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lunedì 14 marzo 2011

La triplice radice dell'integrazione europea.











1. FEDERALISMO
2. CONFEDERALISMO
3. FUZIONALISMO

Il federalismo



I promotori dell'idea federalista dell'integrazione europea, che forse è stata, dal punto di vista storico, quella fondamentale per innescare il processo che ha portato fino all'Unione, sebbene a livello pragmatico essa non abbia rappresentato né l'opzione prevalentemente applicata né quella destinata a segnare i primi passi del le varie comunità in cui gli Stati europei si sono associati nell'ultimo dopoguerra.
La concezione federalista, sostenuta soprattutto da Altiero Spinelli, principale redattore del cosiddetto Manifesto di Ventotene (1942), trae origine e si fonda teoricamente sull'idea della crisi e del prossimo dissolvimento dello Stato nazionale così come esso era stato concepito dalla Rivoluzione Francese e per tutto l'Ottocento risorgimentale e romantico. In particolare, i federalisti ritengono di poter almeno parzialmente spiegare le due guerre mondali e i totalitarismi del nostro secolo proprio a partire dalla crisi dello Stato-nazione.

A livello pragmatico, l'opzione federalista prevede il trasferimento di alcuni poteri limitati ma significativi e reali dai singoli Stati, cui tradizionalmente appartengono, a favore di istituzioni sovranazionali ed europee nella fattispecie. Tali istituzioni devono in particolare detenere i poteri relativi alla politica estera, alla difesa, alle strategie economiche e monetarie di più ampio respiro. Ai parlamenti e alle istituzioni nazionali rimane il potere di deliberare su materie non assegnate alle istituzioni europee; essi però non possono intervenire a frenare i provvedimenti federali nella misura in cui, in generale, non è richiesta per questi provvedimenti alcuna ratifica: essi sono cioè validi immediatamente e allo stesso modo per tutti gli Stati aderenti e per tutti i cittadini della federazione.
Il modello di integrazione proposto dai federalisti è decisamente impegnativo, ma ha il vantaggio unanimemente riconosciuto di fornire un'effettiva legittimazione democratica a provvedimenti che, essendo decisi al di là dei normali fori nazionali, risulterebbero altrimenti difficilmente accettabili e giustificabili, sia dal punto di vista della psicologia collettiva, sia dal punto di vista delle procedure democratiche. L'idea di un'Europa federale è di fatto quella che meglio interpreta il progetto di una reale unificazione politica di marca democratica, in cui l'integrazione economica si accompagna alla creazione di una reale cittadinanza comune.
La democrazia, programmaticamente considerata alla base delle istituzioni e delle relazioni federali, deve essere presente, secondo i federalisti, anche nella fase di istituzione della federazione stessa, in quanto democratica non può definirsi alcuna entità politica sovranazionale che non nasca da procedure nelle quali siano coinvolti i futuri cittadini: i federalisti sostengono dunque che la federazione europea deve nascere dai lavori di un'assemblea costituente democraticamente eletta. Viceversa, un'Europa federale e democratica non potrà provenire da accordi internazionali di natura fondamentalmente diplomatica in cui la voce dei cittadini sia (quasi) totalmente estromessa dalle trattative.

Il confederalismo

Mentre il federalismo impone la rinuncia, da parte di ciascuno Stato, a buona parte della propria sovranità nazionale a favore delle istituzioni federali, invece il confederalismo prevede un'associazione tra Stati che, per quanto stretta e reciprocamente vincolante, non comporta la rinuncia alla sovranità nell'ambito del proprio territorio.
Ci si trova dunque di fronte a un'opzione di integrazione debole, che in questo senso è stata storicamente sostenuta e attivamente promossa (anche con il boicottaggio politico di quanto risultava troppo vicino all'idea di un'Europa più marcatamente federale) da quei Paesi che, dotati di una tradizione consolidata di Stato forte, sono usciti dall'esperienza della seconda guerra mondiale senza che, in un primo momento, fosse messa in discussione la loro natura di grandi potenze anche coloniali. Sebbene le pretese di tali Stati di proporsi nuovamente come leaders e arbitri in un ordine mondiale ormai dominato dal confronto bipolare tra blocchi contrapposti siano state brutalmente frustrate dall'esperienza della decolonizzazione degli anni Cinquanta, in realtà essi non hanno mai perso, almeno a livello di immaginario collettivo, quel peso notevole sulla scena politica, economica e diplomatica europea che tradizionalmente si attribuisce loro.
Più esplicitamente, si può osservare che le maggiori opposizioni al federalismo sono venute dal Regno Unito e dalla Francia, i cui campioni della lotta per un'integrazione debole e prevalentemente tesa al controllo di pochi settori strategici dell'economia (e.g. quello siderurgico e minerario) sono stati rispettivamente Margaret Thatcher e Charles De Gaulle, per non citare l'illustre precedente di una proposta di integrazione limitata ventilata da Winston Churchill.

Un'Europa confederale sarebbe in sostanza un'organizzazione sovranazionale caratterizzata da meccanismi di coordinamento e cooperazione tra Stati membri (pienamente sovrani) particolarmente efficienti.
La cooperazione tra Stati non prevede dunque in nessun modo il ricorso a procedure democratiche, dal momento che sia la dinamica dell'integrazione sia i procedimenti decisionali cui ricorrere a integrazione avvenuta si situano a livello di relazioni intergovernative o addirittura diplomatiche.
Le stesse procedure adottate all'interno delle istituzioni confederali sono profondamente diverse da quelle alle quali si ricorre in una federazione: le decisioni devono essere assunte all'unanimità, e non a maggioranza, come avviene nel caso di istituzioni politiche squisitamente democratiche.
La soluzione federale è quindi potenzialmente creare una vera integrazione tra cittadini, limitandosi programmaticamente alle relazioni tra Stati. Essa presenta l'indubbio vantaggio di proporre un'integrazione almeno immediatamente non impegnativa, non costretta a sottostare al giogo del consenso cui va incontro una soluzione più "politica", ma l'altra faccia della medaglia è rappresentata dalla scarsa legittimazione democratica di cui godono i suoi provvedimenti, nonché dalla difficoltà a far adottare tali provvedimenti a Stati che conservino una sovranità forte. Inoltre una confederazione è molto più soggetta a tendenze centrifughe e disgregatrici rispetto a quel che accade a una federazione, dove la maggior forza di cui sono preliminarmente dotate le istituzioni comuni rappresenta un fattore coesivo molto più durevole di contingenti interessi economici e/o strategici, decaduti i quali l'integrazione non avrebbe più ragione di sussistere.

Il funzionalismo

Sebbene in prospettiva anche il funzionalismo, che ha avuto uno dei suoi sostenitori più accesi l'economista Jean Monnet, abbia come obiettivo un'integrazione forte per molti versi analoga a quella cui tende il federalismo, esso propone modalità di avvicinamento all'obiettivo radicalmente diverse. La dinamica dell'integrazione, secondo ai funzionalisti, non deve essere affidata a una assemblea costituente il cui prodotto impegni improvvisamente tutti gli Stati a una radicale rinuncia alla propria sovranità a favore delle istituzioni federali, dal momento che non si sarebbe creata in questo modo la precondizione essenziale a qualsiasi integrazione politica: in altri termini, l'Europa rischierebbe di trovarsi con una costituzione magari profondamente democratica, ma senza una cittadinanza comune cui quella costituzione possa riferirsi.
Più pragmaticamente, un'altra ragione addotta dai sostenitori del funzionalismo riguarda la difficoltà di creare dal nulla istituzioni autorevoli e ancor più di far sì che le decisioni prese da queste ultime siano pacificamente accettate da Stati nazionali ancora immaturi e restii a rinunciare alla propria sovranità in maniera così radicale.

Il funzionalismo prevede dunque la progressiva integrazione di singoli settori o funzioni degli Stati nazionali e delle loro amministrazioni in modo da rendere più agevole l'integrazione politiche e produrre il necessario humus a livello della cittadinanza, che si troverebbe, secondo questa teoria, sempre più unificata quasi naturalmente e soprattutto senza dover né subire i traumi di un'integrazione repentina né essere chiamata a decidere su quella integrazione senza averne preliminarmente sperimentato i vantaggi e i disagi.
E' quindi prevista la creazione di enti comuni (poste, telecomunicazioni, trasporti…) che, essendo di natura pressoché esclusivamente tecnica, non mettono in campo schieramenti politici e non creano dissapori e divisioni.
La soluzione funzionalista, pur essendo ispirata da un sano pragmatismo senz'altro giovevole a non vanificare i tentativi di integrazione in inutili chiacchiere gonfie di trionfalistica retorica, presenta però delle difficoltà che devono essere tenute presenti:

* Difficilmente l'integrazione progressiva di settori e servizi potrà realizzare quella piena "integrazione della coscienza civile" invocata come condizione essenziale alla piena unificazione politica;
* E' improbabile che non si generino conflitti tra Stati e tra forze politiche appartenenti a ciascuno Stato su questioni che, per quanto tecniche, vadano al di là delle poste e della protezione civile: lo scontro, pur dilazionato nel tempo, rischia di esplodere quando nel processo di integrazione siano coinvolti settori strategici della sovranità nazionale (esercito, pubblica sicurezza, prelievo fiscale, previdenza…). E' possibile inoltre, quale aggravante, che lo scontro emerga in modo più netto proprio perché non si era valutato preliminarmente l'impatto dirompente dell'integrazione di quei settori, aderendo entusiasticamente alla facile creazione di enti più trascurabili.
* Dal punto di vista concettuale, il funzionalismo prevede uno slittamento dal piano tecnico dell'azione a quello politico degli ideali: per quanto l'integrazione tecnica anticipare quella politica, è comunque inevitabile il "salto" quando si tratterà di attuare quegli ideali di cui parte dei funzionalisti stessi riconoscono l'imprescindibilità. In senso opposto, si può osservare come la prospettiva funzionalista sia radicalmente viziata dal fatto di essere una soluzione squisitamente pragmatica scaturita da premesse che alle convinzioni politiche dei promotori sono largamente debitrici.

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