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sabato 5 marzo 2011

Maggiore democrazia significa democrazia diretta? e la rappresentanza?


La richiesta, frequente in questi ultimi anni, di maggiore democrazia, si esprime spesso nella richiesta che venga affiancata, o persino sostituita, alla democrazia rappresentativa la democrazia diretta; tale proposta ha le sue radici in Rousseau, che sosteneva l’impossibilità di rappresentare la sovranità, ma che, parallelamente, era convinto che "una vera democrazia non è mai esistita né mai esisterà" perché richiede condizioni territoriali, di costumi e di economia praticamente irrealizzabili.
La proposta parrebbe dunque insensata e certo se per democrazia diretta si intende la partecipazione di tutti i cittadini a tutte le decisioni che li riguardano, lo è: è infatti impossibile una situazione del genere in società sempre più complesse come quelle industriali moderne e non è neppure auspicabile. Marx aveva tratteggiato, negli scritti giovanili, come meta dello sviluppo civile dell’umanità l’uomo totale, ma l’individuo chiamato a esercitare, come in Rousseau, lungo tutta la giornata, i suoi diritti di cittadino, non sarebbe l’uomo totale, ma il cittadino totale che è molto vicino allo stato totale dal momento che in comune c’è lo stesso principio, anche se nel primo caso visto dal punto di vista del popolo e nel secondo da quello del principe: tutto è politica ovvero la risoluzione dell’uomo nel cittadino con la conseguente cancellazione del confine tra sfera privata e sfera pubblica e non è certo questo il risultato che si attendono i promotori della democrazia diretta.
Del resto anche quando si parla di democrazia rappresentativa è necessario liberarsi da alcuni equivoci connessi a questa espressione. Innanzitutto rappresentativa non significa parlamentare ma, più genericamente, indica che le deliberazioni che riguardano la collettività vengono prese non direttamente da coloro che ne fanno parte, ma da persone elette a questo scopo e lo stato parlamentare è solo un’applicazione particolare di tale modalità anche se storicamente assai rilevante; ma anche gli Stati Uniti, che pure sono una repubblica presidenziale rientrano nelle democrazie rappresentative e non bisogna dimenticare che il principio di rappresentanza è esteso, anche in Italia, anche a sedi locali. Caratteristica fondamentale dello stato rappresentativo è la presenza di rappresentanti eletti e pertanto o stato parlamentare può benissimo non essere una democrazia rappresentativa; infatti storicamente sono venuti i parlamenti prima del suffragio, elemento fondamentale della democrazia, e ciò significa che per lungo tempo sono esistiti stati rappresentativi non democratici. Se è vero dunque che non ogni forma di democrazia è rappresentativa, di qui l’insistenza sulla democrazia diretta, è vero anche che non ogni stato rappresentativo è democratico sol per il fatto di essere rappresentativo: la critica dello stato parlamentare non implica perciò quella della democrazia rappresentativa.Bisogna aggiungere che non ogni critica alla democrazia rappresentativa conduce direttamente alla democrazia diretta.

Il dibattito sulla rappresentanza

Il secolare dibattito sulla rappresentanza politica è dominato da due temi di cui il primo riguarda i poteri del rappresentante, il secondo il contenuto della rappresentanza. La prima domanda è dunque, se A deve rappresentare B, come lo rappresenta e la risposta è : come delegato, cioè come semplice portavoce il cui mandato è necessariamente limitato e revocabile in qualunque momento, oppure come fiduciario, cioè con il potere di agire con una certa libertà in quanto, godendo la fiducia dei rappresentati, può interpretarne a propria discrezione gli interessi operando senza vincolo di mandato.
La seconda domanda riguarda che cosa rappresenta l’ipotetico A rappresentante di B: egli può rappresentarlo rispetto ai suoi interessi generali di cittadino oppure rispetto ai suoi interessi particolari. La differenza si ripercuote dunque sul chi dal momento che nel primo caso il rappresentante può non appartenere ala stessa categoria dl rappresentato, nel secondo caso invece è solitamente membro della medesima categoria professionale: è chiaro a questo punto il rapporto tra la rappresentanza degli interessi particolari e la figura del delegato e tra la rappresentanza degli interessi generali e il ruolo del fiduciario ed è questo secondo aspetto che caratterizza la democrazia rappresentativa. Il rappresentante in una società di questo tipo possiede due requisiti fondamentali: in quanto gode della fiducia dell’elettorato una volta eletto non è più responsabile di fronte agli elettori e dunque non è revocabile e, in secondo luogo, non è responsabile proprio perché è chiamato a difendere l’interesse generale e non quello degli elettori. I rappresentanti, in quanto non rappresentano una categoria, ma gli interessi generali hanno finito per costituire una categoria a è stante che è quella dei politici di professione.

Revocabilità di mandato e rappresentanza organica

È in genere proprio sulle due caratteristiche fondamentali della rappresentanza nella democrazia rappresentativa che si appunta la critica ad essa in nome di una democrazia più larga: si critica infatti il divieto di mandato imperativo in nome di un vincolo più stretto tra rappresentante e rappresentato, simile a quello tra mandante e mandatario nel rapporto di diritto privato, oppure si critica la rappresentanza degli interessi generali in nome di una rappresentanza organica degli interessi di categoria. Sono entrambi temi che appartengono alla tradizione del pensiero socialista che si oppone strenuamente a una democrazia rappresentativa considerata come ideologia propria della borghesia. Il primo tema, ovvero la richiesta della revocabilità del mandato da parte degli elettori sulla base della critica al divieto di mandato imperativo, e di matrice marxista, ripreso da Lenin e passato come principio normativo nelle diverse costituzioni sovietiche e in tutte quelle delle democrazie popolari. Il secondo tema, quello della rappresentanza degli interessi, è stato invece caratteristico del pensiero socialistico inglese di fine ottocento, in particolare della corrente del guild-socalismo di Hobson e Cole. Tuttavia nessuna delle due proposte innovative trasforma la democrazia rappresentativa in diretta e ancor meno la seconda che si limita a sostituire un’altra forma di rappresentanza a quella vigente.
L’unico tentativo di sostituire in Italia la rappresentanza partitica con quella organica è stato compiuto dal fascismo con la camera dei fasci e delle corporazioni. Questo non significa che i parlamenti italiani siano dediti solo all’interesse generale, anzi, una delle piaghe è proprio il proliferare delle "leggine", frutto proprio del prevalere degli interessi di categoria; ma si tratta appunto di un aspetto negativo e non di un effetto benefico.
La rappresentanza organica non è però di per sé una stortura e vi sono situazioni in cui è inevitabile, ma in contesti, come quello di un consiglio di fabbrica, in cui le decisioni sono rese in un ambito ben delimitato che non ha niente a che vedere con quello generale e non tecnico di cui devono occuparsi le rappresentanze politiche.
Certamente più vicino alla democrazia diretta è l’istituzione di un rappresentante revocabile perché non recide il legame tra delegato e corpo elettorale. Anche in questo caso però non si tratta di democrazia diretta in senso letterale dal momento che occorrerebbe l’assenza di qualsiasi intermediario che permane invece con la presenza di un rappresentante, seppure revocabile. Inotre chi è costretto ad agire i base a istruzioni rigide è il nunzio o, al limite, l’ambasciatore, ma non è caratteristico dei corpi collettivi, anzi, è se mai tipico degli organismi gerarchicamente regolati e quindi si addice maggiormente a regimi autocratici.

L’estensione del processo di democratizzazione

Se la rappresentanza per mandato non è dunque democrazia diretta, è un punto intermedio tra questa e quella rappresentativa in un processo di passaggio in cui non è possibile dire dove finisce l’una e inizia l’altra ovvero in una democrazia integrale le due forme sono entrambe necessarie ma non, singolarmente considerate, sufficienti. La democrazia diretta è insufficiente quando si considerano i suoi istituti caratteristici: l’assemblea dei cittadini e il referendum. Nessun sistema complesso come è quello di uno stato moderno può funzionare solo con l’uno o con l’altro di questi strumenti e neppure con entrambi congiuntamente; l’assemblea può infatti concretizzarsi solo in una piccola comunità, come aveva già colto Rousseau, come l’Atene del V-IV secolo avanti Cristo mentre il referendum, l’unica forma di democrazia diretta effettivamente applicabile, può essere utilizzato solo come espediente straordinario dato il numero di deliberazioni necessarie.
Eppure non c’è dubbio che si sta assistendo a una estensione del processo di democratizzazione che si sta estendendo dalla sfera dei rapporti politici a quella dei rapporti sociali, dove l’individuo viene preso in considerazione nella varietà dei suoi status e dei suoi ruoli specifici. Il processo consiste dunque nel passaggio dalla democrazia politica quella sociale e dunque va inteso come l’occupazione da parte di forme democratiche, anche tradizionali, di spazi sinora dominati da organizzazioni di tipo gerarchico o comunque non democratico. Una volta conquistata la sfera politica ci si è resi conto che essa è inclusa in una sfera molto più ampia, la società nel suo complesso, e che non c’è decisione politica non condizionata da ciò che avviene all’esterno, nella società civile. Può benissimo esistere uno stato democratico in una società non democratica; l’indice odierno dello sviluppo democratico non è più la progressiva estensione del suffragio, bensì il numero di sedi diverse da quelle politiche in cui si esercita il diritto di voto.

Democrazia e pluralismo

Non è dato sapere se li processo di democratizzazione sia destinato a continuare o a interrompersi; accanto al bisogno di autogoverno si pone infatti il desiderio di non essere governati e la partecipazione in molte direzioni ha il suo rovescio nell’apatia politica. È certo però che i due grandi blocchi del potere discendente e gerarchico presenti in ogni società complessa, la grande impresa e l’amministrazione pubblica, non sono stati finora neppure intaccati dal processo di democratizzazione e sino a quando essi rimangono al loro stato originario la democratizzazione della società non può dirsi avvenuta. D’altro canto l’ampliamento del punto di vista dallo stato alla società civile rende consapevoli dell’esistenza di altri centri di potere e che dunque le società sono fondamentalmente policratiche; tuttavia spesso si tratta di centri di potere che sono dentro allo stato ma non si identificano immediatamente con esso: nasce allora il problema del rapporto tra democrazia e pluralismo. Spesso si è sentito parlare di coincidenza tra società pluralistica e società democratica e dunque la distinzione non sarebbe necessaria, bensì darebbe adito solo a inutili dispute linguistiche. In realtà però i due concetti non hanno la medesima estensione e non si implicano a vicenda. Ad esempio la società feudale è pluralistica presentando diversi centri di potere, spesso in conflitto tra loro, che costituiscono tante oligarchie. Al contrario la democrazia antica è indubbiamente rappresentazione di una società democratica non pluralistica dal momento che tutta l’attività pubblica si svolgeva nella polis e la democrazia era diretta per cui non c’era alcun corpo intermedio tra cittadino e città; è questo il modello democratico ripreso da Rousseau. La disputa allora, vista la non coincidenza dei concetti, diventa necessaria per determinare gli sviluppi reali del processo di democratizzazione e certo le nostre società sono pluralistiche; il pluralismo è, prima che una teoria, una situazione oggettiva. Se si divide infatti la società italiana in tre livelli, economico, politico e ideologico a tutti e tre essa è articolata in gruppi diversi e contrapposti.: a livello economico dove vi è ancora, almeno parzialmente, un’economia di mercato, a livello politico data la presenza di più partiti che si contendono i voti e, infine, a livello ideologico dal momento che non vi è un’unica dottrina dello stato, ma diversi indirizzi di pensiero che danno origine a un’opinione pubblica non omogenea..
La democrazia di uno stato moderno, del resto, non può che essere pluralistica e questo per diverse ragioni. Innanzitutto le due teorie costituiscono due proposte diverse ma convergenti e complementari contro l’abuso di potere: la teoria democratica prende in considerazione il potere autocratico ritenendo che il rimedio non possa essere che il potere dal basso, la teoria pluralistica prende in considerazione il potere monocratico e propone come rimedio la distribuzione del potere. La diversità dei due sistemi dipende dal fatto che potere autocratico e monocratico non sono la stessa cosa: l’antica democrazia, o quella rousseauiana , è democratica e monocratica, la società feudale è autocratica e policratica; tuttavia lo stato può essere, data la non identità tra monocratico e autocratico, anche monocratico e autocratico, come la monarchia assoluta, o policratico e democratico, tendenzialmente la democrazia moderna. In quest’ultima forma politica la lotta contro l’abuso di potere viene condotta parallelamente su due fronti e le ragioni che rendono necessario un doppio attacco sono evidenti: dove è possibile la democrazia diretta, lo stato può essere governato senza problemi da un solo centro di potere, quale l’assemblea dei cittadini, ma dove ciò non è possibile la garanzia non può nascere solo dal controllo dal basso, che è indiretto, ma deve anche poter contare sul controllo reciproco fra i gruppi che rappresentano diversi interessi. Il grande difetto della democrazia rappresentativa che consiste nella formazione di piccole oligarchie costituite dai comitati di partito può essere corretto solo dall’esistenza di una pluralità di oligarchie in concorrenza tra loro.
Pluralismo infine significa anche libertà e liceità del dissenso, carattere fondamentale della moderna democrazia rispetto all’antica. Come ha sostenuto Francesco Alberoni "La democrazia è un sistema politico che presuppone il dissenso. Essa richiede il consenso su un solo punto: sulle regole della competizione". Per l’esistenza della democrazia è necessario il consenso della maggioranza, il quale presuppone però l’esistenza di una minoranza di dissenzienti e la verifica cui si deve sottoporre costantemente un sistema democratico riguarda la posizione in cui mette tale minoranza perché l’unico modo per accertare che il consenso è reale, ovvero non manipolato, è verificare il suo contrario. In una società pluralistica non solo il dissenso è possibile, ma necessario e, viceversa, la libertà del dissenso ha bisogno del pluralismo che consente maggiore distribuzione del potere la quale a sua volta favorisce la democratizzazione della società civile che finisce per allargare e integrare la democrazia politica e si tratta di un allargamento di democrazia che non richiede il ricorso alla democrazia diretta.

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