Nella breve rassegna di questioni aperte e di possibili soluzioni a quello che si usa chiamare deficit di democrazia dell'Unione Europea così come essa è oggi organizzata si è voluto mantenere un punto di vista il più possibile obiettivo, data la pregnanza di alcuni aspetti toccati all'interno del dibattito politico odierno. L'involontaria coloritura di alcune affermazioni è determinata dalla scarsità di materiale a nostra disposizione (sia documentario che di riflessione sull'argomento) e soprattutto dalla sua provenienza: è chiaro che a pubblicare opere su questo problema siano in primo luogo coloro che, avendolo rilevato, mirano alla sua risoluzione, non certo coloro a cui sta a cuore il mantenimento della presente situazione nell'ambito delle istituzioni politiche dell'Unione.
Tre problemi fondamentali
Le difficoltà che da più parti si sono rilevate riguardo all'assetto democratico dell'Unione Europea sono sostanzialmente tre:
* L'Unione Europea, pur avendo in sé quella che si è giustamente chiamata vocazione politica, si è tuttavia strutturata a partire da esigenze di politica economica. Lo sfasamento tra questi due piani rappresenta di per sé un problema, se non altro perché lo scarso peso della componente politica democratica nelle decisioni dell'Unione Europea rischia di delegittimarne l'operato agli occhi dei cittadini, facendo apparire (magari a torto) certi provvedimenti come dettati da una volontà di élite distante dai reali bisogni della popolazione.
* Si è osservato come la UE non si comporti come una democrazia nel senso comune del termine a causa di un suo vizio di costruzione: tra i Paesi aderenti sussistono dei legami diplomatici, lontanissimi quindi da quelli previsti in un eventuale federazione europea. In altre parole, la UE non è, fino ad ora, nulla di diverso rispetto a una qualsiasi organizzazione internazionale, a eccezione che per l'esistenza (da non sottovalutare) di una moneta unica interna.
* I meccanismi di nomina dei delegati nei vari organi dell'Unione sono estremamente complessi e in alcuni casi eterogenei nei diversi Paesi aderenti: i membri della Commissione, ad esempio, sono scelti dai singoli governi in carica, ma spesso il loro mandato non corrisponde cronologicamente alla vita dell'esecutivo che li ha promossi; il Consiglio dei Ministri è composto solo dagli esecutivi in carica in un dato momento, cosicché le forze della minoranza sono completamente estromesse; infine, il Parlamento Europeo, eletto direttamente dai cittadini dell'UE, non gode di reale potere legislativo, che compete soprattutto al Consiglio, bensì possiede una serie di prerogative complesse e generalmente dai contorni piuttosto sfumati.
Indubitabilmente da 1957 ad oggi sono stati compiuti notevoli avanzamenti, anche nel senso di una reale integrazione politica in vista di una futura Europa federale, ma, paradossalmente, tanto più la UE tende a costituirsi come stato sovranazionale, tanto più crescono le spinte contrarie, volte a mantenerla nel suo stadio larvale di organizzazione internazionale.
Quale integrazione?
In primo luogo è importate operare alcune distinzioni in maniera da poter comprendere con maggiore chiarezza che cosa si intende per integrazione politica: il semplice fatto di porsi tale problema è indicativo dell'esigenza, ormai conclamata, di oltrepassare la presente situazione in cui l'Unione Europea è poco più di un'organizzazione internazionale regolata non dalla democrazia, bensì dalla diplomazia; d'altro canto, almeno a livello divulgativo, la questione dell'assetto costituzionale dell'Unione non è mai stato affrontato con serenità e attenzione: parlare di Stati Uniti d'Europa o di Europa Unita non è di alcuna utilità, data l'estrema astrattezza di queste denominazioni, che di solito non trovano un'ulteriore specificazione. Restano due possibili sbocchi sufficientemente realistici:
* Una soluzione confederale, in cui cioè i singoli stati manterrebbero la maggior parte della propria sovranità, "sommandosi" in organismi centrali per deliberare su argomenti di interesse comune; le decisioni sono prese all'unanimità, ma alla convergenza di interessi dei governi non corrisponde una reale integrazione di popoli.
* Una soluzione federale, in cui sarebbero fissati preliminarmente i compiti della UE, che diverrebbe così principale titolare della sovranità, liberamente ceduta dai singoli stati, mentre a questi ultimi sarebbero assegnati i poteri attinenti alle materie escluse dalla giurisdizione della UE; una simile struttura politica richiede certo istituzioni più agili, democraticamente formate da rappresentanti dei cittadini, dato che, in questo caso, all'integrazione dei governi fa da compagna l'integrazione dei popoli in un unico corpo civile.
Ci limiteremo in questa sede a considerare la soluzione federale, in quanto in questa direzione sembrano orientarsi i più recenti tentativi di riforma (come il trattato di Amsterdam), ma anche perché la prima ipotesi non rappresenterebbe un balzo in avanti rispetto alla situazione presente, in quanto uno sbocco confederale non comporta una così intensa dinamica integrativa come quella necessaria per arrivare a una federazione europea. E' inoltre evidente che l'Unione Europea assomiglia moltissimo a una confederazione, in particolare per quanto riguarda la delega dei rappresentanti (quelli dotati di maggiori poteri sono espressione dei governi o addirittura membri dei singoli esecutivi) e le procedure decisionali (criterio dell'unanimità, che sostanzialmente appartiene alla prassi diplomatica, non certo a quella democratica).
Alcuni ostacoli
Le maggiori resistenze opposte alla riforma dell'Unione Europea in senso federalista sono connesse alla perdita di autorità degli stati nazionali della tradizione storica: ampliare i poteri del Parlamento Europeo, ad esempio, magari superando il sistema (squisitamente confederale) per cui le delibere di quest'ultimo devono passare al vaglio dei parlamenti nazionali, significherebbe riconoscere alla cittadinanza europea qualcosa di più rispetto ai generici proclami fino a oggi diramati: in breve, si affermerebbe con un simile atto l'esistenza reale di un corpo civile unitario.
Il passo è breve di qui per arrivare alla federazione europea e al superamento dell'assetto statuale odierno, se non altro nella riduzione della sovranità che i singoli stati dovrebbero subire.
Se tali ostacoli si manifestano nella forma dell'opposizione ideologica all'integrazione, ciò si lega in sostanza all'incapacità diffusa di scindere i due concetti di Stato e di Nazione: una volta presa coscienza della generale crisi dello Stato in senso tradizionale, perché non provare a concepire uno stato europeo privo di nazione, fondato non tanto su una comune radice etnica e culturale (peraltro piuttosto difficile da definire), quanto su valori civici e procedure democratiche pienamente condivisibili?
Resta però un problema fondamentale, che non può essere affatto trascurato in quanto rilevante dal punto di vista giuridico, come dimostra una nota sentenza della Corte Costituzionale tedesca sulla compatibilità tra il trattato di Maastricht e la Costituzione della stessa Germania: quest'ultima, così come, più o meno esplicitamente, le sue corrispondenti negli altro paesi della UE, sancisce che l'esercizio dei diritti sovrani deriva solo e direttamente dallo Staatvolk, cioè dal popolo proprio dello Stato, in cui la volontà politica è legata a una comune opinione pubblica, alla comunicazione verbale e mediatica tra cittadini, alla prossimità di interessi economici e sociali. Siccome tali condizioni sussistono solo all'interno dello Stato nazionale tradizionale, parlare di democrazia all'interno delle istituzioni europee diviene un controsenso: laddove non c'è un corpo civile, a chi apparterrebbe la sovranità? Quale sarebbe il demos dotato del diritto alla gestione della cosa pubblica? Verrebbe da assentire con J.H.H. Weiler che, in un articolo del 1995, sosteneva:
Il deficit democratico europeo è congenito e non può essere rimosso realisticamente se non in termini epocali o, addirittura, di ere geologiche.
Anche la riforma del Parlamento Europeo in questa prospettiva risulta priva di significato, perché non si capisce di quale cittadinanza comune tale organo sia espressione.
Una soluzione possibile e un problema sicuro
Le argomentazioni del giudice Grimm e dei suoi colleghi della Corte Costituzionale tedesca, per quanto ineccepibili sul piano giuridico, sono tuttavia viziate dalla permanenza, all'interno del senso comune europeo e della Germania in particolare, dell'idea romantica di nazione come ethnos monolitico sul quale si costruisce lo Stato.
Se si osserva però il panorama mondiale, fa notare Mancini (Il mulino, 3/98, p.410), è chiaro come come la democrazia possa sussistere, naturalmente in un contesto federale e non in un opprimente stato unitario, anche senza che il demos, titolare della sovranità, coincida con l'ethnos, titolare della nazionalità.
Tale argomentazione, avanzata pressoché negli stessi termini ma a partire da premesse diverse da Rusconi (Il mulino, 3/98, pp.439-444), non può tuttavia elidere un problema fondamentale: se è vero che identità etniche diverse possono integrarsi all'interno di uno stato federale e democratico, ciò non esclude l'inesistenza, in Europa, di una unitaria coscienza civile: l'avventura politica europea è per lo più vissuta come uno dei tanti settori della vita politica nazionale, non esistono veri e propri partiti europei in grado di sfidarsi unitariamente in occasione del rinnovo del mandato del Parlamento, e così via.
C'è poi la questione, estremamente spinosa e controversa, dell'eterogeneità tra i sistemi elettorali (tutti giustamente definiti democratici) in vigore negli stati aderenti e da essi adottati per le elezioni europee.
Qualche punto d'arrivo
A partire da queste premesse si giustifica agevolmente l'atteggiamento di chi, persuaso dell'impossibilità o dell'insensatezza di riformare in senso democratico le istituzioni europee, ritiene meglio rifugiarsi nella sicurezza di quella che il giudice Grimm chiama la democrazia presupposta dell'Europa, rinunciando alla creazione di una democrazia effettiva al suo interno.
Anche questo sbocco, tuttavia, non è esente da trappole:
* Il mantenimento di un'Europa confederale come quella presente consentirebbe certo la massima esplicazione dell'ethnos nazionale dei singoli paesi, ma non rappresenta una soluzione di grande stabilità, come sarebbe invece una federazione; la forma politica (o, meglio, diplomatica) della confederazione tende infatti a non frenare le spinte centrifughe di ciascuno stato rispetto ai propri associati.
* Il problema primario del deficit democratico, cacciato dalla porta recuperando le vecchie istituzioni delle democrazie nazionali, ritorna dalla finestra: se si torna a concepire l'Unione Europea come semplice somma di stati, è evidente che anche le limitate manovre di integrazione politica fino ad oggi attuate sono eccessive in quanto lesive della (democraticissima) sovranità dei singoli paesi.
* La permanenza di modalità operative caratteristiche della diplomazia a livello europeo può arrivare ad inquinare la stessa democrazia interna, in quanto introduce delle variabili politiche diverse da quelle vincolate al la sovranità dell'elettorato.
Il problema del deficit democratico si presta dunque ad una duplice interpretazione, così come lo stesso termine democrazia ha in questo contesto un valore tutt'altro che univoco; in sua difesa si levano accorati appelli sia da parte di chi esige una maggiore integrazione, ma vorrebbe (rovesciando una sentenza di Jean Monnet) che a federarsi fossero i cittadini europei, non solo i loro portafogli, nella persuasione che la realizzazione della vocazione politica della UE non scaturisca per necessità storica dalla sua concretizzazione economica, sia da parte di chi accusa l'Europa di sottrarre competenze ai parlamenti nazionali, scavalcando coloro che detengono il più legittimo potere legislativo in quanto delegati dall'unico, vero popolo sovrano che è quello nazionale.
Per esemplificare la natura e le dimensioni di queste polemiche, basta osservare come è stato accolto nei diversi ambienti politici il più recente trattato di Amsterdam: esso (cito dalla sintesi ufficiale)
Ha riconosciuto il ruolo del Parlamento europeo quale autentico colegislatore con il Consiglio, modificando la cosiddetta procedura di codecisione (al fine di garantire condizioni di parità al Consiglio e al Parlamento).
Due sono state le reazioni immediate:
* Alcuni hanno lanciato un "SOS democrazia" per correggere queste manovre di affossamento delle democrazie nazionali.
* Altri hanno da un lato lamentato il carattere tardivo di questa manovra, la cui necessità era in sostanza già stata intuita (senza seguito alcuno) dal gruppo di lavoro Westendorp in preparazione alla CIG del 1996, dall'altro deplorato accesamente la scarsa incisività dei provvedimenti adottati.
Osservando parallelamente le due posizioni, è facile cogliere un carattere comune, che rappresenta altresì la radice ultima della questione dibattuta: la controversia sorge infatti a partire dal fatto che, dal 1957 a questa parte, con una brusca accelerata dopo Maastricht, il Parlamento europeo ha sottratto, pur all'interno di un contesto confederale, competenze ai parlamenti nazionali, senza tuttavia veder compensata questa operazione con un ampliamento del suo potere reale e uno snellimento delle sue procedure. In breve, sia Parlamento europeo, sia assemblee legislative nazionali si trovano a lavorare al di sotto di quanto la loro natura democratica consentirebbe e imporrebbe loro di fare. Il deficit democratico c'è, mentre stabilire quale delle due parti abbia contratto il debito o il credito dipende dalla concezione del demos che si adotta (demos come ethnos o demos come comunità repubblicana basata su identità di valori e intendimenti).
A questo proposito esiste una teoria secondo la quale in assenza di una sovranità popolare europea non si può parlare che di pura somma di stati (confederazione), mentre la democrazia non esisterà se non all'interno di una federazione, intesa come unico contesto unitario in grado di dare vita a una società civile compatta; ne deriva la reciproca incompatibilità dell'attuale ordinamento e del preteso sbocco democratico, in quanto si basano su condizioni diametralmente opposte.
Il principio di nazionalità esclude automaticamente la creazione di una democrazia su scala europea, ma soprattutto l'assenza di una vera sovranità popolare europea, pur consentendo la permanenza della democrazia supposta, esclude la soluzione federale, mentre la democrazia su scala continentale voler cancellata tale dimensione locale della democrazia stessa.
Conclusioni probabili (o auspicate)
La controversia presentata in precedenza potrebbe trovare due sbocchi, dei quali il primo è forse il più plausibile, mentre il secondo, meno ortodosso, fonda la propria coerenza, di fatto, sulla sua scarsa applicabilità al concreto.
1. La soluzione costituzionale consiste nello sforzo immane di dare una volta per tutte la definizione chiara dello status politico dell'Unione Europea: occorre dichiarare insomma se si tratti di una federazione o di una confederazione e, quindi, di riformare conseguentemente il groviglio delle istituzioni esistenti, delimitandone le reciproche competenze, sbrogliando la matassa delle delibere stratificatesi fino ad oggi, frutto il più delle volte di compromessi occasionali. Non basta tuttavia cercare nel vocabolario una denominazione adatta: a detta di molti occorre ideare una soluzione assolutamente inedita, che tenga conto della crisi dello Stato parlamentare e della progressiva degenerazione della democrazia a potere delle organizzazioni e dei tecnici, invece che dei cittadini.
2. La soluzione prospettata da altri (cfr Rusconi, Il Mulino, 3/98) prevede invece la rivalutazione della democrazia supposta, accanto alla concretizzazione delle prerogative del Parlamento europeo. Lo scopo è creare una res publica che non si basi sulle istituzioni, ma su valori civici comunemente accettati e sostenuti, ad esempio, dalla convergenza delle condizioni economiche per tutti i cittadini dell'Unione; tutto ciò dovrebbe favorire la nascita di una vera cittadinanza europea, condizione preliminare alla redazione di una Carta Costituzionale.
Due grandi sfide
Al di là delle modalità con cui il problema del deficit democratico sarà risolto, esistono almeno due buone ragioni per cui occorre agire con tempestività per mettere a punto una soluzione in grado di assegnare all'Europa una guida forte, stabile, ma soprattutto legittimata democraticamente di fronte ai suoi cittadini:
* La globalizzazione economica impone all'Europa di organizzarsi per resistere alla tenaglia rappresentata dalle difficoltà implicite nell'integrazione senza precedenti che l'economia mondiale sta conoscendo, ma anche per meglio approfittare delle potenzialità della nuova situazione.
* L'avvicinamento dei Paesi postcomunisti dell'Est impone un ripensamento delle procedure democratiche nel loro complesso in maniera tale da costituire, agli occhi di questi stati, un esempio cui conformarsi (è risaputo che la democrazia è la forma di governo più "pacifista", cosicché l'estensione di procedure politiche legittime anche in Paesi in momentanea crisi dovrebbe ridurre la portata dei conflitti interni e il rischio di attriti con l'esterno).
Tre problemi fondamentali
Le difficoltà che da più parti si sono rilevate riguardo all'assetto democratico dell'Unione Europea sono sostanzialmente tre:
* L'Unione Europea, pur avendo in sé quella che si è giustamente chiamata vocazione politica, si è tuttavia strutturata a partire da esigenze di politica economica. Lo sfasamento tra questi due piani rappresenta di per sé un problema, se non altro perché lo scarso peso della componente politica democratica nelle decisioni dell'Unione Europea rischia di delegittimarne l'operato agli occhi dei cittadini, facendo apparire (magari a torto) certi provvedimenti come dettati da una volontà di élite distante dai reali bisogni della popolazione.
* Si è osservato come la UE non si comporti come una democrazia nel senso comune del termine a causa di un suo vizio di costruzione: tra i Paesi aderenti sussistono dei legami diplomatici, lontanissimi quindi da quelli previsti in un eventuale federazione europea. In altre parole, la UE non è, fino ad ora, nulla di diverso rispetto a una qualsiasi organizzazione internazionale, a eccezione che per l'esistenza (da non sottovalutare) di una moneta unica interna.
* I meccanismi di nomina dei delegati nei vari organi dell'Unione sono estremamente complessi e in alcuni casi eterogenei nei diversi Paesi aderenti: i membri della Commissione, ad esempio, sono scelti dai singoli governi in carica, ma spesso il loro mandato non corrisponde cronologicamente alla vita dell'esecutivo che li ha promossi; il Consiglio dei Ministri è composto solo dagli esecutivi in carica in un dato momento, cosicché le forze della minoranza sono completamente estromesse; infine, il Parlamento Europeo, eletto direttamente dai cittadini dell'UE, non gode di reale potere legislativo, che compete soprattutto al Consiglio, bensì possiede una serie di prerogative complesse e generalmente dai contorni piuttosto sfumati.
Indubitabilmente da 1957 ad oggi sono stati compiuti notevoli avanzamenti, anche nel senso di una reale integrazione politica in vista di una futura Europa federale, ma, paradossalmente, tanto più la UE tende a costituirsi come stato sovranazionale, tanto più crescono le spinte contrarie, volte a mantenerla nel suo stadio larvale di organizzazione internazionale.
Quale integrazione?
In primo luogo è importate operare alcune distinzioni in maniera da poter comprendere con maggiore chiarezza che cosa si intende per integrazione politica: il semplice fatto di porsi tale problema è indicativo dell'esigenza, ormai conclamata, di oltrepassare la presente situazione in cui l'Unione Europea è poco più di un'organizzazione internazionale regolata non dalla democrazia, bensì dalla diplomazia; d'altro canto, almeno a livello divulgativo, la questione dell'assetto costituzionale dell'Unione non è mai stato affrontato con serenità e attenzione: parlare di Stati Uniti d'Europa o di Europa Unita non è di alcuna utilità, data l'estrema astrattezza di queste denominazioni, che di solito non trovano un'ulteriore specificazione. Restano due possibili sbocchi sufficientemente realistici:
* Una soluzione confederale, in cui cioè i singoli stati manterrebbero la maggior parte della propria sovranità, "sommandosi" in organismi centrali per deliberare su argomenti di interesse comune; le decisioni sono prese all'unanimità, ma alla convergenza di interessi dei governi non corrisponde una reale integrazione di popoli.
* Una soluzione federale, in cui sarebbero fissati preliminarmente i compiti della UE, che diverrebbe così principale titolare della sovranità, liberamente ceduta dai singoli stati, mentre a questi ultimi sarebbero assegnati i poteri attinenti alle materie escluse dalla giurisdizione della UE; una simile struttura politica richiede certo istituzioni più agili, democraticamente formate da rappresentanti dei cittadini, dato che, in questo caso, all'integrazione dei governi fa da compagna l'integrazione dei popoli in un unico corpo civile.
Ci limiteremo in questa sede a considerare la soluzione federale, in quanto in questa direzione sembrano orientarsi i più recenti tentativi di riforma (come il trattato di Amsterdam), ma anche perché la prima ipotesi non rappresenterebbe un balzo in avanti rispetto alla situazione presente, in quanto uno sbocco confederale non comporta una così intensa dinamica integrativa come quella necessaria per arrivare a una federazione europea. E' inoltre evidente che l'Unione Europea assomiglia moltissimo a una confederazione, in particolare per quanto riguarda la delega dei rappresentanti (quelli dotati di maggiori poteri sono espressione dei governi o addirittura membri dei singoli esecutivi) e le procedure decisionali (criterio dell'unanimità, che sostanzialmente appartiene alla prassi diplomatica, non certo a quella democratica).
Alcuni ostacoli
Le maggiori resistenze opposte alla riforma dell'Unione Europea in senso federalista sono connesse alla perdita di autorità degli stati nazionali della tradizione storica: ampliare i poteri del Parlamento Europeo, ad esempio, magari superando il sistema (squisitamente confederale) per cui le delibere di quest'ultimo devono passare al vaglio dei parlamenti nazionali, significherebbe riconoscere alla cittadinanza europea qualcosa di più rispetto ai generici proclami fino a oggi diramati: in breve, si affermerebbe con un simile atto l'esistenza reale di un corpo civile unitario.
Il passo è breve di qui per arrivare alla federazione europea e al superamento dell'assetto statuale odierno, se non altro nella riduzione della sovranità che i singoli stati dovrebbero subire.
Se tali ostacoli si manifestano nella forma dell'opposizione ideologica all'integrazione, ciò si lega in sostanza all'incapacità diffusa di scindere i due concetti di Stato e di Nazione: una volta presa coscienza della generale crisi dello Stato in senso tradizionale, perché non provare a concepire uno stato europeo privo di nazione, fondato non tanto su una comune radice etnica e culturale (peraltro piuttosto difficile da definire), quanto su valori civici e procedure democratiche pienamente condivisibili?
Resta però un problema fondamentale, che non può essere affatto trascurato in quanto rilevante dal punto di vista giuridico, come dimostra una nota sentenza della Corte Costituzionale tedesca sulla compatibilità tra il trattato di Maastricht e la Costituzione della stessa Germania: quest'ultima, così come, più o meno esplicitamente, le sue corrispondenti negli altro paesi della UE, sancisce che l'esercizio dei diritti sovrani deriva solo e direttamente dallo Staatvolk, cioè dal popolo proprio dello Stato, in cui la volontà politica è legata a una comune opinione pubblica, alla comunicazione verbale e mediatica tra cittadini, alla prossimità di interessi economici e sociali. Siccome tali condizioni sussistono solo all'interno dello Stato nazionale tradizionale, parlare di democrazia all'interno delle istituzioni europee diviene un controsenso: laddove non c'è un corpo civile, a chi apparterrebbe la sovranità? Quale sarebbe il demos dotato del diritto alla gestione della cosa pubblica? Verrebbe da assentire con J.H.H. Weiler che, in un articolo del 1995, sosteneva:
Il deficit democratico europeo è congenito e non può essere rimosso realisticamente se non in termini epocali o, addirittura, di ere geologiche.
Anche la riforma del Parlamento Europeo in questa prospettiva risulta priva di significato, perché non si capisce di quale cittadinanza comune tale organo sia espressione.
Una soluzione possibile e un problema sicuro
Le argomentazioni del giudice Grimm e dei suoi colleghi della Corte Costituzionale tedesca, per quanto ineccepibili sul piano giuridico, sono tuttavia viziate dalla permanenza, all'interno del senso comune europeo e della Germania in particolare, dell'idea romantica di nazione come ethnos monolitico sul quale si costruisce lo Stato.
Se si osserva però il panorama mondiale, fa notare Mancini (Il mulino, 3/98, p.410), è chiaro come come la democrazia possa sussistere, naturalmente in un contesto federale e non in un opprimente stato unitario, anche senza che il demos, titolare della sovranità, coincida con l'ethnos, titolare della nazionalità.
Tale argomentazione, avanzata pressoché negli stessi termini ma a partire da premesse diverse da Rusconi (Il mulino, 3/98, pp.439-444), non può tuttavia elidere un problema fondamentale: se è vero che identità etniche diverse possono integrarsi all'interno di uno stato federale e democratico, ciò non esclude l'inesistenza, in Europa, di una unitaria coscienza civile: l'avventura politica europea è per lo più vissuta come uno dei tanti settori della vita politica nazionale, non esistono veri e propri partiti europei in grado di sfidarsi unitariamente in occasione del rinnovo del mandato del Parlamento, e così via.
C'è poi la questione, estremamente spinosa e controversa, dell'eterogeneità tra i sistemi elettorali (tutti giustamente definiti democratici) in vigore negli stati aderenti e da essi adottati per le elezioni europee.
Qualche punto d'arrivo
A partire da queste premesse si giustifica agevolmente l'atteggiamento di chi, persuaso dell'impossibilità o dell'insensatezza di riformare in senso democratico le istituzioni europee, ritiene meglio rifugiarsi nella sicurezza di quella che il giudice Grimm chiama la democrazia presupposta dell'Europa, rinunciando alla creazione di una democrazia effettiva al suo interno.
Anche questo sbocco, tuttavia, non è esente da trappole:
* Il mantenimento di un'Europa confederale come quella presente consentirebbe certo la massima esplicazione dell'ethnos nazionale dei singoli paesi, ma non rappresenta una soluzione di grande stabilità, come sarebbe invece una federazione; la forma politica (o, meglio, diplomatica) della confederazione tende infatti a non frenare le spinte centrifughe di ciascuno stato rispetto ai propri associati.
* Il problema primario del deficit democratico, cacciato dalla porta recuperando le vecchie istituzioni delle democrazie nazionali, ritorna dalla finestra: se si torna a concepire l'Unione Europea come semplice somma di stati, è evidente che anche le limitate manovre di integrazione politica fino ad oggi attuate sono eccessive in quanto lesive della (democraticissima) sovranità dei singoli paesi.
* La permanenza di modalità operative caratteristiche della diplomazia a livello europeo può arrivare ad inquinare la stessa democrazia interna, in quanto introduce delle variabili politiche diverse da quelle vincolate al la sovranità dell'elettorato.
Il problema del deficit democratico si presta dunque ad una duplice interpretazione, così come lo stesso termine democrazia ha in questo contesto un valore tutt'altro che univoco; in sua difesa si levano accorati appelli sia da parte di chi esige una maggiore integrazione, ma vorrebbe (rovesciando una sentenza di Jean Monnet) che a federarsi fossero i cittadini europei, non solo i loro portafogli, nella persuasione che la realizzazione della vocazione politica della UE non scaturisca per necessità storica dalla sua concretizzazione economica, sia da parte di chi accusa l'Europa di sottrarre competenze ai parlamenti nazionali, scavalcando coloro che detengono il più legittimo potere legislativo in quanto delegati dall'unico, vero popolo sovrano che è quello nazionale.
Per esemplificare la natura e le dimensioni di queste polemiche, basta osservare come è stato accolto nei diversi ambienti politici il più recente trattato di Amsterdam: esso (cito dalla sintesi ufficiale)
Ha riconosciuto il ruolo del Parlamento europeo quale autentico colegislatore con il Consiglio, modificando la cosiddetta procedura di codecisione (al fine di garantire condizioni di parità al Consiglio e al Parlamento).
Due sono state le reazioni immediate:
* Alcuni hanno lanciato un "SOS democrazia" per correggere queste manovre di affossamento delle democrazie nazionali.
* Altri hanno da un lato lamentato il carattere tardivo di questa manovra, la cui necessità era in sostanza già stata intuita (senza seguito alcuno) dal gruppo di lavoro Westendorp in preparazione alla CIG del 1996, dall'altro deplorato accesamente la scarsa incisività dei provvedimenti adottati.
Osservando parallelamente le due posizioni, è facile cogliere un carattere comune, che rappresenta altresì la radice ultima della questione dibattuta: la controversia sorge infatti a partire dal fatto che, dal 1957 a questa parte, con una brusca accelerata dopo Maastricht, il Parlamento europeo ha sottratto, pur all'interno di un contesto confederale, competenze ai parlamenti nazionali, senza tuttavia veder compensata questa operazione con un ampliamento del suo potere reale e uno snellimento delle sue procedure. In breve, sia Parlamento europeo, sia assemblee legislative nazionali si trovano a lavorare al di sotto di quanto la loro natura democratica consentirebbe e imporrebbe loro di fare. Il deficit democratico c'è, mentre stabilire quale delle due parti abbia contratto il debito o il credito dipende dalla concezione del demos che si adotta (demos come ethnos o demos come comunità repubblicana basata su identità di valori e intendimenti).
A questo proposito esiste una teoria secondo la quale in assenza di una sovranità popolare europea non si può parlare che di pura somma di stati (confederazione), mentre la democrazia non esisterà se non all'interno di una federazione, intesa come unico contesto unitario in grado di dare vita a una società civile compatta; ne deriva la reciproca incompatibilità dell'attuale ordinamento e del preteso sbocco democratico, in quanto si basano su condizioni diametralmente opposte.
Il principio di nazionalità esclude automaticamente la creazione di una democrazia su scala europea, ma soprattutto l'assenza di una vera sovranità popolare europea, pur consentendo la permanenza della democrazia supposta, esclude la soluzione federale, mentre la democrazia su scala continentale voler cancellata tale dimensione locale della democrazia stessa.
Conclusioni probabili (o auspicate)
La controversia presentata in precedenza potrebbe trovare due sbocchi, dei quali il primo è forse il più plausibile, mentre il secondo, meno ortodosso, fonda la propria coerenza, di fatto, sulla sua scarsa applicabilità al concreto.
1. La soluzione costituzionale consiste nello sforzo immane di dare una volta per tutte la definizione chiara dello status politico dell'Unione Europea: occorre dichiarare insomma se si tratti di una federazione o di una confederazione e, quindi, di riformare conseguentemente il groviglio delle istituzioni esistenti, delimitandone le reciproche competenze, sbrogliando la matassa delle delibere stratificatesi fino ad oggi, frutto il più delle volte di compromessi occasionali. Non basta tuttavia cercare nel vocabolario una denominazione adatta: a detta di molti occorre ideare una soluzione assolutamente inedita, che tenga conto della crisi dello Stato parlamentare e della progressiva degenerazione della democrazia a potere delle organizzazioni e dei tecnici, invece che dei cittadini.
2. La soluzione prospettata da altri (cfr Rusconi, Il Mulino, 3/98) prevede invece la rivalutazione della democrazia supposta, accanto alla concretizzazione delle prerogative del Parlamento europeo. Lo scopo è creare una res publica che non si basi sulle istituzioni, ma su valori civici comunemente accettati e sostenuti, ad esempio, dalla convergenza delle condizioni economiche per tutti i cittadini dell'Unione; tutto ciò dovrebbe favorire la nascita di una vera cittadinanza europea, condizione preliminare alla redazione di una Carta Costituzionale.
Due grandi sfide
Al di là delle modalità con cui il problema del deficit democratico sarà risolto, esistono almeno due buone ragioni per cui occorre agire con tempestività per mettere a punto una soluzione in grado di assegnare all'Europa una guida forte, stabile, ma soprattutto legittimata democraticamente di fronte ai suoi cittadini:
* La globalizzazione economica impone all'Europa di organizzarsi per resistere alla tenaglia rappresentata dalle difficoltà implicite nell'integrazione senza precedenti che l'economia mondiale sta conoscendo, ma anche per meglio approfittare delle potenzialità della nuova situazione.
* L'avvicinamento dei Paesi postcomunisti dell'Est impone un ripensamento delle procedure democratiche nel loro complesso in maniera tale da costituire, agli occhi di questi stati, un esempio cui conformarsi (è risaputo che la democrazia è la forma di governo più "pacifista", cosicché l'estensione di procedure politiche legittime anche in Paesi in momentanea crisi dovrebbe ridurre la portata dei conflitti interni e il rischio di attriti con l'esterno).
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