La televisione si limita a ritrarre una violenza già esistente o al contrario ne favorisce lo sviluppo e la diffusione attraverso una programmazione mirata ad accrescerla ed esasperarla? (Alcuni esempi: crime-fiction, violenza nei dibattiti, TV del dolore, cinematografia violenta, messaggi subliminali in videogames e cartoni animati, etc.)
La violenza rappresenta anche oggi uno dei problemi più diffusi ed al contempo uno dei temi più discussi, oggetto di analisi psicologica, sociologica. Il concetto stesso di violenza è tutt’altro che univoco, ma tende ad esser correlato sia al momento storico sia al contesto sociale e culturale di un popolo, di un paese. Domandarsi se la televisione ritragga la violenza reale o se, al contrario, ne favorisca lo sviluppo e la diffusione attraverso una programmazione mirata ad accrescerla ed esasperarla, sembra un po’ come chiedere se sia nato prima l'uovo o la gallina. Le due tesi, oltretutto, non sembrano mutuamente esclusive, nel senso che possono coesistere ed anzi rafforzarsi l’una con l'altra. Una fra le definizioni più interessanti e indicative di violenza, che potrebbe esserci di aiuto in questa breve analisi è la seguente: la violenza è l’atto più grave dovuto ad inconsapevolezza che un essere umano possa compiere nei confronti di un altro essere umano, di un animale, dell’ambiente naturale. Inconsapevolezza, per una ragione molto semplice. L’individuo violento non è evidentemente in grado di riconoscere una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza: l’unità. Qualsiasi persona incontriamo per la strada, ascoltiamo, o semplicemente osserviamo in televisione o su un monitor del nostro computer, per quanto possa sembrarci distante, separata, distaccata da noi, è comunque parte di noi. E’ uno con noi stessi. Nonostante le apparenze non esiste alcuna separazione fisica fra noi e gli altri. Il vero problema è che non ne siamo consapevoli, alimentiamo un ego il quale cresce con noi, ci identifichiamo sempre più con esso, facciamo di tutto per rafforzarlo fino al punto di arrivare a trattare tutto ciò che è “altro”, come una potenziale minaccia. Qualsiasi cosa è potenzialmente una minaccia alla nostra sicurezza. L’ego è molto abile e cerca di difendersi attaccando tutto e tutti, e così nasce l’atteggiamento violento.
LA VIOLENZA NEL MEZZO RADIOTELEVISIVO
Già dal 1954, anno in cui la RAI inizia a trasmettere regolarmente le prime trasmissioni, il mondo politico italiano si rende conto subito delle enormi potenzialità della televisione, al contrario del mondo intellettuale. La grande preoccupazione sembra quella di educare il pubblico. Assistiamo all’invadenza delle forme pedagogiche all’interno dell’ambito dell’intrattenimento, e anche la fiction, come ogni altro genere televisivo, viene visibilmente influenzata dagli intenti pedagogici. Ma la violenza nel media televisivo fa la sua comparsa più tardi, con l’avvento delle televisioni private intorno al 1975, dove si inizia ad importare fiction di produzione straniera, in particolare di provenienza nord e sudamericana. Negli anni ’70 compaiono in Italia i primi cartoni animati giapponesi, basati sull’archetipo dell’eroe salva mondo e la sua eterna lotta contro il male. La violenza mediatica, in questi anni pare comunque confinata all’ambito dell’intrattenimento. E’ comunque qualcosa di distante dalla realtà contingente e dall’attualità. In Italia i problemi sono altri, inizia a diffondersi la droga e l’insofferenza sociale sfocerà negli anni di piombo, senza dubbio grandi fattori di stress per le masse.
Nel 1984 si ha una grande svolta per quanto riguarda il panorama televisivo italiano. Per la prima volta viene trasmessa la serie televisiva “La Piovra”, in cui viene messa in scena la lotta alla mafia. Uno dei più grandi successi della fiction italiana certamente dovuta all’abilità nell’unire lo stile da telefilm americano all’attualità italiana, la lotta alla cosiddetta criminalità organizzata. L’archetipo dell’eroe del bene assume le fattezze di un commissario che decide di combattere qualcosa molto più grande di lui. Dall’altra parte, il male viene impersonato dal boss mafioso spietato e carismatico. Una delle caratteristiche principali del programma è la serialità, che è caratteristica delle forme narrative per la massa, per cui si crea un’abitudine, un appuntamento fisso all’interno del tempo sociale, che ben presto va a consolidarsi. La piovra raggiunge il suo apice nel 1989: il 20 marzo, quando quasi diciotto milioni di italiani assistono all’assassinio del commissario Cattani.
Da lì in poi, il filone monopolizza di fatto la scena dell’intrattenimento violento. Nel 1985 arriva in Italia il serial di fantascienza Visitors e poco dopo, nel 1989, Hunter, un poliziesco in cui la dose di violenza aumenta considerevolmente rispetto agli altri prodotti di genere analogo, riscuoterà grande successo. Gli anni ’90 segnano un’evoluzione netta nella presenza di violenza come intrattenimento televisivo. Nel 1995 dagli Stati Uniti arriva N.Y.P.D., serie poliziesca durissima che negli Stati Uniti scatena polemiche per la violenza sia verbale che visiva. Nel 1996 entra in scena il “maresciallo Rocca” e giunge in Italia E.R., l’apoteosi della rappresentazione del dolore in forma di dramma medicale.
Dopo l’anno 2000 fino ai giorni nostri accade qualcosa di nuovo e per certi versi inedito. Assistiamo ad un processo di ibridazione. Se prima la fiction rappresentava il paradosso, l’irreale, l’artefatto, ora il divario fra il reale e la fiction va sfumando sempre più, complici anche i drammatici avvenimenti della cronaca. Per citarne uno, i fatti dell’11 settembre. Il reale quindi si ibrida con la fiction in una sorta di tutt’uno in cui la mente fa fatica a distinguere l’uno dall’altro. Non dimentichiamo che il subconscio è molto più ricettivo e performante rispetto alla mente consapevole. Va anche scomparendo l’effetto differita, cioè la rappresentazione sceneggiata di un evento che si è già svolto e concluso nel passato. Ora tutto avviene simultaneamente. La paura simulata e indotta dal mezzo mediatico è la stessa paura che si prova nei confronti del mondo esterno, fuori dalla porta di casa nostra. La violenza simulata in tv è la stessa violenza che potrebbe colpirci nel quotidiano, quando meno ce l’aspettiamo. Se infatti la TV, controllata dal potere, ha lo scopo prevalente, anche se non dichiarato, di plagiare il cervello dei cittadini orientandone i gusti e le preferenze, il plagiato deve innanzitutto essere nella condizione migliore per rendersi aperto alla manipolazione totale. Le tattiche sono:
- induzione dello stress
- accrescimento della frustrazione
- induzione di un senso di paura
Questi fattori rendono la persona desiderosa di staccare la spina, e la persona effettivamente la stacca la spina, ma come? Rilassandosi. Ecco preparata la torta avvelenata. Tonnellate di programmi aiuteranno il cittadino a svuotare la mente ed abbandonare il suo stress, la frustrazione, la paura.
LA CINEMATOGRAFIA VIOLENTA
Le emozioni forti diventano un’esigenza che deve essere soddisfatta, e la TV, o il cinema, inducono un bisogno e poi si occupano di fornire la dose quotidiana di intrattenimento e violenza necessari a soddisfare il bisogno stesso. I film, piuttosto che i programmi televisivi, aiutano a staccare la spina offrendo sensazioni forti a buon mercato che si concretizzano principalmente, per quanto riguarda la cinematografia, in violenza e orrore. Il film horror, nasce come genere all’inizio ‘900, ma ne corso degli anni ‘60 si sposta decisamente verso il genere psicologico. Poco più tardi, dato il crescente interesse del pubblico all'occulto, viene prodotta tutta una serie di pellicole dai toni forti, spesso con contenuti sessuali. Uno dei cambiamenti cruciali degli anni ‘60, per quanto riguarda le sceneggiature, è il cambiamento nel protagonista negativo delle vicende. Nel cinema dell’orrore classico, il mostro era un essere del tutto inumano, o non più umano (pensiamo a Dracula o gli zombie), mentre ora diviene essere umano, a volte in cerca di vendetta, oppure impazzito o assetato di sangue. La paura subisce quindi una trasformazione, cioè non è più nei confronti di ciò che non si conosce, bensì verso qualcuno che si conosce bene, ma di cui non ci si dovrebbe del tutto fidare (il proprio vicino di casa, o addirittura noi stessi). Negli anni ’90, si ha una nuova transizione, non è più la persona conosciuta a seminare il panico in una comunità o in un gruppo più ristretto di personaggi, ma è l’intera società ad essere malata e assassina. Oltre all'umanizzazione di personaggi negativi classici (il conte Vlad) avviene anche una sorta di generalizzazione del male. Il mostro è un uomo, ma questa volta non si è più certi di chi sia esattamente. Chiunque è imputabile e di chiunque è possibile dubitare. E’ la stessa società malata che crea e poi nasconde il mostro. Anche in questo caso, la caratteristica comune con l’horror classico è la forte dualità bene contro il male.
Nell’ultimo decennio la violenza è sempre più esposta, e al di là della rappresentazione del sangue e della morte violenta nasce l’interesse nel mostrare la sofferenza. La morte è quindi solo l'ultima tappa di un lungo e orribile percorso. Molti horror attuali aggiungono un gusto per la sofferenza sia psicologica che fisica, cosa che manca nei decenni precedenti. Inoltre vi è un’ulteriore progressione in quel processo di umanizzazione del mostro iniziato negli anni ’60, arrivando all’idea di un male esteso alla società, prima ancora che al mostro. I personaggi sono calati in una società identica a loro nei metodi e nei comportamenti, anche se con fini diversi. I poliziotti spesso non sono molto differenti dai criminali. E’ la società ad essere un mostro e i criminali non sono che una sua estensione. Il bene, sostanzialmente, non esiste più. Nell’ambito della cinematografia violenta, ma non solo in quell’ambito, potremmo affermare uno dei punti focali della nostra discussione: i mass media non inducono alla violenza, massivamente, ma la utilizzano come strumento per impegnare il cervello in un’attività intensa di creazione di emozioni strumentale sempre e comunque al distacco da un senso critico legato alla realtà che il soggetto vive. D’altra parte ci poniamo però, ancora una volta, il dubbio: siamo sicuri che la violenza messa in scena o ricreata cinematograficamente o attraverso certi videogames non si insinui a poco a poco nel subconscio dello spettatore, al punto da indurre atteggiamenti o comportamenti violenti?
LA VIOLENZA NELL’INFORMAZIONE DI MASSA
L’impressione che abbiamo è che ciò di cui ci siamo nutriti nel corso dei decenni scorsi abbia formato e condizionato profondamente il gusto e le scelte di consumo delle ultime generazioni. La violenza diventa spesso il linguaggio dell’informazione che i mass media ci propongono. La violenza nei toni e nei metodi approda nei dibattiti televisivi. La sofferenza prima relegata alla cinematografia entra oggi negli studi televisivi grazie alla tv del dolore. I risvolti sociologici possono essere numerosi. Possiamo citare anche le torture di abu-ghraib, o l'esposizione ostentata dei video con le uccisioni che vedevano protagonisti alcuni fondamentalisti islamici. Oggi, nel 2011, a che serve e a chi giova tutta questa violenza mediatica?
L’ARTE DI COSTRUIRE UNA MINACCIA
Il sociologo Zygmunt Bauman afferma: "La paura è un capitale voluminoso per i mass-media." Ma la paura potrebbe anche essere definita come l’aspettativa di una potenziale violenza. E quest’ultima, a sua volta, richiede necessariamente l’esistenza di una minaccia. Oggi la minaccia (presunta) è l’altro, il vicino, il diverso, la malattia, il virus; è il terrorista, è il mafioso, oppure ciò che ci è ignoto. Come abbiamo già visto, i media nel corso dei decenni hanno trattato ampiamente le principali minacce. Dunque, il modo più efficace per creare paura è quello di creare una minaccia, stabilire un nemico, un obiettivo e costruirvi sopra una rappresentazione di violenza. Una volta parlavamo con gli sconosciuti e confidavamo nelle loro buone intenzioni. Oggi sono tutti potenziali predatori. I bambini hanno bisogno di un cellulare in tasca e vivono nella paura di essere rapiti dal mostro di turno. Siamo ormai una società educata e basata sulla violenza e sulla paura, e questa ossessione si è insinuata in ogni aspetto della nostra vita, compresi i passatempi. Siamo seduti al cinema o davanti alla tv con gli occhi sbarrati mentre seguiamo le macchinazioni di un serial killer o qualche altro malcapitato mentre viene decapitato da una motosega. Senza soluzione di continuità parte l’aggiornamento del notiziario che ci ricorda di preoccuparci per questa o quella catastrofe in arrivo. L’informazione nei mass-media oggi è estremamente pervasiva. Tra l’altro non dobbiamo dimenticare che qualsiasi comunicazione prodotta dalla televisione o dagli altri media mainstream (cioè le grandi ‘testate’), per sua natura parte col piede sbagliato perché è monodirezionale e prevede che i due interlocutori, colui che trasmette e colui che riceve, siano entrambi convinti che il primo ne sa più del secondo. Parlando di carta stampata, questa è una premessa che regge esclusivamente sul prestigio della testata pubblicante (prestigio che si trasmette in automatico alla firma) e che i lettori – checché ne dicano - accettano in toto ed incondizionatamente.
UN CIRCOLO VIZIOSO
La televisione ritrae senz’altro scene di violenza dalla realtà, ma ne stimola anche, a sua volta, lo sviluppo, sia attraverso la semplice diffusione di scene di violenza tratte dalla vita reale, che attraverso la creazione di scene di violenza immaginarie e virtuali. D'altronde, anche la sola scelta di quale aspetto della realtà si desidera che venga focalizzato, fa in un certo senso da zoom ad effetto moltiplicatore dell'aspetto stesso, poiché, estrapolando un frammento di realtà, si tralascia di conseguenza tutto il resto. Dunque, ogni focalizzazione è uno stimolo per quegli aspetti della vita e per quei valori che vengono focalizzati. Ma i nostri occhi e il nostro cervello non fanno lo stesso? Se assistiamo costantemente a scene di violenza, non ne siamo comunque condizionati e molto spesso portati a emularle? Vogliamo anche soffermarci su un’altra questione importante, che riguarda la veridicità dello strumento televisivo. La parola stessa, tele-visione, credo che sia tradotta letteralmente in quasi tutte le lingue (es. fern-sehen in tedesco) e significa, letteralmente, guardare lontano. Come se la televisione fosse, cioè, una sorta di cannocchiale sul mondo. Che ci permette quindi di vedere realtà a noi remote pur rimanendo seduti comodamente in pantofole in poltrona. Ma siamo proprio sicuri che la televisione ci porti a vedere realtà a noi lontane e che sia quindi uno strumento per conoscere realtà distanti? O, piuttosto, è la televisione a portare noi, che la guardiamo, nel suo mondo?
Effettivamente, la televisione, cambiando continuamente forma e apparenza, sembrerebbe rispondere sempre ai nostri desideri e alla nostra fame di piacere visuale. D’altra parte, sembra che non faccia altro che proiettarci nel suo mondo, un mondo artefatto. Apparentemente siamo sempre noi a decidere e a detenerne il controllo, poiché abbiamo il telecomando in mano. Ma nella sostanza, perdiamo sempre, un po’ alla volta, la nostra identità mentre identificandoci sempre più in ciò che viene trasmesso, ne diventiamo condizionati a livello emotivo. Infatti, se non la guardiamo con una certa regolarità, secondo le nostre abitudini, avvertiamo una sensazione di mancanza di qualcosa. Quel "qualcosa" che sembra mancare è in realtà una piccolissima crisi d'astinenza che sperimentiamo: un po' come la mancanza del fiasco di vino per l'alcolizzato. Siamo diventati schiavi senza nemmeno accorgercene. E, per di più, per nostra libera scelta. E come se non bastasse, spesso siamo pronti a pagare per l’acquisto di nuovi servizi televisivi e nuovi programmi tali da darci più piacere. Sicuramente un circolo vizioso tra violenza reale ad esposizione alla violenza tramite mass media esiste, ma la televisione, essendo pensata a scopo di lucro, non fa altro che rispondere ad una domanda (come per il mercato). Oggi, non tutte le proposte televisive vengono accettate dal pubblico, probabilmente soltanto quelle che soddisfano una necessità, più o meno indotta. Il cittadino ha bisogno di incollarsi al telegiornale quando si parla di dolore altrui, e più la notizia è invadente e drammatica più avrà successo tra gli spettatori.
La domanda ricorrente è: perché? cosa cerchiamo? (che poi è la stessa riflessione che faremmo pensando ai film dell'orrore ed alla loro diffusione). Una risposta definitiva non esiste. Possiamo prendere atto che un certo tipo di prodotto ci piace, lo consumiamo, ma al contempo spingerci oltre con lo sguardo cercando di diventare consapevoli delle meccaniche psicologiche e sociologiche che hanno causato e determinato il grande problema della violenza reale e nei mass-media. Forse il discorso è diverso quando lo spettatore è un bambino. Non che egli abbia la testa vuota, ma sicuramente dispone di una mente non ancora contaminata, che forse non è il caso di riempire a suon di arancia meccanica. Da qui l’importanza di un’educazione consapevole, che spesso, come opzione possibile, può passare attraverso una chiusura temporanea del rubinetto mass-mediatico, per dedicarsi ad altre attività più ispiranti anche se meno battute dalla massa. Oggi, certa realtà supera ampiamente la fantasia, in quanto a violenza, e il comportamento reale spesso non trae più ispirazione dalla televisione, ma si spinge ben oltre, purtroppo.
UNA POSSIBILE SOLUZIONE AL PROBLEMA
Quantunque questi elementi di condizionamento possano ormai essere entrati nel nostro dna e riaffiorino quando meno ce l'aspettiamo, dovremmo molto probabilmente imparare a controllarli e a sviluppare interessi alternativi. A riflettere, ad esempio, su temi importanti. Ad osservare senza fretta qualsiasi cosa, anche le più banali. Magari un albero, il mare, il tramonto o un uccello che vola. Se viviamo in un Universo vibrazionale, se tutto vibra e con-vibra, certamente le suggestioni di violenza, crimini, ruberie e furbizie per aggirare i controlli e i sistemi possono entrare dentro le menti. Le menti fragili. Ma come costruire una mente e un sé stabile e centrato? Come fare in modo che queste vibrazioni non penetrino e non provochino disturbi o, peggio, istigazione a delinquere?
Ognuno di noi è mente singola ma è anche parte di una mente collettiva. Jung la chiamava inconscio collettivo, e tutti vi siamo immersi. Ciascuno di noi può lavorare su di sé e raggiungere un equilibrio, senza dubbio attraverso le prove dell'esistenza, sia attraverso la soluzione di conflitti esterni ed interni, attraverso un raggiungimento di un equilibrio psico-fisico che la famiglia ed educatori equilibrati potranno indicare come via percorribile. Ma nessuno crediamo possa impedire ad un altro individuo di fare le esperienze che gli servono! Tenere sotto una campana di vetro le farfalle le farà impazzire per il desiderio che hanno di volare e di conoscere spazi e fiori, ed altri elementi della Natura. Forse bisognerebbe favorire l'auto analisi, la comprensione che il mondo esterno non è altro che il riflesso del nostro interno! Allora colui che è equilibrato riuscirà a comprendere che le piazzate di certi talk-show fanno parte di noi e sono le nostre parti che si aggrediscono a vicenda, perché squilibrate. Tutto è uno spettacolo messo in scena perché possiamo smetterla di farci creare dai mass media e dalla loro violenza, e assumerci finalmente la piena responsabilità della nostra vita, per fare scelte di vita diverse che ci aiutino a equilibrare istinti, sentimenti, pensieri, emozioni per vivere al meglio. Certo, se la televisione fosse più equilibrata e condotta con saggezza potrebbe alternare il bene e il male, e mostrare come essi possano essere considerati parte di un Tao, e quindi come tutto quello che è squilibrato fuori debba tornare in equilibrio dentro, per poter essere tutti individui sereni e felici, e che non hanno bisogno di aggredirsi per convivere, ma possono benissimo, con humour e tolleranza, e senza aggressività, osservare a distanza il mondo esterno cercando di migliorare il proprio mondo interno.
Il problema delle masse è che si lasciano suggestionare più da messaggi che li illudono che la felicità sia il risultato di acquisti, oggetti di lusso, il superfluo presentato come necessità. L’educazione, la filosofia, la psicologia, la spiritualità, i grandi insegnamenti spiegati in maniera semplice alle masse potrebbero costituire un grande cambiamento. Ma il cambiamento di coscienza avverrà comunque, perché ormai la comunicazione in rete sta superando i mass media unidirezionali. Inoltre, organizzare dei periodi di oscuramento consapevole dell'in-formazione ed invitare la gente a maggiori scambi interpersonali tramite eventi di piazza, concerti, notti bianche, musica, arte, ed altre iniziative, potrebbe ulteriormente essere di grande aiuto.
La violenza rappresenta anche oggi uno dei problemi più diffusi ed al contempo uno dei temi più discussi, oggetto di analisi psicologica, sociologica. Il concetto stesso di violenza è tutt’altro che univoco, ma tende ad esser correlato sia al momento storico sia al contesto sociale e culturale di un popolo, di un paese. Domandarsi se la televisione ritragga la violenza reale o se, al contrario, ne favorisca lo sviluppo e la diffusione attraverso una programmazione mirata ad accrescerla ed esasperarla, sembra un po’ come chiedere se sia nato prima l'uovo o la gallina. Le due tesi, oltretutto, non sembrano mutuamente esclusive, nel senso che possono coesistere ed anzi rafforzarsi l’una con l'altra. Una fra le definizioni più interessanti e indicative di violenza, che potrebbe esserci di aiuto in questa breve analisi è la seguente: la violenza è l’atto più grave dovuto ad inconsapevolezza che un essere umano possa compiere nei confronti di un altro essere umano, di un animale, dell’ambiente naturale. Inconsapevolezza, per una ragione molto semplice. L’individuo violento non è evidentemente in grado di riconoscere una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza: l’unità. Qualsiasi persona incontriamo per la strada, ascoltiamo, o semplicemente osserviamo in televisione o su un monitor del nostro computer, per quanto possa sembrarci distante, separata, distaccata da noi, è comunque parte di noi. E’ uno con noi stessi. Nonostante le apparenze non esiste alcuna separazione fisica fra noi e gli altri. Il vero problema è che non ne siamo consapevoli, alimentiamo un ego il quale cresce con noi, ci identifichiamo sempre più con esso, facciamo di tutto per rafforzarlo fino al punto di arrivare a trattare tutto ciò che è “altro”, come una potenziale minaccia. Qualsiasi cosa è potenzialmente una minaccia alla nostra sicurezza. L’ego è molto abile e cerca di difendersi attaccando tutto e tutti, e così nasce l’atteggiamento violento.
LA VIOLENZA NEL MEZZO RADIOTELEVISIVO
Già dal 1954, anno in cui la RAI inizia a trasmettere regolarmente le prime trasmissioni, il mondo politico italiano si rende conto subito delle enormi potenzialità della televisione, al contrario del mondo intellettuale. La grande preoccupazione sembra quella di educare il pubblico. Assistiamo all’invadenza delle forme pedagogiche all’interno dell’ambito dell’intrattenimento, e anche la fiction, come ogni altro genere televisivo, viene visibilmente influenzata dagli intenti pedagogici. Ma la violenza nel media televisivo fa la sua comparsa più tardi, con l’avvento delle televisioni private intorno al 1975, dove si inizia ad importare fiction di produzione straniera, in particolare di provenienza nord e sudamericana. Negli anni ’70 compaiono in Italia i primi cartoni animati giapponesi, basati sull’archetipo dell’eroe salva mondo e la sua eterna lotta contro il male. La violenza mediatica, in questi anni pare comunque confinata all’ambito dell’intrattenimento. E’ comunque qualcosa di distante dalla realtà contingente e dall’attualità. In Italia i problemi sono altri, inizia a diffondersi la droga e l’insofferenza sociale sfocerà negli anni di piombo, senza dubbio grandi fattori di stress per le masse.
Nel 1984 si ha una grande svolta per quanto riguarda il panorama televisivo italiano. Per la prima volta viene trasmessa la serie televisiva “La Piovra”, in cui viene messa in scena la lotta alla mafia. Uno dei più grandi successi della fiction italiana certamente dovuta all’abilità nell’unire lo stile da telefilm americano all’attualità italiana, la lotta alla cosiddetta criminalità organizzata. L’archetipo dell’eroe del bene assume le fattezze di un commissario che decide di combattere qualcosa molto più grande di lui. Dall’altra parte, il male viene impersonato dal boss mafioso spietato e carismatico. Una delle caratteristiche principali del programma è la serialità, che è caratteristica delle forme narrative per la massa, per cui si crea un’abitudine, un appuntamento fisso all’interno del tempo sociale, che ben presto va a consolidarsi. La piovra raggiunge il suo apice nel 1989: il 20 marzo, quando quasi diciotto milioni di italiani assistono all’assassinio del commissario Cattani.
Da lì in poi, il filone monopolizza di fatto la scena dell’intrattenimento violento. Nel 1985 arriva in Italia il serial di fantascienza Visitors e poco dopo, nel 1989, Hunter, un poliziesco in cui la dose di violenza aumenta considerevolmente rispetto agli altri prodotti di genere analogo, riscuoterà grande successo. Gli anni ’90 segnano un’evoluzione netta nella presenza di violenza come intrattenimento televisivo. Nel 1995 dagli Stati Uniti arriva N.Y.P.D., serie poliziesca durissima che negli Stati Uniti scatena polemiche per la violenza sia verbale che visiva. Nel 1996 entra in scena il “maresciallo Rocca” e giunge in Italia E.R., l’apoteosi della rappresentazione del dolore in forma di dramma medicale.
Dopo l’anno 2000 fino ai giorni nostri accade qualcosa di nuovo e per certi versi inedito. Assistiamo ad un processo di ibridazione. Se prima la fiction rappresentava il paradosso, l’irreale, l’artefatto, ora il divario fra il reale e la fiction va sfumando sempre più, complici anche i drammatici avvenimenti della cronaca. Per citarne uno, i fatti dell’11 settembre. Il reale quindi si ibrida con la fiction in una sorta di tutt’uno in cui la mente fa fatica a distinguere l’uno dall’altro. Non dimentichiamo che il subconscio è molto più ricettivo e performante rispetto alla mente consapevole. Va anche scomparendo l’effetto differita, cioè la rappresentazione sceneggiata di un evento che si è già svolto e concluso nel passato. Ora tutto avviene simultaneamente. La paura simulata e indotta dal mezzo mediatico è la stessa paura che si prova nei confronti del mondo esterno, fuori dalla porta di casa nostra. La violenza simulata in tv è la stessa violenza che potrebbe colpirci nel quotidiano, quando meno ce l’aspettiamo. Se infatti la TV, controllata dal potere, ha lo scopo prevalente, anche se non dichiarato, di plagiare il cervello dei cittadini orientandone i gusti e le preferenze, il plagiato deve innanzitutto essere nella condizione migliore per rendersi aperto alla manipolazione totale. Le tattiche sono:
- induzione dello stress
- accrescimento della frustrazione
- induzione di un senso di paura
Questi fattori rendono la persona desiderosa di staccare la spina, e la persona effettivamente la stacca la spina, ma come? Rilassandosi. Ecco preparata la torta avvelenata. Tonnellate di programmi aiuteranno il cittadino a svuotare la mente ed abbandonare il suo stress, la frustrazione, la paura.
LA CINEMATOGRAFIA VIOLENTA
Le emozioni forti diventano un’esigenza che deve essere soddisfatta, e la TV, o il cinema, inducono un bisogno e poi si occupano di fornire la dose quotidiana di intrattenimento e violenza necessari a soddisfare il bisogno stesso. I film, piuttosto che i programmi televisivi, aiutano a staccare la spina offrendo sensazioni forti a buon mercato che si concretizzano principalmente, per quanto riguarda la cinematografia, in violenza e orrore. Il film horror, nasce come genere all’inizio ‘900, ma ne corso degli anni ‘60 si sposta decisamente verso il genere psicologico. Poco più tardi, dato il crescente interesse del pubblico all'occulto, viene prodotta tutta una serie di pellicole dai toni forti, spesso con contenuti sessuali. Uno dei cambiamenti cruciali degli anni ‘60, per quanto riguarda le sceneggiature, è il cambiamento nel protagonista negativo delle vicende. Nel cinema dell’orrore classico, il mostro era un essere del tutto inumano, o non più umano (pensiamo a Dracula o gli zombie), mentre ora diviene essere umano, a volte in cerca di vendetta, oppure impazzito o assetato di sangue. La paura subisce quindi una trasformazione, cioè non è più nei confronti di ciò che non si conosce, bensì verso qualcuno che si conosce bene, ma di cui non ci si dovrebbe del tutto fidare (il proprio vicino di casa, o addirittura noi stessi). Negli anni ’90, si ha una nuova transizione, non è più la persona conosciuta a seminare il panico in una comunità o in un gruppo più ristretto di personaggi, ma è l’intera società ad essere malata e assassina. Oltre all'umanizzazione di personaggi negativi classici (il conte Vlad) avviene anche una sorta di generalizzazione del male. Il mostro è un uomo, ma questa volta non si è più certi di chi sia esattamente. Chiunque è imputabile e di chiunque è possibile dubitare. E’ la stessa società malata che crea e poi nasconde il mostro. Anche in questo caso, la caratteristica comune con l’horror classico è la forte dualità bene contro il male.
Nell’ultimo decennio la violenza è sempre più esposta, e al di là della rappresentazione del sangue e della morte violenta nasce l’interesse nel mostrare la sofferenza. La morte è quindi solo l'ultima tappa di un lungo e orribile percorso. Molti horror attuali aggiungono un gusto per la sofferenza sia psicologica che fisica, cosa che manca nei decenni precedenti. Inoltre vi è un’ulteriore progressione in quel processo di umanizzazione del mostro iniziato negli anni ’60, arrivando all’idea di un male esteso alla società, prima ancora che al mostro. I personaggi sono calati in una società identica a loro nei metodi e nei comportamenti, anche se con fini diversi. I poliziotti spesso non sono molto differenti dai criminali. E’ la società ad essere un mostro e i criminali non sono che una sua estensione. Il bene, sostanzialmente, non esiste più. Nell’ambito della cinematografia violenta, ma non solo in quell’ambito, potremmo affermare uno dei punti focali della nostra discussione: i mass media non inducono alla violenza, massivamente, ma la utilizzano come strumento per impegnare il cervello in un’attività intensa di creazione di emozioni strumentale sempre e comunque al distacco da un senso critico legato alla realtà che il soggetto vive. D’altra parte ci poniamo però, ancora una volta, il dubbio: siamo sicuri che la violenza messa in scena o ricreata cinematograficamente o attraverso certi videogames non si insinui a poco a poco nel subconscio dello spettatore, al punto da indurre atteggiamenti o comportamenti violenti?
LA VIOLENZA NELL’INFORMAZIONE DI MASSA
L’impressione che abbiamo è che ciò di cui ci siamo nutriti nel corso dei decenni scorsi abbia formato e condizionato profondamente il gusto e le scelte di consumo delle ultime generazioni. La violenza diventa spesso il linguaggio dell’informazione che i mass media ci propongono. La violenza nei toni e nei metodi approda nei dibattiti televisivi. La sofferenza prima relegata alla cinematografia entra oggi negli studi televisivi grazie alla tv del dolore. I risvolti sociologici possono essere numerosi. Possiamo citare anche le torture di abu-ghraib, o l'esposizione ostentata dei video con le uccisioni che vedevano protagonisti alcuni fondamentalisti islamici. Oggi, nel 2011, a che serve e a chi giova tutta questa violenza mediatica?
L’ARTE DI COSTRUIRE UNA MINACCIA
Il sociologo Zygmunt Bauman afferma: "La paura è un capitale voluminoso per i mass-media." Ma la paura potrebbe anche essere definita come l’aspettativa di una potenziale violenza. E quest’ultima, a sua volta, richiede necessariamente l’esistenza di una minaccia. Oggi la minaccia (presunta) è l’altro, il vicino, il diverso, la malattia, il virus; è il terrorista, è il mafioso, oppure ciò che ci è ignoto. Come abbiamo già visto, i media nel corso dei decenni hanno trattato ampiamente le principali minacce. Dunque, il modo più efficace per creare paura è quello di creare una minaccia, stabilire un nemico, un obiettivo e costruirvi sopra una rappresentazione di violenza. Una volta parlavamo con gli sconosciuti e confidavamo nelle loro buone intenzioni. Oggi sono tutti potenziali predatori. I bambini hanno bisogno di un cellulare in tasca e vivono nella paura di essere rapiti dal mostro di turno. Siamo ormai una società educata e basata sulla violenza e sulla paura, e questa ossessione si è insinuata in ogni aspetto della nostra vita, compresi i passatempi. Siamo seduti al cinema o davanti alla tv con gli occhi sbarrati mentre seguiamo le macchinazioni di un serial killer o qualche altro malcapitato mentre viene decapitato da una motosega. Senza soluzione di continuità parte l’aggiornamento del notiziario che ci ricorda di preoccuparci per questa o quella catastrofe in arrivo. L’informazione nei mass-media oggi è estremamente pervasiva. Tra l’altro non dobbiamo dimenticare che qualsiasi comunicazione prodotta dalla televisione o dagli altri media mainstream (cioè le grandi ‘testate’), per sua natura parte col piede sbagliato perché è monodirezionale e prevede che i due interlocutori, colui che trasmette e colui che riceve, siano entrambi convinti che il primo ne sa più del secondo. Parlando di carta stampata, questa è una premessa che regge esclusivamente sul prestigio della testata pubblicante (prestigio che si trasmette in automatico alla firma) e che i lettori – checché ne dicano - accettano in toto ed incondizionatamente.
UN CIRCOLO VIZIOSO
La televisione ritrae senz’altro scene di violenza dalla realtà, ma ne stimola anche, a sua volta, lo sviluppo, sia attraverso la semplice diffusione di scene di violenza tratte dalla vita reale, che attraverso la creazione di scene di violenza immaginarie e virtuali. D'altronde, anche la sola scelta di quale aspetto della realtà si desidera che venga focalizzato, fa in un certo senso da zoom ad effetto moltiplicatore dell'aspetto stesso, poiché, estrapolando un frammento di realtà, si tralascia di conseguenza tutto il resto. Dunque, ogni focalizzazione è uno stimolo per quegli aspetti della vita e per quei valori che vengono focalizzati. Ma i nostri occhi e il nostro cervello non fanno lo stesso? Se assistiamo costantemente a scene di violenza, non ne siamo comunque condizionati e molto spesso portati a emularle? Vogliamo anche soffermarci su un’altra questione importante, che riguarda la veridicità dello strumento televisivo. La parola stessa, tele-visione, credo che sia tradotta letteralmente in quasi tutte le lingue (es. fern-sehen in tedesco) e significa, letteralmente, guardare lontano. Come se la televisione fosse, cioè, una sorta di cannocchiale sul mondo. Che ci permette quindi di vedere realtà a noi remote pur rimanendo seduti comodamente in pantofole in poltrona. Ma siamo proprio sicuri che la televisione ci porti a vedere realtà a noi lontane e che sia quindi uno strumento per conoscere realtà distanti? O, piuttosto, è la televisione a portare noi, che la guardiamo, nel suo mondo?
Effettivamente, la televisione, cambiando continuamente forma e apparenza, sembrerebbe rispondere sempre ai nostri desideri e alla nostra fame di piacere visuale. D’altra parte, sembra che non faccia altro che proiettarci nel suo mondo, un mondo artefatto. Apparentemente siamo sempre noi a decidere e a detenerne il controllo, poiché abbiamo il telecomando in mano. Ma nella sostanza, perdiamo sempre, un po’ alla volta, la nostra identità mentre identificandoci sempre più in ciò che viene trasmesso, ne diventiamo condizionati a livello emotivo. Infatti, se non la guardiamo con una certa regolarità, secondo le nostre abitudini, avvertiamo una sensazione di mancanza di qualcosa. Quel "qualcosa" che sembra mancare è in realtà una piccolissima crisi d'astinenza che sperimentiamo: un po' come la mancanza del fiasco di vino per l'alcolizzato. Siamo diventati schiavi senza nemmeno accorgercene. E, per di più, per nostra libera scelta. E come se non bastasse, spesso siamo pronti a pagare per l’acquisto di nuovi servizi televisivi e nuovi programmi tali da darci più piacere. Sicuramente un circolo vizioso tra violenza reale ad esposizione alla violenza tramite mass media esiste, ma la televisione, essendo pensata a scopo di lucro, non fa altro che rispondere ad una domanda (come per il mercato). Oggi, non tutte le proposte televisive vengono accettate dal pubblico, probabilmente soltanto quelle che soddisfano una necessità, più o meno indotta. Il cittadino ha bisogno di incollarsi al telegiornale quando si parla di dolore altrui, e più la notizia è invadente e drammatica più avrà successo tra gli spettatori.
La domanda ricorrente è: perché? cosa cerchiamo? (che poi è la stessa riflessione che faremmo pensando ai film dell'orrore ed alla loro diffusione). Una risposta definitiva non esiste. Possiamo prendere atto che un certo tipo di prodotto ci piace, lo consumiamo, ma al contempo spingerci oltre con lo sguardo cercando di diventare consapevoli delle meccaniche psicologiche e sociologiche che hanno causato e determinato il grande problema della violenza reale e nei mass-media. Forse il discorso è diverso quando lo spettatore è un bambino. Non che egli abbia la testa vuota, ma sicuramente dispone di una mente non ancora contaminata, che forse non è il caso di riempire a suon di arancia meccanica. Da qui l’importanza di un’educazione consapevole, che spesso, come opzione possibile, può passare attraverso una chiusura temporanea del rubinetto mass-mediatico, per dedicarsi ad altre attività più ispiranti anche se meno battute dalla massa. Oggi, certa realtà supera ampiamente la fantasia, in quanto a violenza, e il comportamento reale spesso non trae più ispirazione dalla televisione, ma si spinge ben oltre, purtroppo.
UNA POSSIBILE SOLUZIONE AL PROBLEMA
Quantunque questi elementi di condizionamento possano ormai essere entrati nel nostro dna e riaffiorino quando meno ce l'aspettiamo, dovremmo molto probabilmente imparare a controllarli e a sviluppare interessi alternativi. A riflettere, ad esempio, su temi importanti. Ad osservare senza fretta qualsiasi cosa, anche le più banali. Magari un albero, il mare, il tramonto o un uccello che vola. Se viviamo in un Universo vibrazionale, se tutto vibra e con-vibra, certamente le suggestioni di violenza, crimini, ruberie e furbizie per aggirare i controlli e i sistemi possono entrare dentro le menti. Le menti fragili. Ma come costruire una mente e un sé stabile e centrato? Come fare in modo che queste vibrazioni non penetrino e non provochino disturbi o, peggio, istigazione a delinquere?
Ognuno di noi è mente singola ma è anche parte di una mente collettiva. Jung la chiamava inconscio collettivo, e tutti vi siamo immersi. Ciascuno di noi può lavorare su di sé e raggiungere un equilibrio, senza dubbio attraverso le prove dell'esistenza, sia attraverso la soluzione di conflitti esterni ed interni, attraverso un raggiungimento di un equilibrio psico-fisico che la famiglia ed educatori equilibrati potranno indicare come via percorribile. Ma nessuno crediamo possa impedire ad un altro individuo di fare le esperienze che gli servono! Tenere sotto una campana di vetro le farfalle le farà impazzire per il desiderio che hanno di volare e di conoscere spazi e fiori, ed altri elementi della Natura. Forse bisognerebbe favorire l'auto analisi, la comprensione che il mondo esterno non è altro che il riflesso del nostro interno! Allora colui che è equilibrato riuscirà a comprendere che le piazzate di certi talk-show fanno parte di noi e sono le nostre parti che si aggrediscono a vicenda, perché squilibrate. Tutto è uno spettacolo messo in scena perché possiamo smetterla di farci creare dai mass media e dalla loro violenza, e assumerci finalmente la piena responsabilità della nostra vita, per fare scelte di vita diverse che ci aiutino a equilibrare istinti, sentimenti, pensieri, emozioni per vivere al meglio. Certo, se la televisione fosse più equilibrata e condotta con saggezza potrebbe alternare il bene e il male, e mostrare come essi possano essere considerati parte di un Tao, e quindi come tutto quello che è squilibrato fuori debba tornare in equilibrio dentro, per poter essere tutti individui sereni e felici, e che non hanno bisogno di aggredirsi per convivere, ma possono benissimo, con humour e tolleranza, e senza aggressività, osservare a distanza il mondo esterno cercando di migliorare il proprio mondo interno.
Il problema delle masse è che si lasciano suggestionare più da messaggi che li illudono che la felicità sia il risultato di acquisti, oggetti di lusso, il superfluo presentato come necessità. L’educazione, la filosofia, la psicologia, la spiritualità, i grandi insegnamenti spiegati in maniera semplice alle masse potrebbero costituire un grande cambiamento. Ma il cambiamento di coscienza avverrà comunque, perché ormai la comunicazione in rete sta superando i mass media unidirezionali. Inoltre, organizzare dei periodi di oscuramento consapevole dell'in-formazione ed invitare la gente a maggiori scambi interpersonali tramite eventi di piazza, concerti, notti bianche, musica, arte, ed altre iniziative, potrebbe ulteriormente essere di grande aiuto.
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