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domenica 13 marzo 2011

Democrazia e autoritarismo in Cile. Le origini e la Costituzione portaliana allo sviluppo e libertà.


La storia repubblicana cilena ha vissuto quattro momenti di rottura istituzionale, ciascuno dei quali ha generato nuove forme di regolazione tra Stato e cittadini, attraverso nuove Costituzioni politiche oppure ha comportato profonde trasformazioni del sistema politico.
Negli anni successivi all’indipendenza dalla Spagna (1818), il paese attraversò un periodo di difficile assestamento politico. In queste condizioni, dopo numerosi tentativi, talvolta andati a segno, di golpe militare, emerse la figura di Diego Portales, conservatore e autoritario, principale ispiratore della Costituzione del 1833, che resterà in vigore per quasi un secolo.
Il Cile era allora un paese egemonizzato fondamentalmente da due classi sociali: l’oligarchia terriera e una nascente e colta oligarchia urbana. La rappresentanza politica di questi due gruppi veniva esercitata dal Partito conservatore, autoritario e clericale, e dal Partito liberale, autoritario e laico. Questi due partiti si alterneranno al potere, in due cicli di circa trent’anni ciascuno, fino al 1891. In quest’anno, senza che tuttavia venga varata una nuova Costituzione, viene modificata la forma di governo e, dalla Repubblica presidenziale concepita da Portales si passa alla Repubblica parlamentare che durerà fino al 1924. Nel 1925, una nuova Costituzione consente la ricostituzione di una repubblica presidenziale che reggerà il paese fino alla crisi e al colpo di Stato del 1973. Ma solo nel 1980 Pinochet imporrà al paese una nuova Costituzione politica.

La Costituzione del 1833 nacque dalla crisi dei primi anni della postindipendenza e dal sanguinoso scontro tra i liberali sconfitti e i conservatori. La fede repubblicana di quella Costituzione era dichiarata fin dal primo articolo, tuttavia le basi istituzionali del potere politico fondato sul presidente della Repubblica riflettevano le simpatie che l’orientamento delle oligarchie cilene avevano nei confronti delle monarchie europee. Si trattava di un "re che governa" e concentra tutto il potere possibile. La Costituzione dichiarava che la religione era "cattolica apostolica romana" e che l’esercizio pubblico di altre fedi religiose non era consentito nel territorio nazionale. Il Senato era interamente di nomina presidenziale. Il presidente poteva esercitare il pieno diritto di veto su ogni legge del Parlamento. La politica estera, la nomina di tutti i funzionari della Pubblica amministrazione, delle Forze armate, dei tribunali di giustizia era prerogativa esclusiva del presidente. La Costituzione ispirata da Portales rappresentava e rappresenta tuttora nella cultura conservatrice cilena un’aspirazione sempre presente. Portales è l’ideale di uomo pubblico più amato dalle frange più autoritarie delle destre e delle Forze armate cilene. Anche per Pinochet è lo statista ideale. E’ l’idea delle "democrazie autoritarie", del governo forte e del Parlamento debole, del governo che governi, idea destinata a rimanere sempre nella memoria storica delle classi dirigenti le cui fortune furono costruite proprio durante il quasi secolare dominio di questa Carta costituzionale. Questa Costituzione rappresentava i valori dell’ordine, della stabilità, dell’estremo rispetto delle gerarchie, del principio d’autorità. Ma rappresentava anche l’antidoto contro la demagogia populista e l’eccessivo rafforzamento dei partiti. Nella cultura istituzionale cilena questa Costituzione appare come una singolare miscela di rafforzamento dello Stato e di laissez faire economico.

La guerra civile del 1891 e il suicidio del presidente Balmaceda modificarono di fatto il regime presidenziale.

La parentesi parlamentare

Senza stravolgere la Costituzione del 1833, tra il 1891 e il 1924 vi fu una caotica repubblica parlamentare. Il regime parlamentare cileno era funzionale alla crescita economica e al bisogno di ripartizione del potere politico e economico tra i vari gruppi che componevano le classi dirigenti. E’ il periodo del boom del salnitro e della nascita dell’industria del rame entrambi in mano straniera. Ma è anche il periodo della "questione sociale" e della nascente classe operaia, con le sue organizzazioni sindacali e partitiche concentrate nelle enclaves minerarie e nelle grandi città. Settori importanti della società civile domandavano maggiore partecipazione politica attraverso l’allargamento dei diritti dei cittadini. Si pensi che fino al 1864 il diritto di voto era consentito ai soli maschi maggiori di 21 anni, se sposati (e maggiori di 25 anni, se scapoli), alfabeti e in possesso di beni immobili; e che nel 1894, anche se era stata abolita l’esigenza patrimoniale e il voto era consentito a tutti i maschi alfabeti maggiori di 21 anni, poteva votare solo il 2% della popolazione.

Il regime parlamentare garantì, tra l’altro, sia la ripartizione economica tra i vari circoli oligarchici dei fondi provenienti essenzialmente dal salnitro, sia l’efficace esercizio coercitivo del nascente movimento operaio. Tuttavia la crescita dei settori medi e la costruzione di sindacati e partiti, che li rappresentavano, trovarono in quel tipo di regime i primi concreti cenni di legittimazione.
Al principio degli anni Venti una serie di fattori convergono nell’accelerare la crisi del parlamentarismo cileno. L’emergenza dei ceti medi e il conseguente rafforzamento di un centro politico, il Partito radicale, con le esigenze di modernizzazione degli assetti politico-istituzionali, è parallela alla crescita del sindacalismo e del cosiddetto mundo popular. I cambiamenti dell’Europa del dopoguerra e l’influenza rivoluzionaria bolscevica dell’epoca si inseriscono in un panorama già assai complesso e sconvolto inoltre dall’esaurimento dell’industria del salnitro, che provocò altissimi tassi di disoccupazione e la massiccia emigrazione verso i maggiori centri urbani. La crisi politica coincise con il collasso del regime parlamentare.

Sul finire della Repubblica parlamentare all’inizio degli anni Venti, i partiti tradizionali, conservatore e liberale, vivevano un periodo di profonda crisi di identità. Il Partito conservatore, confessionale, rappresentante dell’oligarchia terriera e dei notabili cattolici più integralisti, era costretto a assumere, sia pure con toni paternalistici e poco convinti, la "questione sociale" sollevata dai documenti ecclesiali, in particolare l’enciclica Rerum Novarum. Il partito liberale, anch’esso di natura oligarchica, laico, rappresentante dei ceti urbani legati alle banche e al piccolo settore finanziario, vedeva nella modernizzazione dello Stato e del sistema politico l’obiettivo di maggiore rilievo. Il Partito radicale era l’espressione dei ceti medi e costituiva, nelle prime due decadi del secolo, la sinistra del quadro politico, dato che il Partito comunista e il suo predecessore, il Partito operaio socialista, non facevano parte del sistema politico.
Nel 1918 l’Alleanza liberale (costituita dai partiti liberale, radicale e democratico) vinse le elezioni politiche con un programma di profonde trasformazioni politico-istituzionali, espressione delle esigenze di modernizzazione dello Stato e della società dei ceti emergenti. In queste condizioni il fronte oppositore propose come candidato alla presidenza Arturo Alessandri, un vecchio notabile, che però rappresentava una profonda rottura con lo schema di riforma e di mutamenti graduali, ormai accettato dagli stessi conservatori. Alessandri era un leader con spiccati toni populistici; il suo costante appello alle masse urtava la sensibilità dell’establishment dei notabili, ma ancora di più spaventavano le sue proposte tacciate di giacobinismo. Nel 1920 chiama le masse alla mobilitazione per avere la ratifica di presidente della Repubblica privando in questo modo di ogni legittimità il sistema dei notabili. Mentre l’ideale di fondo dell’oligarchia, fin dal 1891, era quello del predominio dell’élite sul caudillo, Alessandri, con la sua proposta di una nuova Costituzione di tipo presidenziale, si appoggiava più sulle masse che sulle élites, pur essendo anche lui un genuino rappresentante di quella oligarchia in decadenza.

Il ritorno al presidenzialismo e la Costituzione del 1925

La Costituzione del 1925 fu dunque il prodotto di questo clima politico, ma essa fu ancora una volta possibile solo con il decisivo intervento dei militari. Rispetto alla Costituzione precedente, la carta del 1925, anche questa di tipo fortemente presidenziale, modificava i meccanismi che la potevano riformare, semplificando le procedure. E infatti nei primi anni una serie di riforme istituzionali perfezionarono il sistema democratico. La Carta del 1925, con poche modifiche, regolerà lo Stato cileno fino al 1973, anche se formalmente sarà in vigore fino al 1980. Questa Costituzione garantisce un ampio pluralismo politico attraverso l’allargamento della partecipazione politica e elettorale. Dopo il 1932, inoltre, garantisce una duratura stabilità politica (tra il colpo di Stato del 1924 e il 1932 il paese vive profondi e continui travolgimenti istituzionali; è il periodo del forte disordine politico accompagnato da una forte crescita politica dei settori medi e popolari urbanizzati; la crisi economica del 1929 dà infine il colpo di grazia alla presenza dei militari n quegli anni). Dal 1932 esiste una forma di concertazione democratica implicita che inserisce le sinistre marxiste nel sistema politico, consentendo, tramite i meccanismi di istituzionalizzazione, di trasformare il conflitto di classe in conflitto politico-elettorale. In questo modo lo Stato fu delegato a una forma di regolamentazione del conflitto valida per tutti e accettata da tutti. Il conflitto sociale - e qui c’è una notevole diversità con il resto dell’America latina - fu incanalato nelle istituzioni e regolato da norme, procedure e valori da tutti condivisi.
Una serie di fattori concorrono al consolidamento della democrazia in questo periodo e, tra questi, alcuni sembrano determinanti:

* le norme e le procedure di distribuzione e regolazione del potere, stabilite e sanzionate dalla Carta costituzionale del 1925, erano accettate da tutte le forze dello spettro politico: di conseguenza, il comportamento dello Stato e delle istituzioni nei confronti del conflitto trovava il consenso sostanziale dei gruppi sociali e politici
* il sistema politico come struttura di mediazione era rappresentativo dei conflitti e delle contraddizioni dei diversi gruppi sociali
* il sistema politico coinvolgeva la maggioranza dei gruppi sociali attraverso norme e procedure riconosciute e accettate, capaci di dare legittimità allo Stato e ai vari soggetti che vi concorrevano operando come un efficiente regolatore di conflitti e inserendo in un sistema di concertazione e negoziazione permanente le classi lavoratrici, gli imprenditori e la classe media: ogni soggetto era interessato a partecipare al sistema politico e non a distruggerlo

Si può dire che le caratteristiche del sistema politico cileno fino al 1973 erano le seguenti:

* stabilità sostanziale delle forme di rappresentanza e nei rapporti tra i vari gruppi politici
* partecipazione sociale crescente
* crescita della democrazia politica: la presenza di un panorama politico pluralista, con una forte sinistra marxista che partecipa alla competizione democratica è certamente, nel panorama latinoamericano, un’anomalia. Manuel A. Garretón ha sottolineato come il processo di consolidamento democratico in Cile abbia avuto come caratteristica rilevante la gradualità e ciò abbia comportato una cooptazione dei settori popolari nel sistema politico senza una parallela cooptazione ideologica. Questo spiegherebbe il fatto che tali gruppi sociali hanno preservato le ideologie che chiedevano forme radicali di cambiamento e comunque alternative al sistema politico. L’anomala forte presenza di una sinistra marxista si spiega, secondo Garretón, in questo modo. La precarietà dell’adesione al sistema democratico, di tipo fondamentalmente strumentale, derivava più dalla capacità di questo sistema di soddisfare interessi e rivendicazioni che dalla valorizzazione implicita o intrinseca della democrazia come forma di organizzazione politica
* distribuzione del potere elettorale tra diverse forze politiche: tale distribuzione è stata sostanzialmente, per molti anni, di tipo tripolare: tre raggruppamenti con forza equivalente si confrontano sul mercato politico. E’ ciò che alla fine degli anni Sessanta alcuni studiosi hanno chiamato i tre terzi inconciliabili.
Elementi caratteristici di questo sistema sono però anche le sue debolezze:
* particolare tipo di rapporto che con il sistema democratico avevano i vari gruppi politici, in particolare quelli di sinistra (cooptazione popolare senza parallela cooptazione ideologica con conseguente uso strumentale delle istituzioni democratiche)
* sostanziale debolezza delle organizzazioni della società civile, con conseguente dipendenza dei movimenti sociali, in particolare dei sindacati, rispetto ai partiti politici.

Il Fronte popolare

Lo Stato, i partiti politici e lo stesso sistema democratico si consolidano con le esperienze del Fronte popolare tra il 1938 e il 1947. Si tratta di un’esperienza di governo guidata dal Partito radicale, alla quale partecipavano i partiti comunista e socialista. Tali governi portarono a compimento i più importanti obiettivi di modernizzazione capitalista del Cile. Le direttrici della politica del centro-sinistra furono la stabilizzazione del sistema democratico attraverso l’allargamento della partecipazione sociale e l’affermazione del ruolo dello Stato nell’incentivazione del processo di industrializzazione, attuate ricercando, in nome della difesa della stabilità politica e istituzionale, una negoziazione permanente in particola re con i settori più avanzati della destra liberale. Queste esperienze lasciarono numerose questioni incompiute, anzitutto quella esplosiva dell’organizzazione sociale e produttiva delle campagne. La persistenza di rapporti sociali precapitalistici e coloniali era difesa a spada tratta dall’élite oligarchica della destra cilena. I governi di centro-sinistra preferirono non toccare gli interessi di questa fascia della società cilena, rimandando una riforma, quella agraria, che più avrebbe potuto caratterizzare il modello di sviluppo. Ma anche il problema del diritto alla sindacalizzazione dei contadini non fu mai affrontato. La seconda questione non affrontata fu la dipendenza economica esterna. Si trattava di compiti che solo a partire dagli anni Sessanta, dopo l’incalzante spinta della rivoluzione cubana, si porranno e non solo in Cile.
Nel frattempo non mancano rotture che di fatto rappresentano un’interruzione di continuità del consenso verso il sistema partitico. L’esperienza di Ibañez, al governo tra il 1952 e il 1958, è il più importante segnale d’allarme per i partiti politici; ma l’esperienza populista di Ibañez non fu in grado di articolare in forma stabile la scontentezza nei confronti del sistema politico come invece riuscirono a fare Vargas in Brasile e Perón in Argentina. Ibañez non riuscì, inoltre, a intraprendere l’impresa di modernizzazione, nella quale avevano già fallito i governi fronte-populisti.
Tra il 1958 e il 1964 la destra riesce a superare l’isolamento politico dei due precedenti decenni e costituisce un’alleanza con il Partito radicale. Mentre sul piano internazionale la rivoluzione cubana conferisce alle sinistre maggiore prestigio, sul piano interno il quadro politico si modifica con rapidità.

L’ascesa della Democrazia Cristiana

La costituzione, nel 1957, della Democrazia Cristiana e la sua rapida ascesa nel panorama politico nazionale modificava radicalmente lo spettro politico del paese.
La crisi del vecchio centro politico, il Partito radicale, era sempre più irreversibile, mentre la Democrazia Cristiana si proponeva come un partito riformista, moderno, che assumeva come suoi principali compiti programmatici i punti incompiuti dei governi di centro-sinistra. I fattori che determinarono il successo della Dc nello spettro politico cileno furono diversi:
* sicurezza e garanzia che offriva una leadership colta, moderna e serenamente rinnovatrice, decisiva in un momento di forte polarizzazione dello scontro politico
* attrattiva ideologica, non priva di una certa ambiguità e indeterminatezza (la "società comunitaria" o la "via non capitalistica allo sviluppo" proposte dalla Dc non furono mai chiaramente esplicitate e in ciò forse risiedeva parte del suo potere di attrazione)
* concezione dello sviluppo sociale: rifiuto della lotta di classe, idea di cambiare il carattere classista della partecipazione politica canalizzata unicamente dai partiti politici
* deciso allargamento, pur in condizioni di sottosviluppo economico, dello Stato sociale
* proposte di politiche economiche per un rapido sviluppo industriale: questo aspetto era il più controverso perché richiedeva, attraverso la riforma agraria, la modernizzazione dell’agricoltura e dei rapporti sociali nelle campagne; l’allargamento del mercato dei consumi che ciò esigeva comportava inoltre una forte ridistribuzione della ricchezza.
Per la messa in atto di questa politica occorreva il sostegno deciso dei gruppi sociali beneficiati, in primo luogo i contadini, i pobladores degli sterminati quartieri marginali e soprattutto i gruppi industriali più moderni e dinamici. Mentre l’appoggio dei kennediani e della "Alleanza per il progresso" era garantito, gli ostacoli interni erano ancora più determinanti per il buon esito del programma democristiano. Il primo ostacolo era rappresentato dai proprietari terrieri contrari alla riforma agraria e alla sindacalizzazione dei contadini. La sconfitta di questo gruppo era decisiva perché esso controllava il voto (peraltro sovrarappresentato) dei contadini nel Parlamento. Allo stesso tempo la Dc cercava, con la sconfitta di questo ceto, di rompere l’egemonia che esercitava sulla destra politica. L’altro ostacolo determinante era il radicalismo della sinistra sconfitta in una elezione fortemente polarizzata, che faceva ancora conto sul controllo del movimento sindacale.

Il potere d’attrazione che la Dc esercitava sull’elettorato derivava dalla concomitanza di diversi fattori:

* sul piano internazionale, la vittoria della rivoluzione cubana e il suo effetto propulsivo in America latina avevano allarmato gli Stati Uniti. La risposta di Kennedy e dei liberals americani è la "Alleanza per il progresso" che, combinata in alcuni casi con politiche coercitive, avrebbe potuto bloccare l’espansione dell’influenza cubana; per il Cile la risposta che i Kennediani ritenevano giusta è la "Rivoluzione nella libertà" di Frei
* sul piano interno la crisi del vecchio centro politico, l’egemonia dei settori più retrivi e conservatori sulla destra divisa e avvilita, ma anche la forte polarizzazione dello scontro tra sinistra e Dc favorirono nettamente la posizione della seconda.


"Rivoluzione nella libertà" o "via cilena al socialismo"?
Le elezioni del 1964 si svolsero dopo un lungo contenzioso tra due proposte, due programmi e due candidati, Frei e Allende, fautori di profondi cambiamenti nella società cilena. Con la "rivoluzione nella libertà" e con la "via cilena al socialismo" si concludeva un lungo ciclo di concertazione democratica, di avanzamenti graduali, di riforme negoziate.
Dal 1964 al 1973 si susseguono radicali cambiamenti politici: il governo della Dc, quello di Unidad popular e, a partire dal 1973, il regime militare.
Il governo della Dc rappresenta una alternativa politica escludente, restia alle alleanze politiche, portatrice di un programma, la "rivoluzione nella libertà", che riprendeva gli obiettivi di democratizzazione capitalista, rimasti incompiuti con i governi fronte-populisti e affermava la compatibilità tra democrazia rappresentativa e cambiamenti profondi. Nel periodo del suo governo la Democrazia cristiana, afferma Moulián, agisce come asse centrifugo, allontanando da sé ogni possibile alleato e ciò nonostante le affinità programmatiche con la sinistra. Moulián parla di doppio effetto centrifugo, perché essa si allontana sia dalla destra sia dalla sinistra. La destra, unita e agguerrita, si riorganizza creando un solo partito, il Partito nazionale, per meglio contrastare la politica riformista di Frei; da parte sua la sinistra, non interpretando forse a proprio favore la strategia della Dc almeno nei primi anni, cioè quella che prevedeva la divisione delle classi dirigenti attraverso la separazione dei settori industriali più moderni e dinamici dai proprietari terrieri e dall’oligarchia più ortodossa, riprende l’iniziativa politica con mobilitazioni via via sempre più massimaliste.
E’ in questo clima che si arriva alle elezioni del 1970. I tre terzi sono sempre più inconciliabili. Sempre più frequentemente saltano le regole del gioco e la politica viene concepita come nel resto dell’America latina: scompaiono sempre più rapidamente i momenti negoziali e la ideologizzazione blocca il funzionamento concertativo della democrazia cilena.
La vittoria di Allende e di Unidad popular accelera la crisi del sistema politico. La cultura politica dell’alleanza di sinistra, ha scritto recentemente EugenioTironi, è una miscela esplosiva di ideologia rivoluzionaria terzinternazionalista in rapporto allo Stato e ai partiti politici e una concezione di Keynesismo selvaggio per quanto riguarda il pensiero politico. Attraverso un processo di riforme non negoziate la sinistra, con il suo radicalismo messianico, ha voluto accrescere la partecipazione sociale, allargare e rendere più compiuta la democrazia politica e, soprattutto, puntare allo sviluppo economico avendo come agente determinante lo Stato. Unidad popular riteneva che la crisi cilena fosse di tipo strutturale e fosse determinata fondamentalmente dalla dipendenza esterna (in particolare il controllo americano sul rame, principale prodotto di esportazione), dall’organizzazione monopolistica dell’industria e latifondista delle campagne e soprattutto dalla struttura limitata e elitista della domanda interna. Di conseguenza le politiche di riforma prevedevano nazionalizzazioni, espropriazione e controllo dei monopoli, radicalizzazione della riforma agraria, incremento della domanda o ridistribuzione della ricchezza. La radicalità delle riforme di Unidad popular provocarono prima di tutto l’accentuarsi della polarizzazione politica e in seguito la crisi del sistema istituzionale, collegata a una mobilitazione sociale senza precedenti e a una spesa pubblica incontrollata.
Il colpo di stato dell’11 settembre 1973 non solo comportò la fine della democrazia cilena, ma fu un’alternativa, radicale e violenta, che, disarticolando le esperienze riformiste vissute tra il 1964 e il 1973, lascia alle generazioni successive una pesante eredità, oltre che sul piano economico e politico, soprattutto di natura etica e sociale.

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