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giovedì 24 febbraio 2011

Libertà degli antichi e dei moderni


Constant: libertà degli antichi e dei moderni

L’esistenza attuale di regimi liberal-democratici porta a credere che liberalismo e democrazia siano interdipendenti, ma il problema dei loro rapporti è in realtà molto complesso. Comunemente con liberalismo si intende una concezione dello stato per cui esso ha funzioni e poteri limitati e si contrappone dunque sia allo stato assoluto che a quello sociale; democrazia è invece la forma di governo che prevede che il potere sia nelle mani di tutti o, meglio, della maggior parte. Uno stato liberale non è necessariamente democratico, anzi, tende a realizzarsi in società in cui il governo è riservato a gruppi ristretti, in particolare alle classi più abbienti. La medesima considerazione vale per il contrario, infatti lo stato liberale è stato messo in crisi proprio dal progressivo processo di democratizzazione dovuto all’allargamento del suffragio. La contrapposizione tra le due forme fu enunciata e argomentata da Benjamin Constant in un discorso del 1818 all’università di Parigi che diede inizio alla storia dei difficili rapporti tra le due esigenze fondamentali della limitazione e della distribuzione del potere. Constant distingue l’atteggiamento degli antichi, finalizzato alla distribuzione del potere tra i membri della città stato, e in ciò consiste la loro libertà, da quello dei moderni, che mira invece alla sicurezza dei godimenti privati le cui garanzie costituiscono ciò che essi chiamano libertà. Constant ritiene i due obiettivi in contrasto tra loro dal momento che il primo finisce per rendere l’individuo schiavo dell’intero, del pubblico, mentre il cittadino richiede al potere la libertà del privato. Constant parlava di antichi, ma il suo bersaglio era Rousseau che nel suo Contratto sociale aveva teorizzato un potere pubblico che, una volta istituito di comune accordo, continua a sussistere senza bisogno di dare garanzie ai suoi sudditi poiché " è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri".

I diritti dell'uomo, cardini del liberalismo

Il presupposto filosofico dello stato liberale è la dottrina dei diritti dell’uomo elaborata dal giusnaturalismo (scuola del diritto naturale): gli uomini hanno per natura alcuni diritti fondamentali che i detentori del potere non devono invadere e devono proteggere dall’altrui minaccia. L’attribuzione di un diritto consiste nel riconoscimento della facoltà di fare o non fare qualcosa e nel potere di resistere contro chi trasgredisca. Quest’ultimo ha pertanto il dovere di astenersi da ogni atto che interferisca con la facoltà di fare o non fare. Diritto e dovere presuppongono una norma di condotta e per giusnaturalismo si intende quella dottrina per cui esistono leggi non poste dalla volontà umana, e dunque precedenti a qualunque società, da cui derivano diritti e doveri che, nascendo da leggi naturali, sono anch’essi naturali. Il giusnaturalismo è spesso considerato il punto di partenza filosofico del liberalismo in quanto funzionale alla teoria dei limiti del potere sulla base di un’ipotetica concezione della natura dell’uomo che si sottrae a ogni genere di verifica. Lo stato di natura di Locke è una ricostruzione fantastica tesa a fornire una giustificazione della limitazione del potere. I diritti naturali sono la razionalizzazione di un processo reale che ha portato, in Inghilterra, alla lotta tra la monarchia e le altre forze sociali fino alla concessione della Magna Charta dove tali diritti sono chiamati libertà ovvero sfere protette dall’intrusione del potere coattivo del sovrano. Di fatto essa è il risultato di un patto fra parti contrapposte riguardante i reciproci diritti e doveri nel rapporto politico, oggetto principale sono infatti le forme e i limiti dell’obbedienza e, dall’altro lato, del diritto di comandare, per quanto giuridicamente si presenti come concessione regale, ovvero come atto unilaterale e non frutto di un accordo bilaterale, allo scopo di salvaguardare il principio della superiorità del monarca. Lo stato liberale nasce infatti storicamente proprio dal logoramento del potere assoluto e, talvolta, da una rottura rivoluzionaria; razionalmente esso viene invece fatto nascere da un accordo tra individui che decidono di stabilire le regole necessarie a una convivenza pacifica assente in uno stato di natura. In sostanza la dottrina filosofica inverte l’andamento storico.

Diritti naturali e contrattualismo

Affermazione dei diritti naturali e teoria del contratto sociale sono strettamente connessi. L’idea che l’esercizio del potere sia legittimo soltanto se fondato sul consenso di coloro su cui esso deve essere esercitato che sia dunque risultato, appunto, di un contratto, deriva dal presupposto dell’esistenza di diritti individuali, che non dipendono dal sovrano, la cui istituzione è orientata alla massima applicazione di tali diritti compatibile con la sicurezza comune. Contrattualismo e giusnaturalismo sono legati da una concezione individualistica della società in opposizione all’organicismo in cui il tutto viene prima delle parti; in un pensiero politico dominato da questo principio il contrattualismo rappresenta una svolta fondamentale teorizzando una società che non è più fatto naturale, bensì corpo artificiale creato e totalmente dipendente dagli individui che l’hanno costituita per il soddisfacimento dei bisogni privati e per l’esercizio dei diritti individuali. Senza una "rivoluzione copernicana", grazie alla quale il problema dello stato è visto dalla parte dei sudditi e non più da quella del sovrano, non sarebbe stata possibile l’elaborazione del liberalismo.

Stato di diritto e Stato minimo

Quando si parla di stato limitato, tuttavia, si può intendere uno stato limitato rispetto ai suoi poteri (stato di diritto) o rispetto alle sue funzioni (stato minimo). Sebbene entrambe le accezioni siano caratteristiche del liberalismo, non necessariamente si verificano sempre entrambe. Nel primo caso si identifica uno stato in cui i poteri pubblici sono regolati da norme generali e devono essere esercitati nel loro rispetto, rispecchiando la dottrina medievale della superiorità del governo delle leggi su quello degli uomini, tuttavia nella sua formulazione liberale ciò non significa solo la creazione di un rapporto di subordinazione del potere alle leggi, ma anche di queste ultime al riconoscimento dell’inviolabilità di alcuni diritti fondamentali. Sono parte integrante di tale convinzione tutti quei meccanismi costituzionali che ostacolano o precludono l'esercizio arbitrario o illegittimo del poter, tra cui il controllo dell'esecutivo da parte del legislativo, una relativa autonomia del governo locale, una magistratura indipendente dal potere politico. Si tratta di espedienti atti a garantire la libertà cosiddetta negativa, ovvero la sfera di azione in cui l’individuo non è costretto da chi detiene il potere coattivo a rinunciare all’espletamento dei suoi diritti. Nella tradizione liberale libertà e potere sono termini antitetici e la libertà è tanto più sicura da interferenze quanto più non solo sono in funzione i meccanismi tipici dello stato di diritto, ma si riconoscono allo stato compiti limitati al mantenimento dell’ordine pubblico interno e internazionale; anzi, questo secondo aspetto è condizione necessaria per l’effettiva attuazione del controllo del potere indubbiamente facilitato dalla ristrettezza dell’ambito d’intervento assegnato allo stato. Ogni organismo statuale è infatti sentito come male necessario, e riconoscendone la necessità il liberalismo si distingue dall’anarchismo, e intesa la libertà non nello stato, ma dallo stato, la formazione dello stato liberale coincide con un’emancipazione dell’individuo dai pubblici poteri, specie nella sfera religiosa e in quella economica. Non a caso, infatti, l’affermazione dello stato liberale coincide con la decadenza degli stati confessionali e con la fine dei privilegi e dei vincoli feudali in nome della libertà di scambio e della libera disposizione dei beni. Tali elementi fanno sì che si crei un’opposizione rispetto all varie forme di paternalismo secondo cui lo stato deve prendersi cura dei suoi sudditi, situazione considerata da Locke e soprattutto da Kant come il peggior dispotismo. Tanto in Kant quanto, da un punto di vista più strettamente economico, in Smith la dottrina della limitazione dei compiti dello stato si basa sul primato della libertà dell’individuo rispetto al potere sovrano e, di conseguenza, sulla subordinazione dei doveri del sovrano ai diritti o agli interessi dell’individuo. Un’opinione analoga è espressa anche, alla fine del Settecento, da Wilhelm von Humboldt che insiste soprattutto sulla funzione dello stato come strumento per la formazione dell’uomo e, criticando lo stato provvidenziale, afferma che un eccessivo interventismo del governo finisce per produrre un soffocamento della varietà di caratteri e disposizioni. A questo tema si ricollega un altro aspetto peculiare e innovativo del pensiero liberale la fecondità dell’antagonismo, in contrasto con l’elogio dell’armonia tipico dell’organicismo. Il conflitto diviene dunque condizione di progresso economico, politico, tecnico e scientifico e in questo contesto nasce la contrapposizione tra liberi stati europei e dispotismo orientale cosicché lo stato liberale diviene anche criterio di interpretazione storica.

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