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domenica 13 marzo 2011

Il concetto di revolución. Lo sviluppo democratico in America Latina.


L’autonomia concettuale e politica espressa nei due termini "rivoluzione" e "reazione" ha avuto in America Latina un itinerario molto diverso da quello europeo. Ancora oggi se ne può cogliere un’eco nel linguaggio politico: con il termine revolución si indica sia un sovvertimento sociale sia un golpe, cioè un cambiamento di governo (non necessariamente di regime) attuato per vie extraistituzionali. La ambivalenza di questo termine rispetto al modello codificato in Occidente dalla rivoluzione giacobina dimostra che in America latina convivono sotto la stessa parola referenti antitetici.
Nell’Ottocento con revolución si identificava solo un cambio di governo, o anche una guerra civile tra liberali e conservatori, ma si sapeva che in discussione non era l’ordine sociale. Questa ipotesi esisteva e era anzi molto diffusa tra le masse rurali, ma afferiva alla dimensione religiosa, alle aspettative messianiche di riscatto escatologico. Le ragioni della scissione tra le forma dei conflitti sociali e le forme dei conflitti politici durante tutto il secolo scorso va ricercata, oltre che nell’arretratezza dei paesi latino-americani, nella capacità delle oligarchie di isolare e distruggere il virus giacobino, fin dall’epoca dell’indipendenza e attraverso un dominio politico che potesse anche prescindere dalla centralità economica delle oligarchie fondiarie, fondandosi piuttosto sulla loro capacità di dominare campagna e città, impedendo che in esse si sviluppasse una dimensione della politica alternativa alla grande hacienda.
L’ambivalenza del termine revolución si rivela soltanto nel corso del Novecento, a seguito di un insieme di processi che tendono a mettere in crisi il dominio della campagna sulla città. Questo processo di trasformazione si apre con l’instabilità di lungo periodo che caratterizza il secolo XX, il quale vede, almeno nei primi decenni, una diffusa discontinuità delle forme di governo (che sta nella città), nessuna delle quali, se si eccettua la messicana, riesce a consolidarsi stabilmente. Insieme al perdurare del doppio significato della parola revolución, questo fenomeno rivela come le oligarchie riescano a difendere una parte del loro tradizionale modo di intendere e di fare politica, pur essendo minacciate da una crisi del rapporto campagna-città, che fa sì che non si consolidino effettivamente né la democrazia né l’autoritarismo. Se sembra quindi evidente, nel caso latino-americano, l’inadeguatezza delle teorie della modernizzazione, che vedono la crisi del liberalismo a cavallo della prima guerra mondiale coincidere con la fine delle forme più tradizionali del potere oligarchico, certamente si evidenzia un mutamento delle forme del conflitto sociale, che esprime un cambiamento all’apparenza radicale nei rapporti tra aree urbane e aree rurali: a partire dagli anni ’40 le prime diventano demograficamente superiori alle seconde. A questo punto la politica di massa diventa una realtà irreversibile sullo scenario latino-americano, ma ciò non favorisce una maggiore modernità del conflitto sociale. La modernizzazione nasce essenzialmente come sviluppo passivo delle aree urbane: sono le campagne a espellere manodopera, non la città a attirarla; l’industrializzazione segue e non determina l’urbanizzazione; lo squilibrio tra domanda e offerta di occupazione interna è altissimo, e cresce a partire dagli anni ’70. Questo spiega perché la grande sindacalizzazione degli anni ’40 avvenga per impulso dell’autoritarismo populista e non di una classe operaia autonoma.

La svolta populista

Il populismo si presenta come un progetto neoconservatore mirante a allargare la base sociale dello stato senza però modificarne gli equilibri; dal punto di vista economico rappresenta una coalizione di interessi agrario-industriali, sorretta da fenomeni di mobilitazione di massa. L’assenza di politiche di massa nelle aree rurali da parte dei populismi latinoamericani (che non tentano mai, tranne nel caso messicano, in cui però il regime nasce da una rivoluzione antioligarchica , di attuare riforme agrarie e neppure sono interessati a esportare nelle campagne la mobilitazione attiva nelle aree urbane) rivela chiaramente l’appoggio che le oligarchie fondiarie garantirono alle leaderships populiste, probabilmente perché interessate a attivare strategie di diversificazione economica dopo la crisi degli anni ’30.
Le classi fondiarie sono favorevoli all’industrializzazione, ma ne rifiutano le implicazioni sociali; le caratteristiche strutturali delle classi dominanti degli anni’40 impediscono del resto una loro equiparazione a delle borghesie perché il processo di trasformazione in questa direzione è impedito dall’espansione del capitale nordamericano che inizia a partire dalla Grande Crisi. Il comportamento dei ceti dominanti è quindi essenzialmente difensivo in questa fase, contrario a modificare le strutture di potere più tradizionali, quelle rurali, per conservare una autonomia nei confronti del partner straniero e delle nuove forze sociali urbane. La politica di massa del populismo nelle città potrebbe dunque essere interpretata come una ricerca di legittimazione di un settore della coalizione populista per controbilanciare il potere fondiario. L’idea potrebbe apparire riduttiva dei meriti storici del populismo, ma potrebbe spiegarne il carattere autoritario, contrario tra l’altro a un sindacalismo autonomo. Per una migliore comprensione del rapporto tra autoritarismo, mobilitazione e consenso, è necessario tenere presente, oltre all’appoggio fornito al populismo dai sindacati costituiti, la notevole importanza del ruolo delle masse "recentemente mobilitate", ossia del proletariato in formazione disponibile a essere potenziato dal populismo. Questo tipo di partecipazione politica è incentivata dallo stato, ma si fonda sul conflitto sociale e non si svolge in ambiti di democrazia formale, pareggiando piuttosto le relazioni patron-client dominanti nelle campagne.
In definitiva, i sistemi di controllo clientelare e di manipolazione perpetuano, nell’era della politica di massa, la stessa funzione passiva assegnata all’elettorato dalle oligarchie del secolo scorso: le strutture di dominio informale si rivelano più forti dei nuovi rapporti di produzione generati dai limitati processi di industrializzazione. In questo quadro la funzione del populismo è quella di attuare una razionalizzazione delle strutture di dominio informale rispetto ai nuovi rapporti di produzione con un atto di autorità da parte dello stato e sulla base di un compromesso che ne limiti le conseguenze a livello nazionale. Una dimostrazione di questo fenomeno può considerarsi il fatto che le politiche di massa del populismo non necessitino di un partito, come nel caso di altri regimi autoritari, ma solo del controllo sullo stato e sui sindacati (è il caso del peronismo come del varghismo).
A queste direttive politiche si collega il mancato sviluppo dei partiti di ispirazione marxista nel cotesto populista: le caratteristiche strutturali del conflitto sociale non favoriscono necessariamente la sinistra classica. Questo è dovuto ai limiti della tradizione terzointernazionalista, con le sue formulazioni quantomeno inadatte alla realtà politica latinoamericana, ma anche alle caratteristiche del populismo, che contribuiscono potentemente a emarginare il ruolo dei partiti di classe. Il controllo presidenziale delle forze esistenti annulla i possibili vantaggi di una competizione politica aperta; inoltre, il populismo si legittima con politiche di massa, ma non assegna mai una centralità al proletariato, il che si ripercuote sulle forze di sinistra; infine, la classe operaia vera e propria non rappresenta che una frazione minoritaria delle masse.
Le crisi dei regimi populisti hanno modalità diverse da paese a paese, ma si iscrivono in una evoluzione che è continentale. Il conflitto sociale dell’epoca populista non può essere pericoloso per gli equilibri di classe né è individuabile una tendenza in questa direzione. L’esperienza populista può essere percepita come una minaccia per l’ordine oligarchico se la coalizione di interessi che la sorregge viene meno, perché allora le forme di partecipazione politica delle masse, da complementari al vecchio ordine, si fanno alternative. La strategia di sostituzioni delle importazioni si è fondata su una congiuntura internazionale di medio periodo, compresa all’incirca tra il decennio precedente e il decennio seguente la seconda guerra mondiale, che ha garantito alti prezzi per le esportazioni e finanziamenti per l’acquisto di beni di capitale. In queste condizioni, il reddito delle oligarchie è stato garantito dal commercio d’esportazione e non ha risentito in misura significativa delle politiche salariali attuate nelle aree urbane; le due variabili hanno potuto cioè convivere autonomamente l’una dall’altra. Ma a partire dalla metà degli anni cinquanta si registra un deterioramento delle ragioni di scambio per i paesi produttori, il che pone le oligarchi di fronte a un bivio: o promuovere un’accumulazione capitalistica in senso classico, e passare da una base industriale limitata a una industrializzazione su scala nazionale, con conseguente ridistribuzione delle risorse politiche e economiche, oppure ricorrere a un più stretto legame con il capitale internazionale. La prima opzione avrebbe implicato la subordinazione del mondo rurale a quello urbano, e quindi l’eclissi di quei poteri su cui era fondato il dominio oligarchico.

L’alleanza con gli Stati Uniti

Nei decenni precedenti la seconda guerra mondiale vi era stata una massiccia espansione di capitali americani nel sottocontinente, cui non aveva però corrisposto una crescita di egemonia politica, a causa del forte nazionalismo radicato nei ceti medi e dei solidi vincoli tra l’Inghilterra e molte oligarchie latinoamericane. Dopo il 1945 viene meno la politica roosveltiana di "buon vicinato", sviluppo multilaterale del classico principio dell’equilibrio di poteri, finalizzato alla difesa emisferica e quindi ancora coerente con la dottrina di Monroe: l’abbandono del principio di equilibrio di poteri si accompagna al tentativo di creare un sistema di integrazione economica e militare che coinvolga anche il Sudamerica.

Dal punto di vista puramente teorico, niente obbliga a pensare che questi obiettivi implichino pratiche antidemocratiche: del resto il "pericolo comunista" si presenta in America latina, anche per effetto del populismo, nettamente inferiore che in Europa e l’analogia, almeno formale, tra NATO e OSA (Organizzazione degli Stati Americani) e tra aspetti finanziari del piano Marshall e tipo di crediti organizzati dall’Eximbank per i paesi latinoamericani, fa pensare che gli esiti diversi dell’intervento statunitense nell’area occidentale e in Sudamerica dipenda da diversi presupposti nazionali.

Per quanto il populismo abbia integrato le masse nel sistema politico creando lo stato nazionale (funzione storica del suffragio universale nei paesi di liberalismo classico), abbia politicizzato il conflitto sociale rendendo più competitivo il sistema, abbia dato più spazio ai ceti medi e dunque, in definitiva, abbia creato aspettative per una evoluzione in senso democratico, non si è successivamente sviluppata una democrazia stabile. Questo dimostra come le prospettive del populismo poggino su presupposti molto fragili. Anzitutto si evidenzia lo squilibrio tra politiche di massa populiste e condizioni strutturali della società: si crea l’illusione (evidente tanto nei documenti politici della sinistra latinoamericana, quanto nelle opere degli economisti influenzati dal cosiddetto desarrollismo) che la transizione democratica sia il portato di una industrializzazione massiccia; esce allo scoperto, inoltre, la fragilità strutturale delle politiche di massa degli anni ’50 e il loro carattere autoritario: si apre immediatamente la possibilità per l’oligarchia di riprendere il controllo sulla dinamica sociale. Tramite lo smantellamento solo parziale delle strutture populiste può affermarsi il ruolo centrale dello stato nel rafforzare l’alleanza economica e politica tra USA e classi dominanti latinoamericane e tale alleanza si afferma tramite regimi sempre più antipopolari. Con la fine del populismo lo stato ricorre sempre più massicciamente all’indebitamento estero: sono così interessati alla centralità dello stato tanto le oligarchie, quanto gli USA. Le prime desiderano garantirsi un modello di crescita economica che impedisca una radicale redistribuzione delle risorse politiche: di qui la volontà di tutelarsi dal rischio di una riforma agraria. Il conflitto sociale si rivela quindi minaccioso per le oligarchie non tanto per il sovvertimento dei rapporti di proprietà quanto di quelli di potere, considerati tutt’uno con quelli di proprietà, a riprova della scarsa autonomia che ancora oggi esiste tra società politica e società civile in Sudamerica. Gli USA sono interessati al controllo dello stato in quanto in tale modo possono abbinare il controllo della variabile economica e di quella politica: condizioni economiche e insieme condizioni politiche costituiscono le clausole dei prestiti dell’Eximbank. Quando il controllo dello stato diventa decisivo per la sopravvivenza dell’ordine oligarchico, l’alleanza con le oligarchie porta progressivamente gli USA a schierarsi, dietro la bandiera dell’anticomunismo, anche contro ogni governo centrista e riformista.
Questo processo di riduzione delle opzioni politiche ha portato gli USA a formulare una serie di dottrine, a cominciare da quella di Johnson, che negano la sovranità piena dei paesi latinoamericani. Nelle loro formulazioni più o meno ufficiali, tali dottrine presentano non pochi tratti in comune con il "corollario Roosvelt" del 1905, sicché si potrebbe affermare che nell’ultimo trentennio gli Stati Uniti sono riusciti a estendere a tutto il sottocontinente i principi utilizzati all’inizio del secolo per assicurarsi il controllo sull’area caraibica e centroamericana. Mentre però il "corollario Roosvelt" venne formulato per bloccare un possibile intervento delle potenze europee, in credito con alcuni paesi inadempienti del Centroamerica, le dottrine successive all’Alleanza per il Progresso sono state formulate per tutelare gli interessi degli Stati Uniti, e dei loro alleati, da minacce individuate in un certo tipo di richieste popolari. Questa differenza dà conto della stretta interdipendenza che, a partire dagli anni sessanta, si instaura tra autoritarismo, conflitto sociale e imperialismo.

Rivoluzione e campagne

Il ventennio che segue la seconda guerra mondiale vede le condizioni strutturali delle aree urbane identiche o addirittura peggiorate rispetto agli anni ’30: il trentennio della cosiddetta "sostituzione delle importazioni" non muta lo squilibrio tra sviluppo industriale e occupazione, la tendenza a urbanizzarsi continua più che mai a dipendere dal peggioramento delle condizioni di vita nelle campagne, la proletarizzazione di alcuni ceti agrari fa sì che non possano più essere riassorbiti dalla tradizionale economia di sussistenza . Si fa così sempre più pressante l’esigenza di promuovere riforme agrarie, di cui si fanno interpreti crescenti gruppi di ispirazione rivoluzionaria: l’influenza dell’esempio cubano e la percezione di una permanente impotenza politica delle aree urbane dopo le aspettative sollevate dai processi di mobilitazione populista favoriscono la crescita di tali gruppi, mentre si fa strada l’idea di un ridisegnamento della questione sociale sull’antinomia rivoluzione/reazione e si afferma la convinzione che le aree rurali siano la chiave del processo rivoluzionario; le basi profonde del potere oligarchico vengono individuate nelle campagne e quindi si diffonde l’opinione che solo con la loro liberazione le città svolgerebbero la loro funzione. Un obiettivo analogo a quello propugnato dai movimenti rivoluzionari è alla base anche di numerosi modelli riformisti, che si propongono l’attuazione dell’interazione tra città e campagna e la promozione di una riforma agraria. E’ in questo contesto che si colloca il fenomeno delle guerriglie latinoamericane, che toccano praticamente tutti i paesi a partire dagli anni sessanta. Le vicende delle guerriglie non devono però far dimenticare che la reazione oligarchica si indirizzò anche contro il modello riformista, come dimostra il caso cileno.

La reazione neoautoritaria

Riformismo e rivoluzionarismo, che per vie diverse perseguono un potenziamento dei processi di industrializzazione e di integrazione politica avviati dai populismi, fanno sì, con la loro sconfitta, che si eclissi un trend che per più di un ventennio ha combinato crescita economica e sviluppo politico: la reazione neoautoritaria degli anni ’70 fa sì che si sacrifichi il secondo alla prima. La reazione oligarchica non si serve solo della repressione dura contro le forze politiche rappresentative di interessi popolari; attua anche una redistribuzione delle risorse che per la prima volta modifica i tradizionali rapporti tra settore agricolo e industriale: questo provvedimento apparentemente in contrasto con le precedenti linee politiche autoritarie si spiega con il collegamento diretto del mercato rurale con quello internazionale, analogamente a quanto si è sviluppato nel settore industriale. La riforma agraria è così utilizzata dalle strategie neoliberiste per promuovere una redistribuzione delle risorse atta a garantire uno sfruttamento crescente della manodopera rurale , la formazione di un mercato libero della terra e una definizione di livelli di rendimento agricolo regolati dall’esterno e non dalla rendita oligarchica. Il neoliberismo segna dunque la fine di un modo di gestire la dinamica sociale da parte delle classi dominanti di quasi tutti i paesi. Si tratta comunque di un tentativo guidato dai militari a base rigidamente classista: alla redistribuzione radicale delle risorse economiche corrisponde una deattivazione politica degli strati popolari, praticata con la repressione e con l’instaurazione di strutture corporative "escludenti", che cercano cioè di ridurre al minimo la partecipazione politica; la distruzione o il controllo delle forme politiche di mobilitazione popolare si completa con la sperequazione dei redditi (e loro ridistribuzione tra la borghesia e una frazione minoritaria e qualificata dei ceti medio - alti) che accompagna l’unificazione dell’economia urbana e di quella rurale, che produce mutamenti interni ai veri segmenti sociali tali da minacciare le capacità di resistenza delle forze antiautoritarie.

I vincoli delle nuove democrazie

Nel quarantennio successivo alla seconda guerra mondiale si sono dunque succeduti in America Latina due modelli autoritari, il populista e il burocratico-autoritario, mentre nell’intermezzo fra i due sono falliti tanto i progetti democratici, quanto quelli rivoluzionari. A partire dagli anni ’80, però, anche il secondo modello di autoritarismo ha mostrato segni di esaurimento e in vari paesi la democrazia è riapparsa come un’opzione possibile. Non bisogna però concludere affrettatamente che in questi quarant’anni lo sviluppo politico latinoamericano sia stato pendolare, abbia oscillato cioè tra autoritarismo e democrazia. In realtà molte forze politiche e sociali sono passate dall’una all’altra opzione e viceversa, il che rende estremamente arduo, nella maggior parte dei casi, tracciare un confine netto tra chi è veramente democratico e chi non lo è. Anche il ricorso alla consueta distinzione tra civili e militari nasconde più di una ambiguità. Le analisi politologiche hanno messo in luce come nel secondo dopoguerra i militari siano sempre intervenuti per soddisfare una domanda proveniente dai settori civili, mentre gli storici dal canto loro già da tempo avevano richiamato l’attenzione sul fatto che la legittimità dell’intervento militare si legittima con l’indipendenza stessa dalla Spagna. Se dunque negli anni settanta è pur cambiata la funzione dei militari e il tipo di regime da essi instaurato, tutto ciò è avvenuto nel quadro di una legittimità consolidata. E’ più corretto quindi, anziché ricorrere allo schema binario civili/militari come costituito da opzioni incompatibili, parlare di "democrazia tutelata" per indicare i periodi in cui i militari sono nelle caserme.

In questa prospettiva, i problemi del consolidamento democratico sono:

* il passaggio da regimi democratici "tutelati" a regimi "non "tutelati"
* la capacità delle forze conservatrici di contenere più a lungo di quanto non sembri le sfide delle politiche di massa, anche quando hanno mutato le forme del conflitto sociale nelle aree urbane
* il modo dei rapporti campagna/città: a questo proposito sembra incoraggiante il fatto che nelle aree urbane finalmente coincidano lo spazio politico forte e lo spazio economico forte
* la minaccia di gravi e persistenti crisi economiche, con i conseguenti problemi connessi all’indebitamento: una parte significativa delle entrate statali, del risparmio nazionale e delle esportazioni sono dirottate al pagamento dei servizi del debito e non allo sviluppo
* mutamento del modello di crescita tra ’60 e ’80 e relative conseguenze: il passaggio dal modello import-substitution a quello export-oriented rende più interdipendenti il settore interno e quello estero dell’economia, con il risultato di trasformare il debito stesso in uno strumento di politica economica; favorisce inoltre rapporti più moderni tra la sfera economica e quella politica, ma non necessariamente ciò porta a un maggiore consenso verso la democrazia, dati i costi sociali della crisi.
* incapacità della rappresentanza politica delle nuove democrazie di controllare anche la rappresentanza degli interessi, organizzata direttamente dalla presidenza
* insuccesso dei partiti nell’articolare compiutamente i rapporti tra stato e società , monopolio esclusivo degli esecutivi, dovuto alla debolezza storica dei partiti in Sudamerica, dove non si formano, se non in rari casi, partiti conservatori malgrado il conservatorismo e i movimenti sindacali contano più dei partiti popolari.

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