumo della radio una specifica declinazione di genere nel piacere della manipolazione
della tecnologia, una modalità di fruizione focalizzata sulle caratteristiche tecniche del
medium a scapito del messaggio.
A partire dagli anni ’20 il consumo della radio si diversifica: negli USA i produttori iniziano a
confezionare programmi rivolti ad un pubblico femminile. Questo perché il discorso
radiofonico iniziò a rivolgersi alla famiglia come proprio pubblico privilegiato, ed alle madri
come custodi dell’intimità familiare. La radio stessa stava cambiando. Intanto le modalità di
diffusione del suono, con il superamento dagli auricolari a favore degli altoparlanti,
favorirono un consumo non più individuale ma collettivo. Inoltre il suo aspetto, più attento
al design e alla moda: la radio, da oggetto considerato brutto e ingombrante, stava
acquisendo una funzione di arredamento e di esibizione di status. Progettati da designer
ed architetti, realizzati in elegante bakelite, fortemente pubblicizzati, gli apparecchi della
Murphy o della Ecko si proponevano come elementi indispensabili del comfort della casa
moderna.
La programmazione, che come dicevamo ora costruisce simbolicamente il suo pubblico
come familiare, si organizzò secondo scansioni temporali che dovevano assecondare i
ritmi della vita domestica: di giorno i tempi del lavoro in casa delle mogli, di sera il tempo
del ritrovo fra i coniugi ed i figli. La radio così si proponeva, di giorno, come la compagna
della casalinga nei lavori routinari, la sera come l’amica che avrebbe intrattenuto la
famiglia riunita. In altre parole, la radio contribuì a definire e a stabilizzare quell’“invenzione
recente” che era l’ideologia della domesticità. Non va dimenticato che la divisione fra
luoghi e tempi del lavoro e della casa nasce con la rivoluzione industriale: sebbene la
connotazione simbolica dell’abitazione come luogo femminile sia ben più antica, il
dislocamento dei processi produttivi fuori della casa avviene soltanto con la creazione
delle fabbriche, i mutamenti demografici connessi all’urbanizzazione di massa, la perdita di
importanza, sia economica che simbolica, dell’artigianato e dell’agricoltura. Questa
separazione fra i luoghi sociali della casa e del lavoro, tuttavia, non è ancora una divisione
di genere. Donne e bambini partecipano in massa al mercato del lavoro salariato. Nel
corso dell’ottocento solo una minoranza, vale a dire il ceto borghese, inizia a coltivare
l’ideologia della domesticità femminile, contrassegnando la rispettabilità della donna con la
distanza, che è anche una segregazione, dal lavoro (salariato)32.
Agli inizi del ’900, negli Stati Uniti ed in Inghilterra il panorama sociale cambia: la mobilità
porta strati crescenti della classe operaia nel cosiddetto “ceto medio”. Lo stile di vita
borghese si propone come modello, soprattutto attraverso quello che Sparke chiama il
culto della domesticità. È all’interno di queste trasformazioni che va collocato il ruolo dei
mezzi di comunicazione nel ridefinire le identità di genere. Adottando e diffondendo il
modello della famiglia borghese, con il suo “eroe”, il lavoratore disciplinato, e la sua
“vestale”, la madre-casalinga, la radio e la televisione si pongono come i principali alfieri
del culto della domesticità.
La codificazione simbolica della radio associa l’artefatto tecnologico al focolare domestico,
quasi ad identificarli. Un articolo di Radio Times del 1935 recita: «Lasciarsi alle spalle la
pioggia battente, chiudere la porta, abbassare le tendine e accendere il fuoco nel
caminetto – ecco uno dei veri piaceri della vita [...]. Solo quando vi siete sistemati vicino al
vostro caminetto apprezzerete davvero il divertimento che la radio può offrirvi»34. La
privatizzazione del tempo libero e dello svago aveva il suo centro nella casa e nella
famiglia, anche grazie a radio e televisione, in sintonia con il modello borghese ed in
opposizione a quello che veniva considerato il poco rispettabile girovagare per strada o
divertirsi nei bar dei ceti inferiori:

Se prima erano escluse dal pubblico degli ascoltatori, le casalinghe e le madri
divennero per molti versi centrali in questa nuova celebrazione della “famiglia”
compiuta dalla radio. I programmi radiofonici di giorno si rivolgevano alla
donna nella sua veste di custode della sfera privata, informandola sulle
tecniche di allevamento dei bambini o consigliandola sulla gestione della casa
[...]. Tali programmi equiparavano la salute dei membri della famiglia alla
“salute” generale della nazione. Il benessere del corpo degli individui e quello
del “corpo sociale” nel suo complesso venivano esplicitamente connessi tra loro.

Le formazioni discorsive veicolate dalla radio chiedono alla casalinga di farsi garante
dell’ordine morale della famiglia, assicurando così la riproduzione della società.
Riproduzione materiale e simbolica sono qui un tutt’uno, compendiati e, in un certo senso,
incarnati, da quella madre a cui si chiede di corrispondere alle esigenze della nazione.
Che coincidono con quelle della famiglia, o almeno così vengono presentate. Se i mass
media, sincronizzando i lettori/spettatori di tutto lo Stato, creano per la prima volta un
sentimento di coappartenenza ad una comunità nazionale, come ha mostrato Benedict
Anderson36, la storia culturale della radio ci mostra il differenziale di genere insito in quel
messaggio apparentemente universale che la nazione trasmette, in tutti i sensi, ai cittadini.
In una complessa compenetrazione di retoriche politiche e vita quotidiana, nel contesto
ordinario del salotto con radio, alle donne è chiesto di vigiliare sulla rigenerazione dei
valori e dei sentimenti che stanno a fondamento della società.

Nella prima metà del ’900 la radio viene addomesticata nella vita quotidiana prima come
giocattolo artificiale maschile, ed in seguito come compagna della casalinga ed
intrattenitrice della famiglia. Abbiamo qui a che fare con un mutamento profondo sia dei
modelli familiari sia delle attività culturali, che si ritraggono dallo spazio pubblico per
privatizzarsi accanto al focolorare del culto della domesticità. Infine, questo ritrarsi è, al
contempo, il dispiegarsi di una nuova forma di biopolitica della nazione, in cui la madre
viene designata e celebrata come la custode dell’ordine morale.

La televisione: sogno ed incubo della casalinga moderna

La televisione è il medium più emblematico della rivoluzione della cultura di massa:
incarna le ansie e le contraddizioni della mediatizzazione della cultura e della vita
quotidiana, tanto da essere stata innalzata a feticcio che in sé riassume tutti i mali o tutte
le promesse del progresso. Vorrei di seguito mostrare come il discorso sulla televisione sia
stato orchestrato secondo uno spartito di genere, in base alla femminilizzazione simbolica
dello spettatore e alla codificazione del medium come centro della vita domestica.
Nel suo fondamentale studio sulla televisione Raymond Williams definisce il tubo catodico
il fulcro di quella privatizzazione mobile che ha ridefinito la vita e la socialità urbana del
dopoguerra, in pieno boom economico38. Con privatizzazione mobile Williams intende la
polarità fra vita domestica e vita lavorativa che organizza le società della ricostruzione
economica e sociale postbellica. Mentre le città accentrano le attività produttive, in
concomitanza con l’espansione del terziario, i lavoratori si spostano in periferia nei nuovi
quartieri suburbani che intendono offrire un ambiente tranquillo e rilassato.

[La complessità della società moderna è] caratterizzata da due tendenze,
apparentemente contraddittorie ma intrinsecamente connesse, dello stile di
vita della moderna società urbana industriale: da un lato la mobilità, dall’altro
l’apparente autosufficienza della residenza familiare. Il primo periodo della
tecnologia pubblica, ben esemplificato dalle ferrovie e dall’illuminazione
urbana, veniva sostituito da un tipo di tecnologia per il quale non è stata
ancora trovata una definizione soddisfacente; una tecnologia funzionale ad
uno stile di vita mobile, ma allo stesso tempo centrato sull’abitazione: una
forma di privatizzazione mobile. Il broadcasting, nella sua forma applicata, fu
il prodotto sociale di questa tendenza.

In contrapposizione allo spazio pubblico del lavoro, epitomizzato dal caos e dalla frenesia
cittadini, la periferia di case a schiera, giardini e filari di alberi promette un rifugio
rassicurante in un contesto artificialmente naturale. Il lungo processo storico di
consolidamento della famiglia mononucleare, e la conseguente privatizzazione dello
spazio domestico, trova qui il suo culmine: la riorganizzazione degli spazi della produzione
porta alla dispersione della famiglia allargata, insieme alla progettazione dello spazio
domestico secondo i dettami modernisti dell’efficienza e della funzionalità. La crescente
distanza fra la residenza, l’ufficio e la fabbrica stimolò l’espansione delle tecnologie della
mobilità, dominate dai due artefatti che in un certo modo simbolizzano il secolo: la
televisione e l’automobile. L’automobile è lo strumento che permette di inserirsi nella
struttura produttiva in trasformazione. La televisione crea quel collegamento con l’esterno
e con la sfera pubblica di cui la casa ha bisogno.
La mobilità va qui intesa non solo come fenomeno fisico: il trasporto dei corpi o delle
immagini. Si tratta anche di una mobilità simbolica fra pubblico e privato e fra le diverse
cornici di senso dell’ordine sociale. Non a caso l’automobile e il televisore sono diventati lo
status symbol del lavoratore e della famiglia moderni, entrambi sovraccaricati da una
costellazione immaginaria che identificava il progresso stesso con la mobilità.

La televisione allora entra nelle case come tramite che media il rapporto con l’esterno
secondo le esigenze della ridefinizione delle reti sociali nel paradigma della mobilità. Più
ancora della radio, la TV si propone come amica e compagna della casalinga a fronte
dell’isolamento imposto dalla privatizzazione mobile e dal lavoro domestico. Nel verde
quartiere residenziale, nella casa il cui acquisto ha segnato il “rito” di ingresso della
famiglia nel ceto medio, il capofamiglia è uscito in macchina per andare al lavoro e la
donna, mentre svolge le routines della cura della casa e dei figli, si ritrova isolata. La TV
qui assolve una funzione ambientale, secondo la nota definizione di Lull: sottofondo
luminoso e sonoro delle incombenze domestiche, il contenuto del messaggio è meno
importante della funzione di “vicinanza” e di “accompagnamento” .
Per Meyrowitz la televisione assolve un importante ruolo emancipatorio, perché consente
alle donne degli anni ’50 e ’60 di superare il confinamento domestico, tanto da porsi come
terreno di cultura per l’imminente contestazione del movimento femminista. Tuttavia,
Meyrowitz trascura il ruolo giocato dalla televisione nella riproduzione dell’ideologia
familiare: con la televisione la casalinga viaggia rimanendo ferma, e il luogo in cui rimane,
materialmente e soprattutto simbolicamente, è propio la casa. Secondo la famosa
metafora della “finestra sul mondo”, la televisione consente l’accesso a luoghi distanti
attraverso la mobilità dell’immaginario: in questo senso, la TV può essere considerata un
medium che rompe la segregazione domestica femminile ma che, al contempo, opera
questa “trasgressione” senza mettere realmente in discussione i confini simbolici e
materiali della casa. La casalinga evade trasportata dall’immaginazione televisiva, il tutto
mentre porta a termine i lavori domestici.
Sulle politiche di genere del consumo televisivo rimane fondamentale la pioneristica
ricerca etnografica di David Morley, che ha indagato le diverse relazioni con il medium dei
membri della famiglia. Dalle osservazioni e dalle interviste di Morley emergono differenti
stili di fruizione: gli uomini sono interessati ai programmi sportivi e di informazione, le
donne alle fiction e ai programmi di intrattenimento. I due stili di non sono paritari, come
Morley commenta ironicamente parlando di “politica del telecomando”: quando il marito è
a casa, è lui a decidere quali programmi guardare, impugnando il telecomando come una
sorta di “scettro” del potere. Non si tratta però soltanto del controllo della televisione, ma
anche della gerarchia morale fra i due stili di visione. L’interesse per i telegiornali ed i
programmi di approfondimento è culturalmente approvato e legittimato, cosa che non vale
per la passione per le fiction e le soap operas. Abbiamo chiaramente a che fare con una
serie di opposizioni simboliche che si intersecano con il binarismo di genere:
razionalità/irrazionalità, informazione/intrattenimento, cittadinanza attiva/cittadinanza
passiva, attenzione critica/sguardo irriflessivo, autocontrollo/emotività.
La capacità della televisione di connettere l’esterno con l’interno può essere vista,
ritornando a Williams, come la risposta alle esigenze della mobilità privatizzata: un lavoro
di interfaccia fra la sfera pubblica e quella privata, scandita secondo una
“complementarietà gerarchizzata” di ruoli fra l’uomo e la donna. Su questi punti costituisce
ormai un classico la ricerca svolta da Lynn Spigel sulla storia culturale della televisione,
lavoro condotto tramite l’analisi di riviste femminili, delle pubblicità e di riviste di settore46.
Per prima cosa, Spigel nota che all’utopia della perfetta integrazione sociale tramite la
televisione facevano da contraltare ansie, femminili, sulla segregazione della famiglia
mononucleare. Nelle riviste degli anni ’50 e ’60 esaminate dalla ricerca abbondano le
immagini di mariti pigramente assuefatti alla televisione mentre le mogli puliscono; un altro
monito ricorrente riguarda i bambini che corrono rischi psicologici e morali per la
sovraesposizione al medium. La televisione era quindi al centro di discorsi contrastanti, fra
esaltazione del progresso della famiglia moderna e preoccupazione riguardo i rapporti fra
le generazioni e la disgregazione della famiglia stessa.
La televisione può essere così analizzata come un artefatto polivalente, sia perché
oggetto di speranze e di ansie conflittuali, sia perché attua un ruolo di negoziazione del
confine fra pubblico e privato:

Nel contesto dello spostamento verso i quartieri residenziali periferici, la
televisione fu immaginata come un “appuntamento romantico”. Le pubblicità
ritraevano coppie vestite alla moda in posa davanti alla TV come nel mezzo di
una serata a passeggio per la città. Mentre la televisione veniva così
promossa come un’immaginaria serata in città, il modello della televisione
come “teatro domestico” faceva altrettanto spesso riferimento ad un ritorno
nostalgico al valori sedentari della famiglia [...]. In questo senso, i pubblicitari
promettevano che la televisione avrebbe negoziato i desideri inestricabili della
partecipazione alla sfera pubblica e allo stile di vita familiare-privatizzato. La
TV offriva un viaggio immaginario nel mondo metropolitano mentre, al
contempo, consentiva ai membri della famiglia di rimanere nello spazio
protetto della casa di periferia .


Dalla ricerca di Spigel emerge un ulteriore significato dell’articolazione del nesso
pubblico/privato. Se fin qui abbiamo parlato della mobilità fra casa e mondo del lavoro,
possiamo ora considerare anche l’aspetto del consumo. Lo stile di vita metropolitano
ritratto nei programmi televisivi è un potente veicolo di diffusione della cultura
consumistica. La televisione negozia il divergente rapporto fra il desiderio di
partecipazione al rutilante universo dei consumi, da un lato, e dall’altro l’aspirazione alla
sicurezza dell’intimità familiare.


Le mie Conclusioni

Radio e televisione sono entrate nelle case venendo addomesticate da donne e uomini.
Nel processo, hanno contribuito a rimodellare il significato della vita domestica in cui
venivano inserite. Il periodo è quello delle trasformazioni della società in corso di
modernizzazione, un lasso di tempo dominato dai miti interrelati della mobilità e della
domesticità, l’epicentro di questi mutamenti era la famiglia mononucleare ed il suo salotto
con radio e TV. La storia culturale e la storia del consumo dei mass media, da questo
punto di vista, mostrano la complessità, e anche le contraddizioni, della costruzione dei
modelli di genere e di intimità domestica, catturati da utopie modernizzanti e da ansie di
disgregazione.


http://www.metabasis.it/6/pdf_06/06_05_DelFrate.pdf

venerdì 5 novembre 2010

La strage di Portella della Ginestra. 1° maggio 1947

Nello spiazzo a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, la festa del primo maggio 1947, a cui partecipavano migliaia di persone, fu interrotta da una sparatoria che, secondo le fonti ufficiali, causò 11 morti e 27 feriti. Successivamente, per le ferite riportate, ci furono altri morti e il numero dei feriti varia da 33 a 65.
I contadini dei paesi vicini erano soliti radunarsi a Portella della Ginestra per la festa del lavoro già ai tempi dei Fasci siciliani, per iniziativa del medico e dirigente contadino Nicola Barbato, che era solito parlare alla folla da un podio naturale che fu in seguito denominato "sasso di Barbato". La tradizione venne interrotta durante il fascismo e ripresa dopo la caduta della dittatura. Nel 1947 non si festeggiava solo il primo maggio ma pure la vittoria dei partiti di sinistra raccolti nel Blocco del popolo nelle prime elezioni regionali svoltesi il 20 aprile. Sull'onda della mobilitazione contadina che si era andata sviluppando in quegli anni le sinistre avevano ottenuto un successo significativo, ribaltando il risultato delle elezioni per l'Assemblea costituente. La Democrazia cristiana era scesa dal 33,62% al 20,52%, mentre le sinistre avevano avuto il 29,13% (alle elezioni precedenti il Psi aveva avuto il 12,25% e il Pci il 7,91%).
La campagna elettorale era stata abbastanza animata, non erano mancate le minacce e la violenza mafiosa aveva continuato a mietere vittime. Il 1947 era cominciato con l'assassinio del dirigente comunista e del movimento contadino Accursio Miraglia (4 gennaio) e il 17 gennaio era stato ucciso il militante comunista Pietro Macchiarella; lo stesso giorno i mafiosi avevano sparato all'interno del Cantiere navale di Palermo. Alla fine di un comizio il capomafia di Piana Salvatore Celeste aveva gridato: "Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre" e la stessa mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato la moglie di un "qualunquista truffatore" - come si legge in un servizio del quotidiano "La Voce della Sicilia" - aveva avvertito le donne che si recavano a Portella: "Stamattina vi finirà male" e a Piana un mafioso non aveva esitato a minacciare i manifestanti: "Ah sì, festeggiate il 1° maggio, ma vedrete stasera che festa!" (in Santino 1997, p. 150). Eppure nessuno si aspettava che si arrivasse a sparare sulla folla inerme, ormai lontana la memoria dei Fasci siciliani e dei massacri successivi.


Prima i mafiosi e i partiti conservatori poi solo i banditi

La matrice della strage appare subito chiara: la voce popolare parla dei proprietari terrieri, dei mafiosi e degli esponenti dei partiti conservatori e i nomi sono sulla bocca di tutti: i Terrana, gli Zito, i Brusca, i Romano, i Troia, i Riolo-Matranga, i Celeste, l'avvocato Bellavista che durante la campagna elettorale aveva tuonato contro le forze di sinistra e a difesa degli agrari. I carabinieri telegrafano: "Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia at sfondo politico con assoldamento fuori legge"; "Azione terroristica devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia" (ivi, p. 153). Vengono fermate 74 persone tra cui figurano mafiosi notori. All'Assemblea costituente il giorno dopo la strage Girolamo Li Causi, segretario regionale comunista, lancia la sua accusa: dopo il 20 aprile c'è stata una campagna di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si intratteneva con i mafiosi e tra gli sparatori c'erano monarchici e qualunquisti. Viene interrotto da esponenti dei qualunquisti e della destra e il ministro degli interni Mario Scelba dichiara che non c'è un "movente politico", si tratta solo di un "fatto di delinquenza" (ivi, p. 155). Scelba ritorna sull'argomento in un'intervista del 9 maggio: "Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari" (ivi, p. 159). Nel frattempo i fermati vengono rilasciati e si afferma la pista che porta alla banda Giuliano, il cui nome viene fatto dall'Ispettore di Pubblica Sicurezza Ettore Messana, lo stesso che l'8 ottobre 1919 aveva ordinato il massacro di Riesi (15 morti e 50 feriti) e che ora Li Causi addita come colui che dirige il "banditismo politico". La banda Giuliano sarà pure indicata come responsabile degli attentati del 22 giugno in vari centri della Sicilia occidentale, con morti e feriti.
L'inchiesta giudiziaria si concentra sui banditi e procede con indagini frettolose e superficiali: non si fanno le autopsie sui corpi delle vittime e le perizie balistiche per accertare il tipo di armi usate per sparare sulla folla. Il 17 ottobre 1948 la sezione istruttoria della Corte d'appello di Palermo rinvia a giudizio Salvatore Giuliano e gli altri componenti della banda. La Corte di Cassazione, per legittima suspicione, decide la competenza della Corte d'assise di Viterbo, dove il dibattimento avrà inizio il 12 giugno 1950 e si concluderà il 3 maggio 1952, con la condanna all'ergastolo di 12 imputati (Giuliano era stato assassinato il 5 luglio del 1950).
Nella sentenza, a proposito della ricerca della causale, si sostiene che Giuliano compiendo la strage e gli attentati successivi ha voluto combattere i comunisti e si richiama la tesi degli avvocati difensori secondo cui la banda Giuliano aveva operato come "un plotone di polizia", supplendo in tal modo alla "carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia" (ivi, pp. 191 s). Cioè: la violenza banditesca era stata impiegata come risorsa di una strategia politica volta a colpire le forze che si battevano contro un determinato sistema di potere. Restava tra le righe che le "carenze dello Stato" erano da attribuire all'azione della coalizione antifascista allora al governo del Paese. La sentenza di Viterbo non toccava il problema dei mandanti della strage e dell'offensiva contro il movimento contadino e le forze di sinistra, affermando esplicitamente che la causa doveva essere ricercata altrove.
Contro la sentenza fu proposto appello e il processo di secondo grado si svolse presso la Corte d'assise d'appello di Roma (nel frattempo molti degli imputati, tra cui Gaspare Pisciotta, erano morti). La sentenza del 10 agosto 1956 confermava alcune condanne, riducendo la pena, e assolveva altri imputati per insufficienza di prove. Con sentenza del 14 maggio 1960 la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso del pubblico ministero e così la sentenza d'appello diventava definitiva.


Una strage per il centrismo

Nella storia d'Italia il 1947 è un anno di svolta e la strage di Portella ha avuto un ruolo nello stimolare e accelerare questa svolta, intrecciandosi con dinamiche che maturano a livello locale, nazionale e internazionale. Il 13 maggio si apre la crisi politica con le dimissioni del governo di coalizione antifascista presieduto da De Gasperi. Il 30 maggio a Roma e a Palermo si formano i nuovi governi: De Gasperi presiede un governo centrista con esclusione delle sinistre e alla Regione siciliana il democristiano Giuseppe Alessi presiede un governo minoritario appoggiato dai partiti conservatori, senza la partecipazione del Blocco del popolo, nonostante la vittoria alle elezioni del 20 aprile. Si apre così una nuova fase della storia d'Italia, in cui le forze di sinistra saranno all'opposizione. La svolta si inserisce nella prospettiva aperta dagli accordi di Yalta che hanno codificato la divisione del pianeta in due grandi aree di influenza, con l'Italia dentro lo schieramento atlantico egemonizzato dagli Stati Uniti e la guerra fredda come strategia di contrasto e di contenimento del potere sovietico.
Nel gennaio del '47 De Gasperi era andato negli Stati Uniti ma è frutto di una visione semplificatrice pensare che abbia ricevuto l'ordine di sbaraccare le sinistre dal governo. In realtà la svolta del '47 è figlia di un matrimonio consensuale in cui interessi locali, nazionali e internazionali coincidono perfettamente. Il messaggio contenuto nella strage è stato pienamente recepito e da ora in poi a governare, accanto alla Democrazia cristiana che nelle elezioni del 18 aprile 1948 si afferma come partito di maggioranza relativa, dopo una campagna elettorale volta a esorcizzare il "pericolo rosso", saranno i partiti conservatori vanamente indicati come mandanti del massacro. In questo quadro la Chiesa cattolica ha un ruolo di primo piano. Il cardinale Ernesto Ruffini, a proposito della strage di Portella e degli attentati del 22 giugno, scrive che era "inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti" (in Santino 2000, p. 180), plaude all'estromissione delle sinistre dal governo, ma la sua proposta di mettere i comunisti fuori legge, rivolta a De Gasperi e a Scelba, rimarrà inascoltata. I dirigenti democristiani sanno perfettamente che sarebbe la guerra civile.


Alla ricerca dei mandanti

La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell'ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l'ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l'archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963. Nel novembre del 1969 il figlio dell'appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l'esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contratto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l'assicurazione che sarebbe stato amnistiato (in Santino 1997, p. 207).
Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all'unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: "Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero. Attribuire la responsabilità diretta o morale a questo o a quel partito, a questa o quella personalità politica non è assolutamente possibile allo stato degli atti e dopo un'indagine lunga e approfondita come quella condotta dalla Commissione. Le personalità monarchiche e democristiane chiamate in causa direttamente dai banditi risultano estranee ai fatti". Il relatore, il senatore Marzio Bernardinetti, addebitava i risultati deludenti alla mancata o scarsa collaborazione delle autorità: "Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all'approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo" (in Testo integrale…1973).
Nel 1977, in pieno clima di "compromesso storico" tra Partito comunista e Democrazia cristiana, ben poco propizio alla ricerca della verità, il Centro siciliano di documentazione comincia la sua attività con un convegno nazionale dal titolo "Portella della Ginestra: una strage per il centrismo" in cui si ricostruisce il quadro in cui è maturata la strage, considerata non come il prodotto di un disorientamento e di un vuoto politico (come sosteneva anche la storiografia di sinistra: Francesco Renda considerava l'uso della violenza come "repugnante delinquenza comune" e un "errore grossolano" che avrebbe portato all'isolamento dei proprietari terrieri: Renda 1976, p. 23) ma come "un atto di lucida, e ragionata, violenza volto a condizionare il quadro politico, regionale e nazionale" purtroppo coronato da successo (Centro siciliano di documentazione 1977; Santino 1997, pp. 8, 60).
Successivamente ci sono state varie pubblicazioni, più meno documentate, sulla strage e sulla banda Giuliano (Galluzzo 1985, Magrì 1987, Barrese - D'Agostino 1997, Renda 2002) e l'interpretazione della strage di Portella come "strage di Stato" ha segnato buona parte dei lavori del convegno che si è svolto nel maggio del 1997, nel cinquantesimo anniversario (Manali, a cura di, 1999; Santino ivi). Il convegno si concluse con la richiesta della desecratazione della documentazione raccolta dalla Commissione antimafia, pubblicata negli anni successivi in vari volumi (Commissione antimafia 1998-99). Nel frattempo la costituzione dell'Associazione "Non solo Portella", ad opera di familiari delle vittime, e l'attività di ricerca del suo presidente, lo storico Giuseppe Casarrubea, figlio di una delle vittime dell'attentato di Partinico del 22 giugno, hanno portato a significativi risultati (Casarrubea 1997, 1998, 2001). Anche sulla base di perizie effettuate sui corpi di alcuni superstiti si è documentato che tra le armi utilizzate c'erano bombe-petardo di produzione americana; da testimonianze risulta che tra gli esecutori c'erano mafiosi e le ricerche sui materiali dell'archivio dell'Oss (Office of Strategic Services) e del Sis (Servizio Informazioni e Sicurezza) del ministero dell'Interno hanno prodotto ulteriore documentazione sul ruolo degli Stati Uniti (già documentato precedentemente: sugli incontri del bandito Giuliano con l'agente americano Michael Stern: Sansone - Ingrascì 1950, pp.143-150; sulla politica estera degli Stati Uniti, ricostruita attraverso documenti d'archivio: Faenza - Fini 1976) e rivelato i rapporti tra banditismo e formazioni neofasciste (Vasile 2004, 2005).
Ricostruzioni recenti (La Bella - Mecarolo 2003) hanno contribuito ad arricchire il quadro della documentazione sul contesto, sono stati pubblicati significativi documenti degli archivi italiani e americani sui primi anni della Repubblica (Tranfaglia 2004) e un film (Segreti di Stato del regista Paolo Benvenuti, accompagnato da un volume: Baroni-Benvenuti 2003) ha riproposto il tema delle complicità chiamando in causa vari soggetti, dai dirigenti della Democrazia cristiana alla X MAS di Junio Valerio Borghese, ai servizi segreti americani, al Vaticano, in un "gioco delle carte" non sempre convincente.
Sulla base di nuove acquisizioni documentali nel dicembre 2004 i familiari delle vittime hanno chiesto la riapertura dell'inchiesta. Per Portella, come del resto per le altre stragi che hanno insanguinato l'Italia, la verità è ancora lontana.


Riferimenti bibliografici

Baroni Paola - Benvenuti Paolo, Segreti di Stato. Dai documenti al film, Fandango, Roma 2003.
Barrese Orazio - D'Agostino Giacinta, La guerra dei sette anni. Dossier sul bandito Giuliano, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
Casarrubea Giuseppe, Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, F. Angeli, Milano 1997; Fra' Diavolo e il Governo nero. "Doppio Stato" e stragi nella Sicilia del dopoguerra, F. Angeli, Milano 1998; Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, F. Angeli, Milano 2001.
Centro siciliano di documentazione, 1947-1977. Portella della Ginestra: una strage per il centrismo, Cooperativa editoriale Cento fiori, Palermo 1977. Una parte degli Atti del convegno fu pubblicata nel fascicolo Ricomposizione del blocco dominante, lotte contadine e politica delle sinistre in Sicilia (1943-1947), Cento fiori, Palermo 1977.
Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, Pubblicazione degli atti riferibili alla strage di Portella della Ginestra, Roma 1998-99, Doc. XXIII, nn. 6, 22, 24.
Faenza Roberto - Fini Marco, Gli americani in Italia, Feltrinelli, Milano 1976.
Galluzzo Lucio, Meglio morto. Storia di Salvatore Giuliano, Flaccovio, Palermo 1985
La Bella Angelo - Mecarolo Rosa, Portella della Ginestra. La strage che ha insanguinato la storia d'Italia, Teti Editore, Milano 2003.
Magrì Enzo, Salvatore Giuliano, Mondadori, Milano 1987.
Manali Pietro (a cura di), Portella della Ginestra 50 anni dopo (1947-1997), S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1999, con 2 volumi di Documenti, a cura di G. Casarrubea.
Renda Francesco, Il movimento contadino in Sicilia e la fine del blocco agrario nel Mezzogiorno, De Donato, Bari 1976; Salvatore Giuliano. Una biografia storica, Sellerio, Palermo 2002.
Sansone Vincenzo - Ingrascì Giuseppe, 6 anni di banditismo in Sicilia, Le edizioni sociali, Milano 1950.
Santino Umberto, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997; La strage di Portella, la democrazia bloccata e il doppio Stato, in P. Manali (a cura di), op. cit., pp. 347-375; Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.
Testo integrale della relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, vol. II, Cooperativa Scrittori, Roma 1973, Relazione sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia, pp. 983-1031.
Tranfaglia Nicola, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani. 1943-1947, Bompiani, Milano 2004.
Vasile Vincenzo, Salvatore Giuliano, bandito a stelle e a strisce, Baldini Castoldi Delai, Milano 2004; Turiddu Giuliano, il bandito che sapeva troppo, con un saggio di Aldo Giannuli, l'Unità, Roma 2005.

martedì 2 novembre 2010

Sacro e religione nell'analisi sociologica

Sacro e religione nell'analisi

sociologica

Divino, sacro
e religioso non sono sinonimi; se ogni religione implica il sacro, non è
sempre vero il contrario (A de Benoist, 1992).


Marcel Mauss
afferma: "Non è l'idea di Dio, l'idea di una persona sacra che s'incontra in tutti i tipi di religione, bensì l'idea del sacro in generale" (Marcel Mauss, 1968, p. 97).

Il termine “sacro”
ha la sua immediata derivazione linguistica dalla parola latina sacer e nel
significato è ambivalente. Una prima accezione rinvia all'idea
di una forza potente che è percepita con i tratti della potenza della
straordinarietà. Sacro in questo caso allude ad un’entità
sentita o pensata come fonte ultima della vita e la forza vitale fondamentale.
Il sacro indica inoltre un passaggio doloroso che implica la separazione,
distacco, morte ma nello stesso tempo è dotato di una forza attrattiva
potente, è "l'inaccessibile che attrae" (Acquaviva, Pace,
1992).


La struttura
del sacro, contemporaneamente unitaria e duale, nella quale due elementi si
attivano reciprocamente, in cui l'elemento divino e quello umano s’interfacciano
reciprocamente, è essenziale per comprendere la funzione di legame
e mediazione che il sacro è destinato a svolgere.

Nei popoli primitivi,
dopo che si è provveduto alla soddisfazione dei bisogni primari, la
dimensione magico-religiosa è una componente essenziale della vita. Spencer
e Gillen hanno dimostrato che ancora oggi certe popolazioni dell'Africa e
Oceania (che per caratteristiche possono essere assimilati alle culture primitive)
si sentono partecipi di due mondi distinti: quello profano, monotono e fiacco
teso alla sopravvivenza, e quello sacro, carico di energia e di eccitazione.


La ricerca antropologica
mostra la predisposizione strutturale dell'immaginario a suddividere lo spazio
in livelli e orientamenti qualitativamente differenziati. Questo ha indotto
alcuni a pensare che: "il sacro non sia solo un accidente della nostra
percezione del mondo, ma una struttura permanente del nostro rapporto col
mondo e della nostra costituzione psicologica" (J.J. Wunenburger, 1981,
p. 18-19)


Nella maggior parte dei popoli
che noi conosciamo è presente un riferimento a sacro, trascendente
o semplicemente al religioso. Questo ha dato luogo a interpretazioni che
si articolano lungo due direttrici: l'una sostiene che il bisogno religioso
è una costante della "natura umana", che si trasforma solo
per modalità; l'altra afferma che tale bisogno è contestuale
a una data società e potrà essere assente nel futuro (Burgalassi,
83)

Alla prima ipotesi si riconducono
due tendenze: la prima fa riferimento all'esplicita accettazione dell'ipotesi
di Dio, di un "radicalmente altro"; la seconda intravede l'essenza
della religione nelle risposte a quesiti ultimi circa il significato del
vivere, del morire del passato del futuro, dei propri simili, del destino
del cosmo, del senso di amore e solidarietà (Ibidem).


La "religiosità",
a prescindere dall'accettazione-rifiuto dell'ipotesi di Dio (o "radicalmente
altro"), si struttura in modo che ne derivano sistemi coerenti di atteggiamenti,
comportamenti, motivazioni. Si ha così un "mondo vitale"
(nell'accezione di Schutz e Ardigò) o "cosmo sacro" (Eliade
e Gehlen), in cui i tratti inerenti ai gradi e livelli di bisogno e di risposta
religiosa, hanno una loro articolazione e congruenza organica (Ibidem).


Un discorso scientifico sulla
religione si determina a partire: dalla costante dell’insoddisfazione
che accompagna la vita umana; dalla presenza del meraviglioso; dalla continua
ricerca di significati radicali dell'esistenza (Nesti, 83).


Il sacro ha dato luogo a numerose
interpretazioni e può essere compreso associando l'approccio ermeneutico
a quello storico o fenomenologico. La teoria di Taylor, ad esempio,
pone al centro dello sviluppo della religione il culto dei morti e l'animismo,
quella di Marrett mette in dubbio la distinzione tradizionale tra magia
e religione e scienza, introducendo i concetti di rituale, sacro, non logico,
magico, religioso.


Nell'opera Les formes élémentaires
de la vie religieuse del 1912, Durkheim afferma che il sacro proviene dal
"mana", una forza impersonale, centro della religione totemica.
Durkheim sostiene che la religione viene per così dire "dopo"
il sacro, quando gli uomini, passato il momento dell'effervescenza creatrice,
hanno bisogno di amministrare il sacro (Acquaviva, Pace, 1992), essa è
quindi un prodotto sociale (Ries., 1993).


Nel Das Heilige 1917 Rudolf
Otto (1969-1937) definisce il fenomeno religioso "essenzialmente un'esperienza
del sacro". Il sacro comporta come primo aspetto quello di essere una
categoria d'interpretazione dell'ambito religioso nella quale l'uomo si
imbatte durante il suo approccio al divino, al "numinoso", da
cui il termine "sacer". Inoltre il sacro è il "sanctum",
cioé il sacro sotto il suo aspetto di valore oggettivo poiché
costituisce un bene in sé, anche se percepibile solo dall'uomo religioso.


Nel Traité d'histoire
des religions del 1949, Eliade afferma che il sacro si manifesta come potenza
di ordine diverso rispetto alle forze naturali che, nel momento in cui entra
nel mondo fenomenico, diventa una ierofania. Esso si manifesta attraverso
oggetti, esseri animati, persone, simboli che diventano qualcosa d'altro
pur senza cessare di appartenere al proprio ambito naturale. Ogni ierofania
è un fenomeno religioso che l'uomo percepisce, è pertanto
indispensabile l'esperienza umana.


Marcel Mauss (1873- 1950) estende
la teoria durkheimiana del "mana", visto come nucleo del sacro,
alle grandi religioni, Mircea Eliade, nell'opera La nostalgie des origines,
afferma che il sacro eccede il religioso (Mircea Eliade, 1971).


Per Milanesi: "il sacro
corrisponde a quell'atteggiamento complesso di fronte alla realtà
che parte dal presupposto dell’ esistenza di un "quid" (ulteriormente
precisabile, ma certo considerato come "radicalmente" diverso)
che entra in rapporto con la realtà stessa modificandola e condizionandola"
(Milanesi, p. 97).


Per Ferrarotti il sacro è
una realtà continuamente "statu nascendi" che, grazie alla
sua natura ambigua, riesce a manifestarsi, paradossalmente, anche all'interno
della società moderna. Non è la religione-di-chiesa ad esaurire
in sé la dinamica del sacro: essa è solo la gestione istituzionale
e come tale assoggetta il sacro a fenomeni di routinizzazione e burocratizzazione
già evidenziati da Weber (Ferrarotti, 1990).


Acquaviva stabilisce una preliminare
distinzione tra sacro e religione, posti in relazione causale che vede
il sacro all'origine logica e storica delle religioni, le quali si sviluppano
secondo le modalità proprie dell'ambiente culturale nel quale si
trovano. Acquaviva sottolinea poi che il sacro assume la forma psicologica
soggettiva di esperienza del "radicalmente altro", cioè
il “tremendum” e misterioso che caratterizzano quanto si differenzia
dalla profanità del quotidiano.


Il concetto di "sacro"
risulta sfuggente e gli studiosi hanno preferito focalizzare l'attenzione
sulla religione, intesa come forma istituzionalizzata del sacro.


Per Deconchy, la credenza rinvia
all'esperienza e gli individui tendono a fondarne l'autenticità in
due modi: razionalizzandola e facendola diventare parte dell'agire quotidiano;
dando vita o aderendo a istituzioni più o meno stabili che ne garantiscono
continuità e presenza significativa (Deconchy, 1980). Secondo Glock,
l'individuo aderisce ad un sistema di credenze determinato che può
fondarsi sull'esperienza diretta e personale di entità trascendenti
o metaempiriche ma anche sulle conoscenze di dottrine o testi ritenuti sacri
(Glock, 1966).


Il fenomeno religioso, è
stato interpretato in vari modi dai sociologi, ponendo l’attenzione
di volta in volta su aspetti differenti dell’oggetto indagato. Bagnasco,
Barbagli, Cavalli, nel loro Corso di sociologia del 1997, li hanno raggruppati
in cinque ideal-tipi:


Un primo filone interpretativo,
considera la religione come appartenente ad uno stadio primitivo dell’evoluzione
delle società umane, destinata ad essere sostituita dalla scienza
come criterio fondamentale di orientamento delle azioni (Comte e Spencer).


Secondo l’interpretazione
marxista, invece, la religione è un fenomeno che oscura le menti
e impedisce di vedere la luce della ragione (Voltaire); è “sovrastruttura”
ideologica la cui funzione è di occultare i rapporti di dominio (Marx).


Nell’interpretazione funzionalista,
la religione è un’istituzione universale in cui i membri di
una società rappresentano, su un piano trascendente, il vincolo che
li unisce, cioè la società stessa (Durkheim, Parsons).


Un’altra interpretazione
vede la religione come depositaria di idee capaci di produrre trasformazioni
profonde negli assetti sociali e culturali.


Infine un’ultima interpretazione
definisce la religione come esperienza del sacro (Otto).


Comte (1798 - 1857) nel testo
del 1842 Corso di filosofia positiva rielabora lo schema delle tre età
nella storia dell'umanità, già formulato da Saint-Simon, nella
"legge dei tre stadi", secondo la quale l'umanità compie
un’evoluzione intellettuale che porta dalla religione alla scienza.
Nel terzo stadio "positivo o scientifico", giunto al culmine della
propria evoluzione intellettuale, l'uomo può abbandonare, come superate
e dannose, le forme di sapere precedenti quali la religione e la metafisica.
Comte rivela che gli uomini ricorrono alla religione per dare una spiegazione
unitaria e soddisfacente del complesso organismo sociale di cui fanno parte. Considera
la religione come una strategia sociale per creare consenso perché
soddisfa i bisogni profondi dell'uomo e contribuisce, per certi livelli
meno evoluti delle società, a consolidare coesione. La scienza, conoscenza
superiore, diviene la nuova religione laica capace di dare agli uomini valori
socialmente cogenti, il "grande essere".


Durkheim (1858-1917) la religione
impedisce processi sociali dissociativi, imponendo le regole di funzionamento
del sistema agli individui e mettendo in campo una serie di risorse simboliche,
capaci di integrare gli individui ad un insieme di valori collettivi, facendo
sentire loro l’esistenza di una coscienza collettiva superiore alle
singole coscienze soggettive. Per Durkheim è la società ad
essere l'unico dio e la coscienza collettiva è la sua rappresentazione.


La religione per Marx non ha
una sua autonomia nel contesto sociale, essa altro non è che l'involucro
ideologico che di volta in volta le classi sociali utilizzano per rappresentare
il loro status socio-economico e di potere. Essa assolve le due funzioni
di giustificare dell'ordine sociale costituito e surrogare, in mancanza
d'altro, il linguaggio politico delle classi subalterne, che aspirano a
liberarsi dalla condizione di oppressione. La religione non ha alcuna funzione
autonoma ma nasconde i reali rapporti di forza presenti nella società;
è specchio delle contraddizioni sociali e luogo dove il dominio economico
si svela nella forma dell'egemonia culturale e simbolica.


Weber (1864-1920) nell'Etica
protestante e lo spirito del capitalismo evidenzia il contributo che il
cristianesimo ha dato alla genesi del mondo moderno, in particolare mostrando
che il protestantesimo ha favorito l'affermazione del capitalismo. L'interesse
di Weber per la religione, nasce dalla convinzione che le immagini religiose
nel mondo svolgono il ruolo di legittimare comportamenti tradizionali o
innovativi. La religione è una risorsa simbolica di fondamentale
rilevanza per la società: essa si distingue dagli altri codici culturali
perché fornisce una legittimazione del significato al più
alto e generale livello.


Simmel (1858-1918) in Die Religion
(1908), distingue la religiosità dalla religione e sostiene che la
prima in quanto forma interiore dell'esperienza umana precede la seconda,
la quale non è altro che una storicizzazione, cioè una trasposizione
empirica, un’attuazione sul piano organizzativo, mediate diverse modalità
di chiesa, setta, movimento. La religione è un prodotto culturale,
creato attraverso una lunga frequentazione interpersonale mediante esperienze
interattive plurime.


Mead (1863-1931) nella sua opera
Mind Self and Society (1934) afferma gli esseri umani hanno bisogno di elaborare
nella loro mente un insieme di rappresentazioni simboliche della realtà
sociale e la religione è uno di questi, in quanto offre agli individui
un modo per fondare una propria identità (il Self) e una propria
auto-definizione nello spazio sociale.


In Troeltsch (1865-1923), che
focalizza la sua analisi sulla distinzione tra chiesa e setta, il tipo "chiesa"
è caratterizzato dall'organizzazione prevalentemente conservatrice,
dominatrice delle masse e quindi per natura universale, intesa a comprendere
tutto.


Parsons (1902-1979) considera
la religione un "codice" che riesce a regolare un’enorme
quantità di informazioni riportandole ad unità, evitando al
sistema sprechi energetici, conflitti, devianze o paralisi. La religione
è un potente elemento di standardizzazione delle azioni umane per
questo fornisce al sistema una fonte di legittimazione ultima che nessun
altro sistema etico riesce a dare.


Mercuse (1898-1979) e Adorno
(1903-1969), giudicano la religione come un elemento dell'apparato ideologico
degli Stati moderni.


Luhmann concepisce la società
come un sistema la cui complessità, costituita dalla vasta e imprevedibile
gamma di modelli sociali e azioni che gli individui pongono in essere, è
assorbita dai sub-sistemi di cui è composta, senza che sia necessario
ricorrere valori o scelte consensuali da parte degli individui. La religione
è un sub-sistema fra tanti, il cui compito è dare risposte
ad esigenze e problemi di senso soggettivo; è il medium comunicativo
che rende determinato ciò che non lo è, concedendo spazio
all'espressività soggettiva.


In Habermas la religione riveste
un ruolo importante e significativo, in quanto motore di movimenti collettivi
emancipatori e critici nei confronti dell'ordine sociale del capitalismo
maturo.




Schutz afferma che la socializzazione
porta l'individuo a costruirsi diverse province di significato attraverso
cui gestire in modo differenziato i molteplici ruoli che la società
chiama a svolgere. La religione appartiene alle “provincie di significato”
rilevanti perché mondo vitale dentro il quale gli individui, rinforzano
l'atteggiamento di “dare per scontato" l'esistenza di un mondo
ordinato.


Tra gli anni ’60 e ’70
è iniziato un dibattito riguardo al sacro, la sua crisi e il futuro
della religione. Per comprendere le teorie che si sono confrontate riguardo
al tema del sacro e della sua crisi, è interessante riprendere lo
schema proposto per la prima volta da Greimas nel 1969 [1] .




I temi, sacro/non sacro, crisi/non
crisi, sono posti su due assi semantici oppositivi [2], ottenendo un piano
cartesiano in cui ogni quadrante seleziona uno “spazio teorico”
all’interno delle due categorie fondamentali da cui prende le mosse
ciascuna definizione sociologica e che ne stabiliscono i confini di significato.


Le combinazioni che ne risultano Giustifica

sono le seguenti:


(SACRO/CRISI): Il sacro, centrale
per comprendere il fenomeno religioso è in crisi;


(CRISI/NON-SACRO): il sacro
non è centrale per comprendere il fenomeno religioso che è
in crisi;


(NON-CRISI/SACRO): il sacro
,importante per capire il fenomeno religioso, non è in crisi


(NON-SACRO/NON CRISI): il sacro
non è un importante punto di approccio sociologico alla religione;
non c’è crisi nel sacro e neppure nella religione.


La secolarizzazione


Il termine secolarizzazione,
è usato, per la prima volta durante le trattative per la pace di
Westfalia (1648), per indicare il trasferimento ai principi di terre e possedimenti
sottoposti a giurisdizione ecclesiastica [3]


Durante la Rivoluzione francese,
con l'espropriazione dei beni della chiesa trasformatasi in programma politico,
e il termine secolarizzazione indica un insieme di atteggiamenti di indifferenza
per istituzioni e pratiche religiose mirante, coinvolgenti tutta la vita
e l'esperienza.


Durante tutto il '700 la storia
sociale viene dissacrandosi per la progressiva separazione, sul piano organizzativo,
della vita laica da quella religiosa. Ad un minore senso del sacro (come
ampiamente documentato da Acquaviva, 1961), fa riscontro una serie di riduzioni
della moralità. Le nuove idee diffuse nell'Epoca dei Lumi si diffondono
in tutte le classi sociali e urbanizzazione e l'industrializzazione creano
nuovi ruoli e professioni. Tutto questo, porta progressivamente a livello
di massima rilevanza i valori, i modelli, i pregiudizi legati alla dinamica
della nuova società: efficienza, produttività, formalizzazione
dei rapporti (Acquaviva 1961, 1966, 1971).


Il mutamento di valori e la
relativizzazione dei modelli che ne conseguono, influiscono sul perdurare
dei "sistemi di significato" tradizionali che sono abbandonati
o sottoposti a critica. Ad incidere sulla dinamica culturale intervengono
inoltre modelli psicologici, filosofici, teologici che sfociano in un'articolata
critica alla religione.


Tra fine '700 e inizio '800,
il concetto di secolarizzazione assume significati negativi per la chiesa
che si sente aggredita da quanti (gruppi politici e culturali) invocano
una riduzione della sua presenza nella società. Questo processo si
realizza con la progressiva separazione delle sfere economica, politica
dalla religiosa. Più in generale, il termine evoca tutti quei processi
di laicizzazione della cultura che si affermano nella società europea,
dalla crisi della società feudale e dalla nascita della società
moderna (Pace, 92).


Il termine è usato anche
come sinonimo di sottrazione di province del sapere del potere e dell'agire
sociale dal controllo o dall'influenza di istituzioni ecclesiastiche o da
universi simbolico-religiosi. La secolarizzazione è vista come il
prodotto dell'avvento del mondo moderno, una conseguenza dei processi di
emancipazione dei costumi e delle mentalità e come un processo irreversibile.


Harnack afferma che la crescita
della ricchezza della chiesa e la sua organizzazione gerarchica, hanno segnano
l'inizio dei fenomeni di secolarizzazione (A. Harnack, 1901). Parsons, nel
saggio Il Cristianesimo e la moderna società industriale, afferma
che la chiesa ha dovuto abbandonare molte delle sue funzioni non a causa
di un inesorabile declino ma per mutare il suo ruolo per rapportarsi alla
generale differenziazione della società.


Con il concetto di (Entzauberung)
"disincanto" e irreversibile razionalizzazione del mondo, Weber
è il principale interprete della posizione secondo cui i misteri
che circondano l'uomo e la natura sono destinati inesorabilmente ad essere
oggetto di spiegazione razionale. A questo punto di vista è vicino
quello di Cox, il quale sostiene che la scomparsa del sacro va messa in
rapporto con l'espandersi della religione giudaico-cristiana, caratterizzata
dall’identificazione dell'essere con Dio (H. Cox, 1968).


Molti autori si sono dedicati
all’analisi della secolarizzazione. Fra le molte interpretazioni,
le principali sono le seguenti:


- scomparsa della religione
e manifestarsi della terza fase dello sviluppo evolutivo delle società
umane, quella segnata dalla tecnica, dalla scienza e dall'industria (Comte).


- "disincanto" del
mondo (Entzauberung), che si produce nelle società attraverso la
costituzione degli Stati e l'affermarsi dell'industria moderna (Weber).


- definitiva razionalizzazione
della vita sociale e fenomeno di liberazione dalla condizione di minorità
dell’uomo (Kant); maturazione psichica dell'individuo dalla religione,
considerata una nevrosi ossessiva (Freud).


- processo di privatizzazione
della religione con due possibili esiti: passaggio ad un religione invisibile
oppure pluralismo di universi simbolici (Berger, Luckman).


- processo di progressiva perdita
di valore del religioso fino all'ipotesi di un mondo del tutto secolare.
Wilson afferma che la secolarizzazione:


"[...] si riferisce ad
un trasferimento di proprietà, potere attività, funzioni manifeste
e latenti, da istituzioni con riferimento soprannaturale , ad istituzioni (spesso
nuove) che operano con criteri empirici, razionali, pragmatici” (Wilson,
1985, p.11).


- processo legato alla società
industriale e urbanizzata caratterizzato dal venir meno della funzione pubblica
della religione ma non del bisogno di trascendimento (Barth, Bonhoeffer
e Cox).


- processo, "[…]
nel quale i simboli e le forme religiose tradizionali hanno perduto la loro
forza di richiamo" (J. Milton Yinger, 1957, p. 119).


- processo di separazione-differenziazione
funzionale fra religione istituzionalizzata e credenza, tra significati
ultimi dell'individuo e istituzioni religiose (Parsons, Bellah).


- momento di emancipazione delle
chiese da se stesse, e di emancipazione della società dalla religione
e crollo del sistema magico-sacrale (Acquaviva, 73).


Acquaviva è il primo
a teorizzare l' "eclissi del sacro" come di un fenomeno di dissacrazione
vale a dire svuotamento di significato dei riti che non permettono più
l'esperienza del "radicalmente altro" (Acquaviva, 1960). Egli
identifica due effetti storici dovuti alla trasformazione industriale della
società: il primo è la “secolarizzazione del mondo”,
che vede la realtà profana auto-legittimarsi senza ricorso al sacrale-religioso;
il secondo è la “secolarizzazione della religione” che
si apre al profano, adeguandosi ai tempi. Recentemente ha aggiunto: "[…]
con la secolarizzazione la religiosità (come la religione) cambia
di qualità e diminuisce in intensità" (Acquaviva,
1971).


Nell’opera The Sacred
Canopoy (1967), Berger assegna alla religione il ruolo di costruzione del
“sacred cosmos”, in grado di riparare dall’anomia sociale
derivante dall’insensatezza del mondo. La religione svolge contemporaneamente
anche la funzione di “mistificazione”, cioè la sottrazione
e falsificazione del carattere socialmente costruito della realtà,
funzionale al mantenimento dello “status quo”. Nell’opera
The Heretical Imperative Berger considera la secolarizzazione in stretta
connessione col processo di “pluralizzazione” delle scelte,
vale a dire con l’offerta diversificata di modi di vita.


In Luckmann la secolarizzazione
tende ad avere un andamento unilineare che inizia con una differenziazione
simbolica, da cui scaturisce una diversificazione strutturale. Egli sostiene
che il carattere “teoretico” del modello “ufficiale”
di religione contribuisce alla potenziale divergenza con il sistema soggettivo
di significanza “ultima” dei membri tipici di una società
(Luckmann, 1969).


La secolarizzazione, per Wilson,
è un processo sociale di lungo periodo, il cui esito è che
la religione tradizionale ha ceduto alla trasformazione dell'organizzazione
sociale che funziona senza legittimazione religiosa. Aggiunge poi: “[…]
una gran parte della popolazione cerca nella religione solamente un appoggio
occasionale e talvolta neanche quello” (Wilson, 1985, p. 60).


Guizzardi analizza i punti in
cui si muovono le teorie in merito alla secolarizzazione e sostiene che
tendono ad affermare la persistenza della domanda di sacro nell’uomo
e così facendo si trovano in linea con le teologie delle varie chiese.
Sostiene, infatti, che la rilevanza delle chiese e la loro forza hanno valore
esclusivamente politico e nulla hanno a che fare con le costanti antropologiche
e che la religione non può che essere ciò che è definito
tale da chi ha la capacità stessa di definirla, cioè da chi
esercita il potere religioso (Guizzardi, 1983).


Stella afferma che la secolarizzazione
ha indotto un mercato profano di beni simbolici, concorrenziale e vincente
rispetto alla visione religiosa spopolare del mondo e del ruolo della chiesa.
In questo modo si è inceppato il tradizionale meccanismo di scambio
che metteva in comunicazione la chiesa, istituzione che legittima quanto
riguarda il religioso, e i gruppi sociali fruitori del bene religioso popolare
che rappresentano fondamentali strutture di plausibilità (Stella,
1983).


Il fenomeno della secolarizzazione
può riassumersi in quattro punti che costituiscono altrettanti ideal-tipi
(L. Shiner, 1973):


Secolarizzazione come "declino"
delle dottrine religiose, dei valori, delle istituzioni che dominavano e
informavano la società.


Secolarizzazione come "conformità",
cioè la tendenza dei gruppi religiosi a diventare sempre più
aderenti alla società abbandonando l'attenzione esclusiva per il
soprannaturale.



Secolarizzazione
come "eclissi del sacro" dal mondo, in cui i misteri che circondano
l'uomo e la natura sono oggetto di spiegazioni razionali e causali.


Secolarizzazione come "disimpegno"
della società dalla religione. La religione assumerebbe un carattere
prettamente interiore, senza più influenzare la società.


Il termine secolarizzazione
è accompagnato da tali e tante ambiguità da indurre alcuni
autori quali Matthes, Rentdorff, Martin a proporne l'abolizione, anche se
la proposta non ha ottenuto consensi.


Quanti propongono la tesi della
de-sacralizzazione non sono però sempre concordi sugli esiti di tale
processo: alcuni sono portati a sostenere la scomparsa definitiva del sacro,
altri ritengono che il sacro sia stato relegato nell'inconscio o che si
stia assistendo alla ricerca di nuove forme di espressione.


Nonostante vi sia chi (Sorokin,
1966) apporti una vasta gamma di dati statistici per dimostrare che il cristianesimo
ha perso il suo dominio istituzionale e ideologico nella cultura occidentale,
altri ribadiscono che:


"In un ambiente scristianizzato
(quale è la Francia) vi è tra i cattolici praticanti, la partecipazione,
volontaria e consapevole, assume intensità maggiore rispetto quando
la pratica religiosa era connessa a vantaggi e agevolazioni" (Le Bras,
1971, p. 162-168).


C'è infine chi, afferma
che in occasione del declinare della pratica si è aperta la possibilità
di esplorazione nuove forme di religiosità (Wuthnow, 1978; Hervieu-Léger,
Champion, 1989; Acquaviva, 1990; Ferrarotti, 1990).




I nuovi movimenti
religiosi


Nel corso degli
anni 50-60, la maggior parte delle indagini italiane ed estere riguardanti
la sociologia della religione, hanno avuto come scopo principale quello
di documentare la religiosità individuale e di gruppo in modo da
definirne con chiarezza livelli e valori. E' in questa traiettoria pratico-teorica
che si inserisce l'interpretazione del concetto di secolarizzazione sulla
scia delle riflessioni del Gehlen, Schutz, Luckmann, Acquaviva con previsioni
circa "l'eclisse del sacro" cui avrebbe fatto seguito una progressiva
"perdita secca degli spazi del sacro" e un salto indietro nell'analisi
sociologica. Interpretazioni più caute sono quelle di Le Bras e Cox,
che valutano con maggiore cautela quanto si veniva sfrondando o perdendo
nella religiosità (Burgalassi, 83).


Durante gli
anni '70, il crescente numero di gruppi e formazioni religiose (prevalentemente
a carattere settario), ha costretto gli osservatori sociali a constatare
che i fenomeni religiosi non erano residuali ma davano origine a nuove forme
del sacro, che non potevano essere ignorate.


La denominazione
"chiesa-setta", risale alle distinzioni operate da di Weber nel
suo The Methodology of the Social Sciences, in cui descrive la setta come
un’organizzazione religiosa che tende nel tempo a trasformarsi in
chiesa.


Troeltsch, nell'opera
Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani (del 1912), riprendendo
il concetto weberiano individua i tratti salienti delle religioni tipo-setta,
come precisato poi nei Soziallehren [4].


Johnson ha tentato
una distinzione diversa di chiesa e di setta riferendo le due denominazioni
al parametro dell'integrazione sociale. Questa definizione, basandosi
su un criterio estrinseco alla formazione stessa, tenta di identificare
il movimento carismatico, dai suoi effetti e in altre parole la differenza,
l'antagonismo e la separazione, della società dalle sue strutture
e istituzioni. Egli afferma:


"Una chiesa
è un gruppo religioso che accetta il contesto sociale i cui esiste,
una setta è un gruppo religioso che rifiuta il contesto sociale in
cui esiste" (Johnson, 1983, p. 8).


C'è però
chi si chiede se:


"Ha senso
continuare a utilizzare la tipologia chiesa-setta cara sia a Weber che a
Troeltsch in una situazione radicalmente mutata come la nostra a causa del
moltiplicarsi di forme religiose intermedie o atipiche..." (Pace, 1997,
p. 123).


Infine c’è
chi (Terrin, 1985), sostiene che i concetti di chiesa e setta, formatisi
nel contesto culturale occidentale in cui gioca un ruolo essenziale l'istituzione
sociale che appoggia e riconosce istituzioni religiose, non sono oggi più
validi.


Nel corso degli
ultimi decenni per indicare le nuove formazioni religiose si è ricorso
alla denominazione di "culti". Questo termine non sembra appropriato,
perché: i movimenti stessi lo hanno rifiutato; e perché usato
in ambito americano con un’accezione negativa e identificare la devianza
e l'autoritarismo che caratterizzano spesso tali gruppi.


Le denominazioni
di "nuove religioni" o "nuovi movimenti religiosi",
indicano invece la dimensione dinamica e la carica emotiva di questi gruppi,
tralasciando di indagare se i contenuti hanno già una loro registrazione
in un passato pi- o meno remoto.


Pace afferma
che:

"[…] il problema che si pone è innanzitutto di far scivolare
sullo sfondo del discorso pubblico la formula "nuovi movimenti religiosi"
che appare ormai troppo generica e datata" (Pace 1997, p. 62)


Caratterizzati
da una pluralità di definizioni (nuove religioni, sette, culti, chiese)
i movimenti spirituali che si differenziano dalle confessioni dominanti,
hanno conosciuto nell'ultimo trentennio una fase di espansione in tutti
i Paesi del mondo.


Nuove forme
del sacro convivono e aumentano di numero e per varietà all'interno
di un ambiente secolarizzato e le definizioni della religione modellate
sulle grandi tradizioni, del giudeo-cristianesimo e dell'islam, si rivelano
inadeguate a classificare nuove realtà, così frammentarie
e magmatiche (Beckford, 1990).


I grandi sistemi
religiosi evidenziano una crisi di assolutezza e le religioni non costituiscono
più il serbatoio di evidenze etiche sulla cui base gli individui
potevano orientare la loro azione; questo è diventato problematico
nelle moderne società, atomizzate e disarticolate in tanti autonomi
sub-sistemi sociali (Pace, 1997). In questo contesto emerge una prima modalità
religiosa che si esprime in forme neosincretiche [5] .


L'individuo
non percepisce più come invalicabili le frontiere che marcano le
differenze fra le religioni, sembra invece in grado di ricomporre in un
unico universo simbolico elementi provenienti da diverse tradizioni religiose.
Si mobilitano, nello stesso tempo, gruppi religiosi di tipo fondamentalista
che si sforzano di ricostruire simboli che possono riaffermare una salda
identità collettiva radicata in una fede (Ibidem).


Fillaire definisce
"sette pseudo-cattoliche", quei gruppi che si radicano in correnti
tradizionaliste, carismatiche o vicine alla religione popolare: da quelli
con iniziale riconoscimento canonico a quelli che asseriscono di essere
la chiesa cattolica ma hanno una propria specifica gerarchia interna; gruppi
che manifestano l'intento di voler mantenere l'integrità della fede;
per finire con quelli che si dichiarano a-cattolici ma ne utilizzano simboli
e riti (Fillaire, 1994).


Le spiritualità
orientali continuano ad esercitare sull'uomo occidentale un fascino, un'attrazione
giustificati da una saggezza antica e da metodi di concentrazione e di padronanza
di sé. Numerose organizzazioni si sono impadronite della seduzione
dell'Oriente e hanno fatto un neo-induismo o un buddismo "adeguato
ai bisogni dell'uomo moderno", che alcuni hanno battezzato "Karma
Cola" (Hare Krishna, Mahikari, Meditazione Trascendentale).


Sulla scia delle
dottrine orientali, alcuni gruppi quali Energo Chromo Kinese [6] o IVI [7]
fanno riferimento al concetto di "energia".


L'ecologia e
la "purificazione del pianeta" sono temi cari a molti movimenti:
dal Movimento (o Partito) Umanista ad Ecoovie con le sue associazioni e
cooperative.


L'approccio
culturale, sotto le forme più diverse, fa parte di alcuni movimenti
tipo-setta, la Nuova Acropoli, ad esempio, si dedica a gestire conferenze
dedicate ai celti, all'Egitto, all'astrologia, alla morfopsicologia.


Altri movimenti
propongono, attraverso il ritorno a valori tradizionali, di conservare l'integrità
morale: è il caso dalla TFP (Tradizione, Famiglia, Proprietà),
setta cattolica fondata in Brasile. Altri, mirano alla liberazione delle
potenzialità dell'io e alla possibilità di godere i benefici
simbolici e intrinseci della vita di gruppo, la cui fruizione è resa
sempre più rara nelle città d’oggi (Scientology).


La New Age,
è un esempio di un nuovo tipo di gruppo religioso. Nasce negli Stati
Uniti degli anni Settanta come "controcultura" e mischia esotero-occultismo,
astrologia, religioni antiche, culture primitive, puritanesimo, orientalismo,
astrologia. Ha conosciuto una piena espansione negli anni Ottanta [8], e
propone una visione olistica del mondo e dell'essere umano, in cui l'uomo
è assorbito in un "grande tutto", nel quale deve fondersi.


I protestanti
non sono sottoposti a gerarchie particolari e chiunque può fondare
una sua chiesa. Per questo motivo negli Stati Uniti proliferano e alcune
sono state "esportate" in altri Paesi: ad esempio, la famosa associazione
dei Testimoni di Geova che né protestanti né cattolici considerano
chiesa cristiana.


I caratteri
distintivi di questi nuovi movimenti religiosi sono per Wilson: provenienza
esotica; la proposta di nuovi stili di vita; partecipazione diversa dai
modelli tradizionali; presenza di una leadership carismatica; partecipazione
di giovani di livello culturale elevato; operatività a raggio internazionale
(Wilson, 1983). A questo va aggiunto che esse ricorrono spesso a forme di
esperienza del sacro che dà molto spazio ad aspetti magici, terapeutici,
eccezionali o miracolistici.


I movimenti
religiosi esprimono, in particolare allo stato nascente (Alberoni, 1977;
Pace 1983), anche una certa tensione fra la carica vitale dell'esperienza
religiosa e l'istituzionalizzazione del messaggio proposto dentro regole
e procedure (Acquaviva, Pace, 1992).


L'ottica di
studio ha si è allargata nella direzione dei metodi d’indagine
delle discipline storiche, economiche, psico-sociologiche e antropologiche,
introducendo approcci multidisciplinari o interdisciplinari e molti autori
si sono confortati sull'argomento.




Alcuni autori sostengono che
i nuovi movimenti religiosi sono forme marginali di reazione a cambiamenti
sociali pi- vasti (Beckford, 1990) ma che non segnano l'arresto della secolarizzazione
e l'avanzare della razionalizzazione (Martelli, 1990). Altri hanno
visto in essi un "risveglio religioso", un'inversione di tendenza
rispetto alla secolarizzazione, considerata un fenomeno irreversibile (Westley,
Tipton, Anthony, Robbins, Stark, 82; Bainbridge, 85). La Westley ad esempio,
sostiene che la secolarizzazione scambia il mutamento religioso con la scomparsa
della religione, mentre a comparire è solo la forma istituzionale
della religione. Terrin afferma che i movimenti religioni indicano
il tentativo di superare la secolarizzazione come forma di slittamento progressivo
verso l'indifferenza religiosa. Aggiunge inoltre, che le nuove religioni
tentano di reintrodurre una simbolica "forte" che possa sconfiggere
il sociale amorfo e apatico dal punto di vista religioso" (Terrin,
1985).


Persistenza o
rinascita del sacro


In contrapposizione alla secolarizzazione,
considerata come progressiva riduzione degli spazi del sacro, sono state
proposte teorie che tendono a evidenziarne la persistenza della dimensione
religiosa. Secondo questa prospettiva, l'apertura al trascendente è
rintracciabile nella società contemporanea anche se le modalità
non sono sempre identificabili con le espressioni ufficiali della religione. Di
qui il crescente interesse nei confronti della religiosità extraecclesiale
che ha portato autori italiani a elaborare concetti quali quelli di "civil
religion" (Bellah, 1967, 1970, 1985), "cristianità nascosta"
(Burgalassi, 1970), "religione implicita" (Nesti, 1985), "religiosità
diffusa" (Cipriani, 1988).


Pace dimostra come la dimensione
religione riaffiora, sotto altre spoglie, in autori che affermano la scomparsa:


"[...] se è vero
che per Comte il progresso scientifico inevitabilmente porta alla fine della
religione, è altresì vero che essa, nel momento in cui sparisce,
si "reincarna", per così dire, in uno stadio della mente
e della psiche umana, la scienza" (Pace, 92, p. 30).


Berger, nel suo Brusio degli
angeli, è fra i primi ad indicare un ritorno del religioso nel mondo
attuale. Il libro, scritto in un periodo particolare (era il '68 e il mondo
si avviava a vivere le tensioni degli anni Settanta), si occupa del rapporto
fra una società complessa e sollecitata da spinte contrastanti e
la religione. Nell'ambito della sua analisi, Berger espone alcune considerazioni
intese a spiegare il senso di un recupero del trascendente, prevedibile
in base all'esperienza storica. Solo il senso della trascendenza può
restituire all'uomo la proporzione fra i valori delle cose e ci offre la
possibilità di non prenderci troppo sul serio:

"Bisogna avere sperimentato la spaventosa assenza di umorismo che è
propria delle odierne ideologie rivoluzionarie per apprezzare pienamente
la virtù che la prospettiva religiosa possiede di restituire gli
uomini alla loro umanità" (Berger, 1970, p.131).


Il nuovo approccio ideologico
di quanti si interessano di fenomeni religiosi si esplicita in due tendenze:
una "secolarizzatrice" che intende favorire l'idea della scomparsa
del sacro; l'altra, religiosamente orientata, che cerca di confutare il
declino religioso (Cipriani 85).


Bastide si chiede:


"[...] la morte degli istituiti
comporta forse la scomparsa dell'esperienza istituente del Sacro alla ricerca
di forme nuove in cui incarnarsi? [...] la crisi delle organizzazioni religiose
non deriva forse da una mancanza di adeguamento, crudelmente provata, tra
le esigenze dell'esperienza religiosa personale e i quadri istituzionali
entro cui la si è voluta modellare, spesso allo scopo di toglierle
la sua potenza esplosiva ritenuta pericolosa per l'ordine sociale? [...]
non è forse vero che oggi si assiste a una ricerca appassionata del
sacro" (R. Bastide, 1977 p. 195).


Cipriani afferma che lo scollamento
fra individui ed istituzioni religiose, si deve riferire ad una crisi del
linguaggio istituzionale della religione che non comunicherebbe più
con la medesima efficacia di prima. A ciò si deve aggiungere la presenza
di altri linguaggi, con contenuti diversi, entrati in concorrenza con le
forme tradizionali di appartenenza e militanza religiosa. Vi sono due tentativi
di "costruzione di un linguaggio comune": il primo è quello
"sacro istituzionale". I gesti del sacro istituzionale diventano
significativi solo se suscitano negli individui cui vengono indirizzati,
delle risposte positive ed esplicite; il secondo è dato dal "sacro
selvaggio". Quest’ultimo è causa dell'incapacità
di trovare, entro le organizzazioni religiose, forme "aggiustive"
(secondo l'espressione di Mead) in grado di rispondere ai segnali, ricevuti
dai nuovi gesti di comportamento e atteggiamento, dotati di significato
che l'istituzione religiosa non ha colto (Cipriani, 83).


Per Cipriani il distacco tra
religione-istituzione e interessi individuali e sociali è sempre
più netto ma è proprio la presenza di motivazioni di tipo
"profano", legate a contenuti e valori universali, ad offrire
un nuovo campo di relazioni per la ripresa del discorso interrotto. In effetti
"se esiste una coincidenza di interessi può anche esservi una
possibilità di comunicazione a livello di valori condivisi, permettendo
laicizzazione di messaggi significativi" (Ibidem, p.87).


Di fronte alla crescente differenziazione
di comportamenti ed a forme aggregative, che si sono venuti sedimentando
nel tessuto socio-religioso contemporaneo e hanno di volta in volta prodotto
conflitti, l'istituzione ha seguito una strategia complessa che si fonda
su tre meccanismi: riorganizzazione del campo religioso attraverso l'eliminazione
di tutte le forme concorrenziali o conflittuali che venivano a minacciare
i principi di fondo; istituzionalizzazione progressiva di gruppi o movimenti
tipo-setta che pur presentando una certa conflittualità implicita,
consente all’istituzione di ristabilire il consenso nella sua autorità
e sulle sue verità; ridefinizione dell'ideologia complessiva sulla
base di una tematica che sia capace di garantire la sopravvivenza e vitalità
delle varie parti del sistema organizzativo (Pace, 83).


Per Burgalassi, il fatto che
da un ambito organicamente compatto quale nel passato era il cosmo sacro,
esso attualmente evidenzi la presenza di risposte eterogenee confuse disarticolate,
è indice del processo di ristrutturazione del concetto e dei livelli
organici di sacralità. Egli sostiene che la nuova dimensione di "sacralità"
travalica i limiti di porzioni di tempo (i "tempi sacri") o di
spazio (gli "spazi sacri") così come non sembra più
pertinente a semplici qualità oggettuali (le "cose sacre").
"Essa sembra invece inerire specificatamente a "qualità
profonde dell'uomo" o "del genere umano" attinenti l'essenza
del proprio "essere" e le qualità del suo "divenire"
in una scala di livelli qualitativamente crescenti. In un "cosmo"
secolarizzato, ogni tempo e ogni spazio sono sacri, così come ogni
oggetto, purché siano "strumenti" a servizio di un progetto
di crescita globale dell'uomo" (Burgalassi, 1983, p. 26).


Quest’ipotesi è
patrimonio della specie umana a prescindere da risposte teiste o atee che
può avere. Ogni uomo, di qualsiasi tempo, continua Burgalassi, esprime
a suo modo un bisogno "religioso". La metamorfosi in atto,
va quindi intesa come tentativo di sublimazione di un quid ritenuto esistenzialmente
"vitale" e da salvare dall'usura del quotidiano e dall’irrilevanza
del banale, a meno di un diminuito livello di dignità umana (Ibidem).


Per Yinger ogni società
avverte il bisogno di fare riferimento a valori e simboli e la religione,
indispensabile a tale scopo, non può scomparire deve invece adattarsi
al cambiamento sociale in atto.


Numerose ricerche hanno evidenziato
nel nostro paese una vasta area di religiosità sommersa, diffusa
ovvero magico sacrale, nella quale confluiscono forme tradizionali sia nuove,
spesso di tipo sincretico (Pace, 1997). Per Ferrarotti il sacro si esprime
in forme diverse anche nella società moderna nonostante la crisi
della religione-di-chiesa (Ferrarotti, 1990).

Egli aggiunge che:


"Il paradosso del sacro
sembra consistere nel fatto, accertabile empiricamente, che quanto più
una società si razionalizza, tanto più si accresce la fame,
per così dire, del sovramondano e dell'invisibile" (Ferrarotti,
1983, p. 115-117) inoltre aggiunge che nella società contemporanea
il sacro affascina in quanto si presenta come ambiguità e mistero
(Ibidem).


Per Nesti, la ricerca di un
cristianesimo "senza fede", "senza chiesa" o addirittura
esoterico, e perfino ateismo e scetticismo, rappresentano espressioni di
religioso implicito. Questi diviene una sorta di categoria generale, tesa
ad evidenziare la capacità dell'uomo di trascendere i limiti dell'esistente,
dovrebbe consentire di unificare tutti i tipi di credenze. preferisce sottolineare
l'esistenza di una religione "implicita" (Nesti, 1985).


Cipriani, invece, con il concetto
di "religione diffusa", coglie il profondo radicamento culturale
del fenomeno religioso, il carattere diffusivo e storico delle religioni
(Cipriani, 1988).


Concludendo possiamo affermare
che la religione contemporanea presenta un andamento oscillante ("flottante",
secondo l'espressione di Martelli, 1990) tra secolarizzazione de-secolarizzazione.
Quella attuale sembra un fase di transizione, che vede la co-presenza dell'universo
religioso tradizionale e di nuove forme religiose sempre meno istituzionalizzate,
senza che, al momento attuale, sia possibile prevedere quale sarà
l'esito del processo.







[1] Successivamente anche da Eco, 1975, per applicazioni Stella 1981, Acquaviva
Stella 1989.

[2] L’asse semantico
oppositivo racchiude gli estremi di significato che si riferiscono ad un determinato
campo di senso; tra i due estremi si collocano i significati intermedi

[3] Nella lingua francese
del XVI secolo, il termine secolarizzazione, indica la riduzione di un chierico
regolare allo stato laicale. Nell’ambito del diritto canonico l’espressione
“saecularizatio”ha conservato fino ad oggi tale significato.

[4] Essi sono: il carattere
volontario dell’adesione ai gruppi per una rivalutazione della soggettività
e riscoperta in termini soggettivi della fede di contro all’obbiettività
deificata dell’istituzione-chiesa; l’uso di pratiche di iniziazione-conversione;la
varietà degli atteggiamenti: opposizione, rifiuto ,abbandono, tensione
aggressiva nei confronti del mondo.

[5] Il sincretismo
è la fusione tra elementi simbolici provenienti da religioni diverse
che può avvenire per sovrapposizione (quando una religione conquista
il posto che occupava un’altra in un territorio determinato senza distruggerne
divinità e simboli), per assimilazione (caratterizzata dalla volontà
di una religione di presentarsi come unica e vera), per coesistenza (quando
il precedente sistema simbolico-religioso viene tenuto e integrato a quello nuovo).
Il neosincretismo, invece, richiama alla mente una presenza della dimensione
religiosa anche nella società moderna” (Pace, 1997, p. 55-56).

[6] Imploso nel 1993,
la sua dottrina consisteva nel fare “risalire” le energie telluriche
attraverso i sette centri energetici, con il supporto dei colori e dei suoni.
Gli adepti in seguito alla consacrazione a cavalieri, avrebbero conosciuto
la Lumo-Cosmo-Genesi e sarebbero volati nello spazio in compagnia della sesta
razza.

[7] IVI (Invito alla
Vita Intensa), pratica l’armonizzazione dei “chakra” (punti
centrali del corpo, secondo lo yoga tantrico) e le vibrazioni” (l’adepto
emette suoni con una frequenza vibratoria particolare che si ritiene sfuggire
alle leggi terrestri).

[8] Grazie al best-seller
di Merylin Ferguson The Aquarian Conspiracy. Personal and Social Transformation
in 1980’s.


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