Il valore delle leggi
Il filosofo francese Montesquieu nelle sue opere rifiuta di dare un valore assoluto alle leggi: esse sono infatti belle o brutte a seconda del loro grado di convenienza al contesto umano cui si riferiscono, cioè nella misura in cui si conformino all'esprit del popolo per il quale sono vincolanti.
La Rivoluzione Francese non può accontentarsi di questo: occorre anzitutto determinare se una legge sia giusta o no, prima di procedere al rilievo del suo grado di efficacia in un dato contesto. Montesquieu non rispondeva a interrogativi siffatti, o meglio lo faceva evasivamente: uno Stato è ciò che è, non vale la pena di definire quanto la sua legislazione sia secondo ragione o secondo diritto.
Montesquieu, insomma, sembrava sostituire uno Stato di fatto a quello di diritto che invece rappresenta una delle più alte aspirazioni della Rivoluzione, almeno nelle sue prime fasi; se si tiene presente quanto egli sostiene ogni crimine diviene giustificabile, ogni assurdità interna al sistema va accettata perché quest'ultimo non può essere diverso da come effettivamente è.
Su questo piano si articolano le critiche più vivaci che la Rivoluzione muove a Montesquieu: non basta badare a ciò che è, occorre viceversa progettare ciò che dovrebbe essere.
Esiste poi un'altra difficoltà: anche qualora si fosse certi della giustizia o meno di una data legge, nondimeno sarebbe necessario definire una giustizia ideale e assoluta cui uniformare tutta la vita dello Stato; solo così si potrebbero migliorare e correggere le leggi considerate inique. A Montesquieu, quindi, non solo manca un criterio di giudizio assoluto, ma anche, come conseguenza di tale difetto, la possibilità di intervenire operativamente sulla legislazione a partire da un modello giuridico di portata universale.
Le finalità dello Stato di diritto
Il medesimo problema che si è visto applicato alla legge può essere riferito anche alle finalità dello Stato. Secondo il pensatore, ogni aggregazione politica possiede una propria finalità, al punto che lo stesso atto dell'uomo che si unisce ai propri simili trova una sua giustificazione nella necessita di mettere in relazione le tendenze individuali in vista del perseguimento di un obiettivo organico comune.
Sotto questo aspetto, Montesquieu si discosta dal pensiero di Voltaire, che avrà viceversa proprio in questo notevole influenza sui fatti rivoluzionari: l'autore del Candide concepisce sistemi di valori universali e applicabili a tutte le situazioni, in conformità con un modello giuridico razionale assoluto dal quale scaturiscono non solo le leggi ma anche i fini cui tendono gli Stati.
La Francese risponde a suo modo a questo interrogativo teleologico: il fine assoluto degli Stati deve essere il diritto. Questa affermazione ha come conseguenza l'attribuzione al singolo uomo di un valore assoluto dal punto di vista giuridico.
Tale valore esiste indipendentemente dall'epoca, dal contesto economico e sociale, dalle condizioni ambientali in cui l'uomo si trova a vivere. A differenza di Montesquieu, la Rivoluzione trova nel diritto dell'individuo di vivere, di non essere impedito nelle sue azioni, di assumersi responsabilità economiche, etc. l'ideale dello Stato.
Il giudizio cui viene sottoposta una qualsiasi legge deve dunque tener conto del grado in cui tale legge si accorda al carattere dell'uomo, così come esso si definisce giuridicamente.
... e lo supera
Trasformare lo Stato
Lo Stato rivoluzionario diviene una associazione di privati, il cui fine dev'essere la soddisfazione dei diritti di tutti i cittadini.
Per ottenere questo, è necessario ricorrere a leggi che regolino la vita sociale, fermo restando il fatto che esse debbono avere una propria radice nell'ambito del diritto stesso.
Su queste basi il movimento rivoluzionario avverte il bisogno di cambiare l'ordine politico esistente: come Montesquieu mette in risalto la necessità dell'appartenenza civile per la realizzazione dell'individuo, ma a differenza di quello afferma che lo Stato esistente non consente una partecipazione veramente organica: le istituzioni politiche e le leggi devono essere trasformate perché l'uomo si possa riconoscere in esse.
A dire il vero, lo stesso Montesquieu aveva posto la libertà tra i fini dello Stato; esiste però una differenza sostanziale tra questo genere di finalità e quello che viceversa si incontra nella Rivoluzione: per il filosofo la libertà è uno dei tanti fini perseguibili dallo Stato accanto a quello fondamentale dell'autoconservazione. Al contrario, la Rivoluzione vede lo Stato legittimo basarsi sul diritto e orientare i propri sforzi verso il godimento universale di ciò che quel diritto sancisce: se la libertà è un diritto fondamentale dell'individuo, essa non è uno dei tanti obiettivi, ma deve essere annoverata tra gli scopi istituzionali della comunità politica.
La sovranità popolare
Esiste un altro aspetto rispetto al quale la Rivoluzione Francese supera Montesquieu: secondo costui, la vita della collettività è determinata dalla forza superiore e impersonale della legge. Tutti si devono piegare ad essa, persino il re.
Ma allora a chi è dato il potere di formulare e promulgare la legge, se tutti sono sottoposti ad essa? Montesquieu, al solito, aggire involontariamente il problema considerando le leggi come un prodotto della storia: le può proporre un legislatore, talora un popolo, oppore nascono per imitazione dello Stato con cui si confina.
La Rivoluzione rifiuta di considerare le leggi prodotto dell'iniziativa di un singolo o di un gruppo, data l'arbitrarietà che questa operazione comporterebbe, sia come condizione preliminare alla formulazione della legge stessa, sia come conseguenza dell'assolutezza di cui sarebbe dotato il legislatore rispetto alla sua creatura.
Alla natura impersonale della legge non può che corrispondere la non personalità di chi la ha promulgata: è la volontà generale a avere il diritto di statuire sulla comunità che la esprime, proprio perché solo così chi è tenuto all'osservanza della legge coincide con chi tale legge ha promulgato. In definitiva, la soluzione della sovranità popolare è l'unica a consentire che il legislatore non coincida con un soggetto personale in senso stretto.
Anche Montesquieu aveva concepito la centralità della nazione, ma mentre nel suo Stato erano le leggi a doversi armonizzare con questo spirito, invece la Rivoluzione Francese vede l'anima dello Stato come soggetto della legge, detentore legittimo del potere legislativo e quindi della sovranità.
La tesi della sovranità popolare rappresenta un superamento delle posizioni montesquieuiane anche perché con essa il ruolo della ragione modellatrice delle istituzioni e delle leggi è ripreso a un livello più alto: non è più una astratta facoltà razionale a plasmare la comunità politica, bensì tale ragione si esprime nella volontà del popolo, nella dimensione concreta della collettività democratica.
Il filosofo francese Montesquieu nelle sue opere rifiuta di dare un valore assoluto alle leggi: esse sono infatti belle o brutte a seconda del loro grado di convenienza al contesto umano cui si riferiscono, cioè nella misura in cui si conformino all'esprit del popolo per il quale sono vincolanti.
La Rivoluzione Francese non può accontentarsi di questo: occorre anzitutto determinare se una legge sia giusta o no, prima di procedere al rilievo del suo grado di efficacia in un dato contesto. Montesquieu non rispondeva a interrogativi siffatti, o meglio lo faceva evasivamente: uno Stato è ciò che è, non vale la pena di definire quanto la sua legislazione sia secondo ragione o secondo diritto.
Montesquieu, insomma, sembrava sostituire uno Stato di fatto a quello di diritto che invece rappresenta una delle più alte aspirazioni della Rivoluzione, almeno nelle sue prime fasi; se si tiene presente quanto egli sostiene ogni crimine diviene giustificabile, ogni assurdità interna al sistema va accettata perché quest'ultimo non può essere diverso da come effettivamente è.
Su questo piano si articolano le critiche più vivaci che la Rivoluzione muove a Montesquieu: non basta badare a ciò che è, occorre viceversa progettare ciò che dovrebbe essere.
Esiste poi un'altra difficoltà: anche qualora si fosse certi della giustizia o meno di una data legge, nondimeno sarebbe necessario definire una giustizia ideale e assoluta cui uniformare tutta la vita dello Stato; solo così si potrebbero migliorare e correggere le leggi considerate inique. A Montesquieu, quindi, non solo manca un criterio di giudizio assoluto, ma anche, come conseguenza di tale difetto, la possibilità di intervenire operativamente sulla legislazione a partire da un modello giuridico di portata universale.
Le finalità dello Stato di diritto
Il medesimo problema che si è visto applicato alla legge può essere riferito anche alle finalità dello Stato. Secondo il pensatore, ogni aggregazione politica possiede una propria finalità, al punto che lo stesso atto dell'uomo che si unisce ai propri simili trova una sua giustificazione nella necessita di mettere in relazione le tendenze individuali in vista del perseguimento di un obiettivo organico comune.
Sotto questo aspetto, Montesquieu si discosta dal pensiero di Voltaire, che avrà viceversa proprio in questo notevole influenza sui fatti rivoluzionari: l'autore del Candide concepisce sistemi di valori universali e applicabili a tutte le situazioni, in conformità con un modello giuridico razionale assoluto dal quale scaturiscono non solo le leggi ma anche i fini cui tendono gli Stati.
La Francese risponde a suo modo a questo interrogativo teleologico: il fine assoluto degli Stati deve essere il diritto. Questa affermazione ha come conseguenza l'attribuzione al singolo uomo di un valore assoluto dal punto di vista giuridico.
Tale valore esiste indipendentemente dall'epoca, dal contesto economico e sociale, dalle condizioni ambientali in cui l'uomo si trova a vivere. A differenza di Montesquieu, la Rivoluzione trova nel diritto dell'individuo di vivere, di non essere impedito nelle sue azioni, di assumersi responsabilità economiche, etc. l'ideale dello Stato.
Il giudizio cui viene sottoposta una qualsiasi legge deve dunque tener conto del grado in cui tale legge si accorda al carattere dell'uomo, così come esso si definisce giuridicamente.
... e lo supera
Trasformare lo Stato
Lo Stato rivoluzionario diviene una associazione di privati, il cui fine dev'essere la soddisfazione dei diritti di tutti i cittadini.
Per ottenere questo, è necessario ricorrere a leggi che regolino la vita sociale, fermo restando il fatto che esse debbono avere una propria radice nell'ambito del diritto stesso.
Su queste basi il movimento rivoluzionario avverte il bisogno di cambiare l'ordine politico esistente: come Montesquieu mette in risalto la necessità dell'appartenenza civile per la realizzazione dell'individuo, ma a differenza di quello afferma che lo Stato esistente non consente una partecipazione veramente organica: le istituzioni politiche e le leggi devono essere trasformate perché l'uomo si possa riconoscere in esse.
A dire il vero, lo stesso Montesquieu aveva posto la libertà tra i fini dello Stato; esiste però una differenza sostanziale tra questo genere di finalità e quello che viceversa si incontra nella Rivoluzione: per il filosofo la libertà è uno dei tanti fini perseguibili dallo Stato accanto a quello fondamentale dell'autoconservazione. Al contrario, la Rivoluzione vede lo Stato legittimo basarsi sul diritto e orientare i propri sforzi verso il godimento universale di ciò che quel diritto sancisce: se la libertà è un diritto fondamentale dell'individuo, essa non è uno dei tanti obiettivi, ma deve essere annoverata tra gli scopi istituzionali della comunità politica.
La sovranità popolare
Esiste un altro aspetto rispetto al quale la Rivoluzione Francese supera Montesquieu: secondo costui, la vita della collettività è determinata dalla forza superiore e impersonale della legge. Tutti si devono piegare ad essa, persino il re.
Ma allora a chi è dato il potere di formulare e promulgare la legge, se tutti sono sottoposti ad essa? Montesquieu, al solito, aggire involontariamente il problema considerando le leggi come un prodotto della storia: le può proporre un legislatore, talora un popolo, oppore nascono per imitazione dello Stato con cui si confina.
La Rivoluzione rifiuta di considerare le leggi prodotto dell'iniziativa di un singolo o di un gruppo, data l'arbitrarietà che questa operazione comporterebbe, sia come condizione preliminare alla formulazione della legge stessa, sia come conseguenza dell'assolutezza di cui sarebbe dotato il legislatore rispetto alla sua creatura.
Alla natura impersonale della legge non può che corrispondere la non personalità di chi la ha promulgata: è la volontà generale a avere il diritto di statuire sulla comunità che la esprime, proprio perché solo così chi è tenuto all'osservanza della legge coincide con chi tale legge ha promulgato. In definitiva, la soluzione della sovranità popolare è l'unica a consentire che il legislatore non coincida con un soggetto personale in senso stretto.
Anche Montesquieu aveva concepito la centralità della nazione, ma mentre nel suo Stato erano le leggi a doversi armonizzare con questo spirito, invece la Rivoluzione Francese vede l'anima dello Stato come soggetto della legge, detentore legittimo del potere legislativo e quindi della sovranità.
La tesi della sovranità popolare rappresenta un superamento delle posizioni montesquieuiane anche perché con essa il ruolo della ragione modellatrice delle istituzioni e delle leggi è ripreso a un livello più alto: non è più una astratta facoltà razionale a plasmare la comunità politica, bensì tale ragione si esprime nella volontà del popolo, nella dimensione concreta della collettività democratica.
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