Quando si parla di democrazia bisogna considerarla caratterizzata da un insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni e con quali procedure. Elemento caratterizzante della democrazia è in questo senso l’attribuzione di questo potere a un numero molto elevato di membri del gruppo; non si può dire tutti perché anche nel più perfetto regime democratico non votano coloro che non hanno raggiunto una certa età. Per quanto riguarda le modalità della decisione la regola fondamentale è quella della maggioranza in base alla quale vengono considerate decisioni collettive quelle approvate almeno dalla maggioranza di coloro a cui spetta la decisone; a maggior ragione è valida una decisione presa all’unanimità che è tuttavia possibile solo in un gruppo ristretto e omogeneo e può essere richiesta nei due casi estremi della decisione molto grave, in cui ogni partecipante ha diritto di veto oppure di quella di scarsa importanza in cui si dichiara consenziente chi non si oppone espressamente.
Questa definizione minima tuttavia non è sufficiente, ma è necessaria una terza condizione: coloro che sono chiamati a decidere o a eleggere coloro che dovranno decidere devono essere posti davanti a alternative reali e in condizione di poter scegliere tra l’una e l’altra. Affinchè ciò avvenga occorre che essi godano dei diritti di libertà sulla cui base è nato lo stato liberale. Le norme costituzionali che attribuiscono questi diritti non sono propriamente regole del gioco, ma regole preliminari che permettono lo svolgimento del gioco dal che segue che lo stato liberale è il presupposto storico, ma soprattutto giuridico di quello democratico.
Il dibattito che si apre alla luce di questi principi e della loro concretizzazione riguarda da vicino la situazione attuale della democrazia, tema solitamente dibattuto sotto il nome di "trasformazioni della democrazia" ma che riguarda soprattutto le discrepanze o, addirittura, le divergenze tra gli ideali democratici e la democrazia reale, ovvero il contrasto tra ciò che è stato promesso e ciò che è stato effettivamente attuato.
Risultato pluralistico di un ideale individualistico
La democrazia è nata da una concezione individualistica secondo cui la società è un prodotto artificiale della volontà degli individui ; alla formazione di tale concezione hanno concorso tre eventi: il contrattualismo del Sei-Settecento, la nascita dell’economia politica, ovvero di un’analisi della società e dei rapporti sociali il cui soggetto è il singolo individuo, la filosofia utilitaristica da Bentham a Mill. Partendo dall’ipotesi dell’individuo sovrano che, accordandosi con altri individui ugualmente sovrani, crea la società politica, la dottrina democratica aveva immaginato una società senza corpi intermedi, caratteristici della società corporativa delle città medievali. Quello che è avvenuto negli stati democratici è perfettamente l’opposto: soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre più i gruppi, grandi organizzazioni, associazioni, sindacati, partiti, e sempre meno gli individui. I gruppi, non gli individui sono i protagonisti della vita politica, con la loro autonomia rispetto al governo centrale. Il modello ideale era insomma quello di una società centripeta, la realtà è quella di una società centrifuga che non ha un solo centro di potere, la volontà generale di Rousseau, ma ne ha molti e merita il nome di società policentrica. Il modello dello stato fondato sulla sovranità popolare che era stato ideato a immagine e somiglianza della sovranità del principe, era quello monistico, la società reale è pluralistica.
La rivincita del mandato imperativo
Dall’effettivo pluralismo, in contraddizione con l’ideale individualismo, presente nelle società democratiche, è derivata una seconda trasformazione relativa alla rappresentanza che avrebbe dovuto essere di carattere politico ovvero una situazione in cui il rappresentante, chiamato a perseguire gli interessi della nazione, non può essere soggetto a mandato vincolato: il principio è dunque opposto a quello su cui si fonda la rappresentanza degli interessi. Uno dei dibattiti più importanti che si svolsero in seno alla costituente francese del 1791 fu quello che vide la vittoria di coloro che sostenevano che il deputato, una volta eletto, era rappresentante della nazione e non più degli elettori. Il mandato libero era in precedenza una prerogativa del re e dunque era un espressione palese della sovranità; pertanto fu trasferito dalla sovranità del re a quella dell’assemblea eletta dal popolo. Da allora il divieto di mandato imperativo è divenuto una costante di tutte le costituzioni di democrazia rappresentativa.
Mai norma è stata così frequentemente violata quanto questa: del resto era molto difficile che trovasse attuazione in una società composta da gruppi relativamente autonomi che lottano per far valere i propri interessi contro quelli di altri gruppi. Inoltre ogni gruppo tende inevitabilmente a identificare l’interesse generale con il proprio e non esiste un criterio preciso per distinguere l’interesse generale dal particolare. Il divieto di mandato imperativo, oltretutto, è una regola senza sanzione: l’unica temibile per il deputato, la cui rielezione dipende dal sostegno del partito, è quella che viene dalla trasgressione della regola opposta. Una riprova sella rivincita della rappresentanza di interessi è data dalla situazione che si è venuta a creare nella maggior parte degli stati democratici europei tra i grandi gruppi di interesse (industriali e operai) e il parlamento e che è stata chiamata, non a torto, neo-corporativa: si tratta di un rapporto triangolare in cui il governo, idealmente rappresentante degli interessi naturali, interviene solo come mediatore delle parti o, al massimo, come garante (impotente, in realtà) dell’osservanza dell’accordo; questo sistema si basa sull’accordo tra grandi organizzazioni che non ha niente a che vedere con la rappresentanza politica, ed è invece espressione tipica della rappresentanza di interessi.
Persistenza delle oligarchie
Altra promessa non mantenuta dalla democrazia è la sconfitta del potere oligarchico. Il principio ispiratore del pensiero democratico è sempre stato la libertà intesa come autonomia, cioè capacità di dare leggi a se stessi, secondo la definizione di Rousseau, che dovrebbe avere come conseguenza la perfetta identificazione tra chi pone e chi riceve una regola di condotta, e quindi l’eliminazione della tradizionale distinzione tra governanti e governati. La democrazia rappresentativa è già di per sé una rinuncia a tale autonomia e l’ipotesi che la futura computer-crazia possa consentire l’esercizio della democrazia diretta è abbastanza inverosimile: se si considera infatti il numero di leggi emanate in Italia ogni anno, il cittadino dovrebbe essere interpellato almeno una volta al giorno. L’eccesso di partecipazione, che finisce per produrre il cittadino totale, può inoltre portare a una saturazione da politica con conseguente aumento dell’apatia elettorale. Il prezzo che si deve pagare per l’impegno di pochi è spesso l’indifferenza di molti e nulla rischia di uccidere la democrazia più dell’eccesso di democrazia.
Naturalmente la presenza di élites al potere non cancella la differenza tra regimi democratici e autocratici e Schumpeter sostenne che la caratteristica di un sistema democratico non è l’assenza di élites, ma la presenza di più élites in concorrenza tra loro per ottenere il voto popolare. In un recente studio di Macpherson (The life and times of liberal democracy) vengono distinte quattro fasi dello sviluppo della democrazia dal secolo scorso ad oggi e la fase attuale, la democrazia di equilibrio, corrisponde alla definizione data da Schumpeter.
Gli spazi del potere
La democrazia, se non è riuscita a sconfiggere le oligarchie, tanto meno ha potuto occupare tutti gli spazi in cui si prendono decisioni per un intero gruppo sociale. A questo punto la distinzione che interessa non è più quella tra potere di molti e potere di pochi, ma quella tra potere discendente e ascendente, inoltre tale situazione si configura più come una inconseguenza che come inattuazione degli ideali democratici che sono nati per legittimare e controllare le decisioni politiche in senso stretto, dove il singolo viene considerato come cittadino e non nella molteplicità dei suoi ruoli all’interno della società. Se dopo la conquista del suffragio universale è ancora possibile un avanzamento della democratizzazione questo deve avvenire non, come si ritiene sesso, nel passaggio alla democrazia diretta, ma nella trasformazione della democrazia politica in democrazia sociale. Sino a quando infatti i due grandi blocchi di potere dall’altro esistenti nella società avanzata, l’impresa e l’apparato amministrativo, non subiscono un processo di democratizzazione, il processo di democratizzazione non può dirsi compiuto.
In alcuni di questi spazi non politici è talora avvenuta la proclamazione di alcuni diritti di libertà, è il caso dello statuto dei lavoratori (1970) o della carta dei diritti del malato e la concessione dei diritti politici è una naturale conseguenza della concessione di quelli di libertà che sono garantiti solo dalla possibilità di controllo che si esercita nei confronti del potere che deve difenderli.
Il potere invisibile
La democrazia non è stata in grado di risolvere il problema del doppio stato (Wolfe-The limits of legitimacy), ovvero dell’esistenza, accanto a un potere visibile, di un potere invisibile. Eppure era anche questa una delle grandi finalità della democrazia ai suoi albori secondo il modello dell’Atene classica caratterizzata dalle riunioni del popolo nell’agorà dove si prendevano liberamente le decisioni dopo ave ascoltato gli oratori che illustravano i diversi punti di vista. Anzi, la superiorità della democrazia rispetto agli stati assoluti, che difendevano la necessità di decisioni prese rigorosamente in segreto (politica degli arcana imperii), è proclamata proprio in nome della sua capacità di rendere trasparente il potere. Kant nell’Appendice alla Pace perpetua sostiene che "Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste" e da questo punto di vista risulta ovvio l’obbligo di pubblicità di tutti gli atti governativi non solo per far conoscere al cittadino l’operato dei detentori del potere e dunque il loro controllo, ma anche perché tale pubblicità costituisce già di per sé una forma di controllo. Non a caso infatti la politica degli arcana imperii procedette di pari passo con le teorie dalle ragion di stato secondo cui è lecito allo stato ciò che non è lecito al privato cittadino e pertanto esso è costretto a prendere in segreto le decisioni per non dare scandalo.
Il controllo del potere, tra l’altro, è ancora più necessario in un’età come quella contemporanea in cui i mezzi tecnici che sono a disposizione del potere per controllare i cittadini sono aumentati enormemente. Quello che è sempre stato l’ideale del potente, dunque, ora è raggiungibile e proprio per questa ragione si fa pressante l’interrogativo "Chi controlla i controllori?" la cui risposta è fondamentale per salvaguardare l’avvento del governo visibile ipotizzato dal pensiero democratico. In caso di risposta inadeguata non solo si sarebbe in presenza di una promessa non mantenuta, ma, addirittura, di una tendenza contraria alla premesse.
L’educazione del cittadino
L’educazione alla democrazia si svolge nell’esercizio stesso della pratica democratica, dunque non prima secondo il modello giacobino che prospetta una dittatura rivoluzionaria iniziale cui fa seguito il regno della virtù; è la stessa democrazia infatti a costituire il regno della virtù, intesa come amore per la cosa pubblica, di cui non può fare a meno e che, d’altro canto, promuove. Mill distingue i cittadini in attivi e passivi sostenendo che generalmente i governanti preferiscono i secondi perché più facilmente impugnabili, ma che la democrazia ha bisogno dei primi. Ciò lo induceva a proporre l’allargamento del suffragio alle classi popolari credendo fermamente nel valore pedagogico del voto e lo stesso tema dell’educazione della cittadinanza è stato protagonista della scienza politica americana degli anni Cinquanta senza lasciare però tracce profonde.
Nelle democrazie più avanzate si assiste infatti al fenomeno dell’apatia politica che arriva a coinvolgere fino la metà dei potenziali votanti e, sebbene possa sembrare paradossale, si tratta di un effetto dell’educazione della cittadinanza. Del resto nei paesi democratici che, come l’Italia, hanno ancora una percentuale di votanti abbastanza alta, seppure in continua diminuzione, vi sono buone ragioni per credere che vada diminuendo il voto d’opinione a favore di quello clientelare fondato sul principio del do ut des.
Ragioni dei fallimenti e rimedi proposti
Si parla di promesse non mantenute in riferimento alla discrepanza esistente tra gli ideali democratici e la loro realizzazione nella società, ma bisogna tener conto che il progetto politico democratico fu ideato per una società molto meno complessa rispetto a quella odierna e dunque le "mancanze" della democrazia sono dovute principalmente a ostacoli che non erano e non potevano essere previsti e che sopraggiunsero in seguito alle trasformazioni della società civile.
La necessità del governo dei tecnici
Il passaggio da un’economia familiare a un’economia di mercato e poi a un’economia protetta, regolata, pianificata, ha fatto crescere il numero dei problemi politici che richiedono competenze tecniche, ovvero l’intervento di esperti teorizzato da Saint-Simon, e l’esigenza di un governo di tecnici è divenuta una necessità inderogabile.
Tecnocrazia e democrazia, però, sono antitetiche: infatti se il protagonista della società industriale è l’esperto, non può essere il cittadino qualunque e la democrazia si regge sul presupposto che tutti possano decidere tutto, mentre la tecnocrazia pretende che siano chiamati a decidere i competenti.
La crescita dell’apparato burocratico
Parlare di crescita dell’apparato burocratico significa parlare di crescita di una struttura caratterizzata da un potere gerarchicamente ordinato dall’alto verso il basso diametralmente opposto, dunque, al sistema democratico. Tutti gli stati che sono diventati più democratici, tuttavia, sono allo stesso tempo divenuti più burocratici segno che il processo di burocratizzazione è stata la naturale conseguenza del processo di democratizzazione: oggi, infatti, il tentativo di smantellare lo stato dei servizi , che ha richiesto un apparato burocratico senza pari, cela il proposito di ridurre entro limiti ben precisi il potere democratico. Quando coloro che avevano diritto al voto erano solo i proprietari era normale che chiedessero allo stato lo svolgimento di un’unica funzione: la salvaguardia della proprietà; l’estensione del suffragio agli analfabeti provocò la richiesta dell’istituzione di scuole gratuite e quindi, per lo stato, un onere sconosciuto in precedenza: l’ulteriore estensione dei diritti politici ai nullatenenti significò richieste di protezione contro la disoccupazione e via via assicurazioni sociali per le più disparate ragioni. Alla luce di queste osservazioni non si può dunque certo dire che lo stato sociale non sia stato la risposta a una domanda venuta dal basso e pienamente democratica.
Lo scarso rendimento
Lo stato liberale e poi il suo allargamento nello stato democratico hanno contribuito a far sì che la società civile si emancipasse dal sistema politico così da divenire sempre più fonte di domande che vanno verso il governo che, per svolgere adeguatamente la propria funzione, deve fornire risposte. Se la precondizione per l’esistenza di un governo democratico è la protezione delle libertà civili tali libertà aprono molte vie attraverso cui il cittadino può rivolgersi ai suoi governanti per formulare richieste di ogni genere. La quantità e la rapidità di tali domande sono tali da rendere impossibile la loro soddisfazione anche da parte del più efficiente governo democratico che si viene così a trovare in una situazione di sovraccarico e a dover effettuare scelte che, escludendone altre, creano malcontento. Inoltre alla rapidità di richiesta fa riscontro la lentezza con cui le complesse procedure di un sistema democratico consentono alla classe politica di prendere le proprie decisioni. Si crea così uno sfasamento tra il meccanismo di immissione e di emissione che funziona la contrario rispetto a quello del sistema autocratico che è in grado di controllare la domanda avendo soffocato l’autonomia ed è effettivamente molto più rapido nella risposta non dovendo fare i conti con procedure decisionali parlamentari.
Torna a Gli ostacoli al mantenimento delle promesse e i rimedi
Il risultato
Nonostante le difficoltà incontrate dalla democrazia nel suo attuarsi e nonostante le promesse non mantenute, le trasformazioni del sistema democratico non sono state tali da trasformarlo nel suo opposto, ovvero in quello autocratico; la differenza sostanziale è rimasta e con essa anche il contenuto minimo dello stato democratico: garanzia dei diritti di libertà, esistenza di più partiti in concorrenza tra loro, elezioni periodiche a suffragio universale, decisioni collettive basate sul principio di maggioranza pur in misura diversa più o meno vicina al modello ideale. Nessuna guerra è sinora scoppiata tra stati retti a regime democratico. Il che non significa che gli stati democratici non abbiano fatto guerre, ma non le hanno mai fatte tra di loro.
Tuttavia, si dice, come si può pretendere che la democrazia abbia cittadini attivi se si riduce a procedure e regole? Non servono forse ideali per dare cittadini attivi? Certo, ma le regole democratiche sono il frutto di secoli di lotte ideali. Innanzitutto provengono da secoli di guerre di religione l’ideale della tolleranza e quello della non violenza: Popper sostiene che ciò che distingue un governo democratico da uno non democratico è che soltanto nel primo i cittadini si possono sbarazzare dei loro governanti senza spargimento di sangue e solo le regole democratiche hanno introdotto nella storia le prime tecniche di convivenza e solo dove esse sono rispettate l'avversario non è un nemico, ma un oppositore. In secondo luogo vi è l’ideale del rinnovamento graduale della società attraverso il libero dibattito delle idee: solo la democrazia permette infatti la formazione di rivoluzioni silenziose. Infine è fondamentale l’ideale della fratellanza dal momento che gran parte della storia umana è caratterizzata da lotte ininterrotte.
Grazie della lettura e al prossimo articolo.
Fonte. Ospitiweb
Questa definizione minima tuttavia non è sufficiente, ma è necessaria una terza condizione: coloro che sono chiamati a decidere o a eleggere coloro che dovranno decidere devono essere posti davanti a alternative reali e in condizione di poter scegliere tra l’una e l’altra. Affinchè ciò avvenga occorre che essi godano dei diritti di libertà sulla cui base è nato lo stato liberale. Le norme costituzionali che attribuiscono questi diritti non sono propriamente regole del gioco, ma regole preliminari che permettono lo svolgimento del gioco dal che segue che lo stato liberale è il presupposto storico, ma soprattutto giuridico di quello democratico.
Il dibattito che si apre alla luce di questi principi e della loro concretizzazione riguarda da vicino la situazione attuale della democrazia, tema solitamente dibattuto sotto il nome di "trasformazioni della democrazia" ma che riguarda soprattutto le discrepanze o, addirittura, le divergenze tra gli ideali democratici e la democrazia reale, ovvero il contrasto tra ciò che è stato promesso e ciò che è stato effettivamente attuato.
Risultato pluralistico di un ideale individualistico
La democrazia è nata da una concezione individualistica secondo cui la società è un prodotto artificiale della volontà degli individui ; alla formazione di tale concezione hanno concorso tre eventi: il contrattualismo del Sei-Settecento, la nascita dell’economia politica, ovvero di un’analisi della società e dei rapporti sociali il cui soggetto è il singolo individuo, la filosofia utilitaristica da Bentham a Mill. Partendo dall’ipotesi dell’individuo sovrano che, accordandosi con altri individui ugualmente sovrani, crea la società politica, la dottrina democratica aveva immaginato una società senza corpi intermedi, caratteristici della società corporativa delle città medievali. Quello che è avvenuto negli stati democratici è perfettamente l’opposto: soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre più i gruppi, grandi organizzazioni, associazioni, sindacati, partiti, e sempre meno gli individui. I gruppi, non gli individui sono i protagonisti della vita politica, con la loro autonomia rispetto al governo centrale. Il modello ideale era insomma quello di una società centripeta, la realtà è quella di una società centrifuga che non ha un solo centro di potere, la volontà generale di Rousseau, ma ne ha molti e merita il nome di società policentrica. Il modello dello stato fondato sulla sovranità popolare che era stato ideato a immagine e somiglianza della sovranità del principe, era quello monistico, la società reale è pluralistica.
La rivincita del mandato imperativo
Dall’effettivo pluralismo, in contraddizione con l’ideale individualismo, presente nelle società democratiche, è derivata una seconda trasformazione relativa alla rappresentanza che avrebbe dovuto essere di carattere politico ovvero una situazione in cui il rappresentante, chiamato a perseguire gli interessi della nazione, non può essere soggetto a mandato vincolato: il principio è dunque opposto a quello su cui si fonda la rappresentanza degli interessi. Uno dei dibattiti più importanti che si svolsero in seno alla costituente francese del 1791 fu quello che vide la vittoria di coloro che sostenevano che il deputato, una volta eletto, era rappresentante della nazione e non più degli elettori. Il mandato libero era in precedenza una prerogativa del re e dunque era un espressione palese della sovranità; pertanto fu trasferito dalla sovranità del re a quella dell’assemblea eletta dal popolo. Da allora il divieto di mandato imperativo è divenuto una costante di tutte le costituzioni di democrazia rappresentativa.
Mai norma è stata così frequentemente violata quanto questa: del resto era molto difficile che trovasse attuazione in una società composta da gruppi relativamente autonomi che lottano per far valere i propri interessi contro quelli di altri gruppi. Inoltre ogni gruppo tende inevitabilmente a identificare l’interesse generale con il proprio e non esiste un criterio preciso per distinguere l’interesse generale dal particolare. Il divieto di mandato imperativo, oltretutto, è una regola senza sanzione: l’unica temibile per il deputato, la cui rielezione dipende dal sostegno del partito, è quella che viene dalla trasgressione della regola opposta. Una riprova sella rivincita della rappresentanza di interessi è data dalla situazione che si è venuta a creare nella maggior parte degli stati democratici europei tra i grandi gruppi di interesse (industriali e operai) e il parlamento e che è stata chiamata, non a torto, neo-corporativa: si tratta di un rapporto triangolare in cui il governo, idealmente rappresentante degli interessi naturali, interviene solo come mediatore delle parti o, al massimo, come garante (impotente, in realtà) dell’osservanza dell’accordo; questo sistema si basa sull’accordo tra grandi organizzazioni che non ha niente a che vedere con la rappresentanza politica, ed è invece espressione tipica della rappresentanza di interessi.
Persistenza delle oligarchie
Altra promessa non mantenuta dalla democrazia è la sconfitta del potere oligarchico. Il principio ispiratore del pensiero democratico è sempre stato la libertà intesa come autonomia, cioè capacità di dare leggi a se stessi, secondo la definizione di Rousseau, che dovrebbe avere come conseguenza la perfetta identificazione tra chi pone e chi riceve una regola di condotta, e quindi l’eliminazione della tradizionale distinzione tra governanti e governati. La democrazia rappresentativa è già di per sé una rinuncia a tale autonomia e l’ipotesi che la futura computer-crazia possa consentire l’esercizio della democrazia diretta è abbastanza inverosimile: se si considera infatti il numero di leggi emanate in Italia ogni anno, il cittadino dovrebbe essere interpellato almeno una volta al giorno. L’eccesso di partecipazione, che finisce per produrre il cittadino totale, può inoltre portare a una saturazione da politica con conseguente aumento dell’apatia elettorale. Il prezzo che si deve pagare per l’impegno di pochi è spesso l’indifferenza di molti e nulla rischia di uccidere la democrazia più dell’eccesso di democrazia.
Naturalmente la presenza di élites al potere non cancella la differenza tra regimi democratici e autocratici e Schumpeter sostenne che la caratteristica di un sistema democratico non è l’assenza di élites, ma la presenza di più élites in concorrenza tra loro per ottenere il voto popolare. In un recente studio di Macpherson (The life and times of liberal democracy) vengono distinte quattro fasi dello sviluppo della democrazia dal secolo scorso ad oggi e la fase attuale, la democrazia di equilibrio, corrisponde alla definizione data da Schumpeter.
Gli spazi del potere
La democrazia, se non è riuscita a sconfiggere le oligarchie, tanto meno ha potuto occupare tutti gli spazi in cui si prendono decisioni per un intero gruppo sociale. A questo punto la distinzione che interessa non è più quella tra potere di molti e potere di pochi, ma quella tra potere discendente e ascendente, inoltre tale situazione si configura più come una inconseguenza che come inattuazione degli ideali democratici che sono nati per legittimare e controllare le decisioni politiche in senso stretto, dove il singolo viene considerato come cittadino e non nella molteplicità dei suoi ruoli all’interno della società. Se dopo la conquista del suffragio universale è ancora possibile un avanzamento della democratizzazione questo deve avvenire non, come si ritiene sesso, nel passaggio alla democrazia diretta, ma nella trasformazione della democrazia politica in democrazia sociale. Sino a quando infatti i due grandi blocchi di potere dall’altro esistenti nella società avanzata, l’impresa e l’apparato amministrativo, non subiscono un processo di democratizzazione, il processo di democratizzazione non può dirsi compiuto.
In alcuni di questi spazi non politici è talora avvenuta la proclamazione di alcuni diritti di libertà, è il caso dello statuto dei lavoratori (1970) o della carta dei diritti del malato e la concessione dei diritti politici è una naturale conseguenza della concessione di quelli di libertà che sono garantiti solo dalla possibilità di controllo che si esercita nei confronti del potere che deve difenderli.
Il potere invisibile
La democrazia non è stata in grado di risolvere il problema del doppio stato (Wolfe-The limits of legitimacy), ovvero dell’esistenza, accanto a un potere visibile, di un potere invisibile. Eppure era anche questa una delle grandi finalità della democrazia ai suoi albori secondo il modello dell’Atene classica caratterizzata dalle riunioni del popolo nell’agorà dove si prendevano liberamente le decisioni dopo ave ascoltato gli oratori che illustravano i diversi punti di vista. Anzi, la superiorità della democrazia rispetto agli stati assoluti, che difendevano la necessità di decisioni prese rigorosamente in segreto (politica degli arcana imperii), è proclamata proprio in nome della sua capacità di rendere trasparente il potere. Kant nell’Appendice alla Pace perpetua sostiene che "Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste" e da questo punto di vista risulta ovvio l’obbligo di pubblicità di tutti gli atti governativi non solo per far conoscere al cittadino l’operato dei detentori del potere e dunque il loro controllo, ma anche perché tale pubblicità costituisce già di per sé una forma di controllo. Non a caso infatti la politica degli arcana imperii procedette di pari passo con le teorie dalle ragion di stato secondo cui è lecito allo stato ciò che non è lecito al privato cittadino e pertanto esso è costretto a prendere in segreto le decisioni per non dare scandalo.
Il controllo del potere, tra l’altro, è ancora più necessario in un’età come quella contemporanea in cui i mezzi tecnici che sono a disposizione del potere per controllare i cittadini sono aumentati enormemente. Quello che è sempre stato l’ideale del potente, dunque, ora è raggiungibile e proprio per questa ragione si fa pressante l’interrogativo "Chi controlla i controllori?" la cui risposta è fondamentale per salvaguardare l’avvento del governo visibile ipotizzato dal pensiero democratico. In caso di risposta inadeguata non solo si sarebbe in presenza di una promessa non mantenuta, ma, addirittura, di una tendenza contraria alla premesse.
L’educazione del cittadino
L’educazione alla democrazia si svolge nell’esercizio stesso della pratica democratica, dunque non prima secondo il modello giacobino che prospetta una dittatura rivoluzionaria iniziale cui fa seguito il regno della virtù; è la stessa democrazia infatti a costituire il regno della virtù, intesa come amore per la cosa pubblica, di cui non può fare a meno e che, d’altro canto, promuove. Mill distingue i cittadini in attivi e passivi sostenendo che generalmente i governanti preferiscono i secondi perché più facilmente impugnabili, ma che la democrazia ha bisogno dei primi. Ciò lo induceva a proporre l’allargamento del suffragio alle classi popolari credendo fermamente nel valore pedagogico del voto e lo stesso tema dell’educazione della cittadinanza è stato protagonista della scienza politica americana degli anni Cinquanta senza lasciare però tracce profonde.
Nelle democrazie più avanzate si assiste infatti al fenomeno dell’apatia politica che arriva a coinvolgere fino la metà dei potenziali votanti e, sebbene possa sembrare paradossale, si tratta di un effetto dell’educazione della cittadinanza. Del resto nei paesi democratici che, come l’Italia, hanno ancora una percentuale di votanti abbastanza alta, seppure in continua diminuzione, vi sono buone ragioni per credere che vada diminuendo il voto d’opinione a favore di quello clientelare fondato sul principio del do ut des.
Ragioni dei fallimenti e rimedi proposti
Si parla di promesse non mantenute in riferimento alla discrepanza esistente tra gli ideali democratici e la loro realizzazione nella società, ma bisogna tener conto che il progetto politico democratico fu ideato per una società molto meno complessa rispetto a quella odierna e dunque le "mancanze" della democrazia sono dovute principalmente a ostacoli che non erano e non potevano essere previsti e che sopraggiunsero in seguito alle trasformazioni della società civile.
La necessità del governo dei tecnici
Il passaggio da un’economia familiare a un’economia di mercato e poi a un’economia protetta, regolata, pianificata, ha fatto crescere il numero dei problemi politici che richiedono competenze tecniche, ovvero l’intervento di esperti teorizzato da Saint-Simon, e l’esigenza di un governo di tecnici è divenuta una necessità inderogabile.
Tecnocrazia e democrazia, però, sono antitetiche: infatti se il protagonista della società industriale è l’esperto, non può essere il cittadino qualunque e la democrazia si regge sul presupposto che tutti possano decidere tutto, mentre la tecnocrazia pretende che siano chiamati a decidere i competenti.
La crescita dell’apparato burocratico
Parlare di crescita dell’apparato burocratico significa parlare di crescita di una struttura caratterizzata da un potere gerarchicamente ordinato dall’alto verso il basso diametralmente opposto, dunque, al sistema democratico. Tutti gli stati che sono diventati più democratici, tuttavia, sono allo stesso tempo divenuti più burocratici segno che il processo di burocratizzazione è stata la naturale conseguenza del processo di democratizzazione: oggi, infatti, il tentativo di smantellare lo stato dei servizi , che ha richiesto un apparato burocratico senza pari, cela il proposito di ridurre entro limiti ben precisi il potere democratico. Quando coloro che avevano diritto al voto erano solo i proprietari era normale che chiedessero allo stato lo svolgimento di un’unica funzione: la salvaguardia della proprietà; l’estensione del suffragio agli analfabeti provocò la richiesta dell’istituzione di scuole gratuite e quindi, per lo stato, un onere sconosciuto in precedenza: l’ulteriore estensione dei diritti politici ai nullatenenti significò richieste di protezione contro la disoccupazione e via via assicurazioni sociali per le più disparate ragioni. Alla luce di queste osservazioni non si può dunque certo dire che lo stato sociale non sia stato la risposta a una domanda venuta dal basso e pienamente democratica.
Lo scarso rendimento
Lo stato liberale e poi il suo allargamento nello stato democratico hanno contribuito a far sì che la società civile si emancipasse dal sistema politico così da divenire sempre più fonte di domande che vanno verso il governo che, per svolgere adeguatamente la propria funzione, deve fornire risposte. Se la precondizione per l’esistenza di un governo democratico è la protezione delle libertà civili tali libertà aprono molte vie attraverso cui il cittadino può rivolgersi ai suoi governanti per formulare richieste di ogni genere. La quantità e la rapidità di tali domande sono tali da rendere impossibile la loro soddisfazione anche da parte del più efficiente governo democratico che si viene così a trovare in una situazione di sovraccarico e a dover effettuare scelte che, escludendone altre, creano malcontento. Inoltre alla rapidità di richiesta fa riscontro la lentezza con cui le complesse procedure di un sistema democratico consentono alla classe politica di prendere le proprie decisioni. Si crea così uno sfasamento tra il meccanismo di immissione e di emissione che funziona la contrario rispetto a quello del sistema autocratico che è in grado di controllare la domanda avendo soffocato l’autonomia ed è effettivamente molto più rapido nella risposta non dovendo fare i conti con procedure decisionali parlamentari.
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Il risultato
Nonostante le difficoltà incontrate dalla democrazia nel suo attuarsi e nonostante le promesse non mantenute, le trasformazioni del sistema democratico non sono state tali da trasformarlo nel suo opposto, ovvero in quello autocratico; la differenza sostanziale è rimasta e con essa anche il contenuto minimo dello stato democratico: garanzia dei diritti di libertà, esistenza di più partiti in concorrenza tra loro, elezioni periodiche a suffragio universale, decisioni collettive basate sul principio di maggioranza pur in misura diversa più o meno vicina al modello ideale. Nessuna guerra è sinora scoppiata tra stati retti a regime democratico. Il che non significa che gli stati democratici non abbiano fatto guerre, ma non le hanno mai fatte tra di loro.
Tuttavia, si dice, come si può pretendere che la democrazia abbia cittadini attivi se si riduce a procedure e regole? Non servono forse ideali per dare cittadini attivi? Certo, ma le regole democratiche sono il frutto di secoli di lotte ideali. Innanzitutto provengono da secoli di guerre di religione l’ideale della tolleranza e quello della non violenza: Popper sostiene che ciò che distingue un governo democratico da uno non democratico è che soltanto nel primo i cittadini si possono sbarazzare dei loro governanti senza spargimento di sangue e solo le regole democratiche hanno introdotto nella storia le prime tecniche di convivenza e solo dove esse sono rispettate l'avversario non è un nemico, ma un oppositore. In secondo luogo vi è l’ideale del rinnovamento graduale della società attraverso il libero dibattito delle idee: solo la democrazia permette infatti la formazione di rivoluzioni silenziose. Infine è fondamentale l’ideale della fratellanza dal momento che gran parte della storia umana è caratterizzata da lotte ininterrotte.
Grazie della lettura e al prossimo articolo.
Fonte. Ospitiweb
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