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martedì 7 giugno 2011

Che cos'è l'opinione pubblica?


L'opinione pubblica rappresenta il complesso delle preferenze, delle inclinazioni, degli atteggiamenti e dei giudizi che risulta predominante in una determinata società e che di conseguenza mantiene un rapporto di reciproco condizionamento con l'attività dei pubblici poteri.

Cenni storici

Una parte della tradizione filosofica e storiografica europea, in concomitanza con la nascita dello Stato moderno, ha cercato di elaborare sul terreno della teoria, una dottrina dell’opinione pubblica e delle sue prerogative tralasciando l'analisi più specifica dell'espressione manifesta delle opinioni diffuse fra gruppi e individui. L'opinione, definita pubblica in quanto non privata e originata dal dibattito pubblico, ha il proprio antefatto storico nella democrazia greca della città-stato, la pólis e più in generale nelle riflessioni dei filosofi antichi sulle relazioni tra opinione e scienza. Sono proprio i filosofi greci, infatti, che sollevano per primi la questione dell'opinione pubblica come attore collettivo che si interessa del bene comune e orienta le soluzioni atte a perseguirlo. L'opinione pubblica appartiene alla doxa, la sfera del giudizio mutevole degli uomini, e non possiede l'evidenza e l'autorità dell'epistheme, la scienza. I suoi sono giudizi di valore, opinabili e cangianti, ma dotati di grande utilità pratica, perché permettono l'espressione di una qualche forma di volontà collettiva. La distinzione fra doxa ed epistheme e la sottolineatura del carattere esclusivamente pratico e contingente della prima risalgono a Parmenide. Tuttavia e in termini molto generali, possiamo dire che l'opinione pubblica appare un tipico fenomeno moderno, che nasce dalla separazione intervenuta con il consolidamento degli Stati nazionali fra società civile e Stato e dal formarsi di agenzie di dibattito (club, giornali, partiti, associazioni, borsa e mercato) ignote alle età storiche precedenti. I concetti di pubblico e di civile, peraltro, si differenziano essi stessi sempre più in questa stagione storico-politica. La formazione della moderna opinione pubblica è estranea alla costituzione dello Stato, ma sin dalle origini interagisce con lo sviluppo del potere assolutistico. Lo Stato moderno, concentrando la forza e demolendo la società dei ceti e delle corporazioni, ha certamente contribuito in maniera decisiva a separare la sfera pubblica dall'ambito del privato. Con la Rivoluzione francese il potere politico dovrà dissolversi nel potere sociale. Scomparendo la sfera privata, verrà meno l'opposizione fra bourgeois e citoyen. La seconda generazione liberale non ritiene più l'opinione pubblica incorruttibile: il dispotismo delle maggioranze e il conformismo di massa la minacciano. L. de Tocqueville e J. Stuart Mill temono i condizionamenti psicologici delle masse, il conformismo diffuso. Il controllo sociale può essere più oppressivo del controllo politico tradizionale, proprio dei regimi autoritari. La società industriale impone una logica strumentale: la ragione non deve cercare il giusto, ma proporre l'utile, perdendo di vista l'universalità. L'industria culturale fa del sapere e della cultura una merce. Il dialogo fra popolo e intellettuali auspicato da Kant, diviene in questo modo impossibile, o assume forme manipolatorie. La sociologia critica fra le due guerre mondiali e nei decenni successivi porta alle estreme conseguenze la denuncia circa il declino e la scomparsa dell'opinione pubblica come elemento di controllo democratico, decadenza provocata dalla socializzazione televisiva di massa, dagli interessi economici dei grandi media, dallo sviluppo crescente dei partiti oligarchici e delle grandi burocrazie pubbliche. Lo Stato che ha permeato la società civile diviene soggetto e responsabile di nuove inquietanti dinamiche di manipolazione. Nel suo 1984 (1949), G. Orwell fornisce una rappresentazione narrativa all'incubo politico-filosofico del pensiero unico nato da queste inquietudini.

Teorie sulla comunicazione politica

La sociologia della comunicazione politica, sin dagli studi di H. Lasswell – e poi, in anni più recenti, nelle riflessioni di M. Edelman sugli usi simbolici della politica e i loro poteri di suggestione e controllo culturale – ha posto il tema della ricostruzione dell’opinione pubblica. Con questa formula si intende la necessità di elaborare una teoria della comunicazione sociale – e perciò, implicitamente, della comunicazione politica – che garantisca un uso democratico dei grandi media comunicativi e limiti, viceversa, le tendenze alla manipolazione resa possibile dalle capacità tecnologiche del sistema mediatico contemporaneo, dalla concentrazione delle risorse finanziarie e professionali (grandi monopoli od oligopoli dell'informazione e dell'intrattenimento) e dalle sempre più sofisticate strategie di cattura del consenso. Non causalmente, molti studiosi segnalano l'impatto della pubblicità commerciale, dei suoi stili espressivi e dei suoi linguaggi sulla stessa sfera politica. La questione era stata per molti aspetti anticipata da Charles Wright Mills già alla fine degli anni Cinquanta del sec. XX. Il sociologo statunitense disegnava un'opinione pubblica ormai completamente sottoposta alla dominanza dei mass media, e quindi caratterizzata da due tendenze di fondo. La prima era rappresentata dal fatto che pochi potessero comunicare con molti (anzi: teoricamente con tutti), imponendo temi, priorità e criteri di interpretazione delle questioni attinenti la sfera pubblica. La seconda era per Wright Mills costituita dall'impossibilità, da parte dell'audience, di rispondere-interagire con la fonte emittente della comunicazione. La manipolazione dell'opinione pubblica appariva, insomma, intrinseca al carattere di processo a una via proprio dei principali media comunicativi, ma soprattutto di quello egemone: la televisione. L'intuizione critica di Wright Mills trova sviluppi nelle teorie contemporanee dell'opinione pubblica, ma soprattutto nella concreta produzione legislativa che si viene realizzando, a partire dagli anni Settanta, nella maggior parte dei regimi democratici. Il sistema mediatico, proprio per il riconosciuto impatto sull'opinione pubblica, viene sempre più sottoposto a processi specifici di regolazione. Gli spot commerciali televisivi, per esempio, non potranno pubblicizzare il consumo di tabacco, in quanto nocivo per un bene pubblico “di natura individuale”, come la salute. Non sarà possibile proporre, almeno in determinate fasce orarie, spettacoli giudicati “contrari al comune senso del pudore” (si pone qui, per inciso, un classico dilemma dell'opinione pubblica: chi interpreta questo tipo indeterminato di sentimento collettivo? e quale sarà il confine fra rispetto della sensibilità personale dei telespettatori e censura?). Ma, analogamente, anche la comunicazione politica orientata a influire sui comportamenti concreti (per esempio la scelta di voto) dell'opinione pubblica verrà sempre più rigorosamente disciplinata. Nel caso italiano, la lunga controversia sul conflitto d'interessi in relazione al possesso di importanti circuiti comunicativi, e, più tardi, la regolamentazione giuridica dell'accesso radiotelevisivo, nota come par condicio, sono esemplari di questo genere di problematica. Vero è, peraltro, che già pionieri della ricerca sugli effetti sociali dell'esposizione ai media – come il già citato Lasswell, o come Paul Lazarsfeld – avevano in parte ridimensionato il potere esercitato sull'opinione pubblica dai media elettronici. Si era parlato, già negli anni Sessanta e Settanta del sec. XX, di “effetti limitati”, pur sottolineando la capacità di penetrazione ipodermica sul lungo periodo del messaggio mediatico, e televisivo in particolare. La discussione che seguì a queste ricerche divise in due agguerriti schieramenti contrapposti il partito degli apocalittici – convinti dell'ineluttabile avvento di una società in cui l'opinione pubblica sarebbe stata sempre più massicciamente e facilmente controllata da invisibili potentissimi “manipolatori occulti” – a quello degli integrati. Questi ultimi predicavano una visione non ideologica e catastrofica del problema, sostenendo che il corredo cognitivo e la socializzazione individuale degli spettatori li porrebbero largamente al riparo dagli effetti indesiderati della pressione mediatica. Gli studi successivi non hanno condotto a conclusioni definitive né hanno aiutato a definire precisamente come e attraverso quale ruolo attivo dell'opinione pubblica sia possibile ricostruire un paradigma di democrazia nell'era della dominanza tecnologica dei grandi media. Alcuni elementi di valutazione sono però emersi con relativa costanza. Il più importante di questi, ai fini di qualsiasi riflessione sul nesso opinione pubblica-democrazia-sistema comunicativo, riguarda la rivalutazione dei fattori che fungono da filtro soggettivo di fronte al messaggio proveniente dai media. La provenienza sociale, la socializzazione familiare, il livello di istruzione, ma anche la condizione emotiva del momento, l'esistenza o meno di pregiudizi, stereotipi, aspettative da parte dello spettatore producono una sorta di griglia capace di selezionare gli impulsi provenienti dal sistema mediatico. Questi saranno di volta in volta accolti, respinti in tutto o in parte, rielaborati o sepmlicemente rimossi. Nel 1983, D. McQuail, con il suo Mass Communication Theory, ha fornito il contributo più rilevante a individuare le quattro aree in cui possiamo localizzare gli effetti sociali sull'opinione pubblica dell'esposzione mediatica (soprattutto televisiva). Il primo ambito interessa la qualità culturale del prodotto comunicativo, che – se sottratta a ogni verifica – può rinforzare nell'opinione pubblica, e specialmente nelle fasce più vulnerabili come i bambini, pregiudizi, stereotipi e persino inclinazioni latenti alla violenza o a pratiche asociali. Il secondo problema sottolineato da McQuail – al quale, come si è detto, solo negli anni Novanta si è cercato di dare in Europa occidentale e negli USA una più convincente regolazione istituzionale – riguarda la proprietà, il controllo, il livello di integrazione di estesi circuiti commerciali, pubblicitari e/o informativi operanti nel settore dei media e dell'opinione pubblica diffusa. La terza questione, già affrontata dagli studi dei decenni precedenti, concerne l'influenza ideologica dei grandi media come veicolo di stili di vita, di pensiero, di comportamento, nonché di mode o di vere e proprie nevrosi collettive. L'ultimo aspetto interessa proprio il ruolo della TV e degli altri media nel determinare, o nel contribuire a determinare, i temi oggetto di attenzione e di decisione da parte del potere politico, quello che viene chiamato processo di agenda-setting. In questa ottica, come confermeranno ricerche più recenti sulla comunicazione politica, appare assai più efficace l'impatto manipolativo prodotto dalla sistematica distorsione e/o dalla costruzione narrativa dell'evento giornalistico di quanto non lo sia la propaganda politica diretta (per esempio in campagna elettorale). Il grande potere semplificatorio della comunicazione mediatica, la sua capacità di omologazione culturale, il suo farsi “lingua collettiva” della società di massa, ha fatto temere effetti molto negativi sull'emancipazione culturale dell'opinione pubblica nel suo insieme. In Amusing Ourselves to Death (1985) N. Postman ha addirittura ipotizzato un mondo condannato a regredire verso l'analfabetismo diffuso e il più passivo conformismo, rovesciando quella tendenza alla liberazione della criticità individuale che aveva contraddistinto l'era della stampa e favorito l'espansione dell'educazione pubblica.

Società di massa e metodi d'indagine

In un'accezione molto ampia e generica l'opinione pubblica si identifica anche con l'espressione di atteggiamenti diffusi che si riferiscono a opzioni politiche o a problemi correnti che possono interessare i membri di una determinata società o di uno specifico gruppo sociale. Con l'avvento dei sondaggi d'opinione, sperimentati per la prima volta negli USA da George Gallup negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, il termine opinione pubblica si è convenzionalmente associato a umori, orientamenti e percezioni verificabili attraverso indagini condotte con tecniche e metodologie di tipo statistico su campioni rappresentativi di popolazione residente in comunità più o meno vaste (uno Stato nazionale, una regione, una città, ecc.). In questa ottica, la pratica della rilevazione sistematica dell'opinione pubblica tramite sondaggio è stata oggetto di numerose riflessioni politologiche e sociologiche fin dagli anni Cinquanta e Sessanta del sec. XX. Alcuni autorevoli critici – basti qui ricordare il sociologo tedesco Habermas – hanno messo in luce l'obiettiva ambiguità del concetto e la sua stessa pericolosità politica e culturale. Da un lato, infatti, identificandosi con la cosiddetta democrazia del sondaggio, le tecniche di analisi dell'opinione pubblica parrebbero realizzare concretamente l'ideale del costante controllo dei cittadini sugli affari collettivi e incarnare, perciò, una forma tecnicamente evoluta e funzionale di democrazia diretta. Dall'altra, la facilità con cui appare possibile manipolare gli umori collettivi da parte dei principali centri di potere e dei loro apparati di controllo sociale, fa temere che l'opinione pubblica divenga nient'altro che una sorta di soggetto-schermo, chiamato a ratificare decisioni già assunte o, al più, a segnalare i “punti di resistenza” psicologici su cui i detentori di autorità possono agire per assicurarsi consenso e influenza attraverso la propaganda, l'appello emozionale e la gestione strumentale dell'informazione. A questa rappresentazione subalterna e mistificatoria dell'opinione pubblica, Habermas contrappone l'ideale di una sfera pubblica, capace di costituire un efficace contrappeso all'egemonia dello Stato e dei potentati economici e informativi. Per lo studioso tedesco, politica e verità dovrebbero tornare a conciliarsi nel contesto ideale del discorso pubblico, una sorta di forum indipendente che presuppone la costante crescita dell'istruzione diffusa, la vigile partecipazione dei cittadini alle questioni politiche e sociali, il libero accesso ai mezzi di comunicazione di massa come nuovo fondamentale diritto di cittadinanza delle società democratiche. Al di là della legittima denuncia intellettuale dei rischi insiti in un'acritica esaltazione della sovranità dell'opinione pubblica, bisogna però ricostruire le trasformazioni che hanno storicamente interessato la produzione sociale di quella che possiamo definire l'opinione pubblica moderna. Nel tempo si sono infatti venute affermando due distinte, e persino antagonistiche, nozioni del controverso concetto di opinione pubblica. In termini più estensivi, la filosofia politica di tradizione europea continentale – cioè la matrice culturale che ha ispirato in tempi recenti la denuncia di Habermas e alimentato le preoccupazioni di intere generazioni di critici radicali della società di massa – si è concentrata sull'esigenza di definire il ruolo dell'opinione pubblica come attore sociale. Essa è stata così identificata con un soggetto collettivo anonimo, chiamato a interagire, adottando strumenti e strategie propri, con gli impulsi provenienti dal sistema politico. L'opinione pubblica è immaginata in questa prospettiva come il luogo in cui vengono elaborate preferenze, orientamenti, valutazioni. Dimensioni e valori che traggono linfa e giustificazione dall'esistenza di una cultura sociale di riferimento. L'opinione pubblica è vista come l'interprete autorizzata dei sentimenti, degli interessi e dei bisogni della comunità. Di qui, per inciso, il profilo tendenzialmente conflittuale che essa presenterebbe rispetto ai poteri costituiti. L'opinione pubblica assume un po' le sembianze di arbitro e giudice nei confronti degli abusi e delle possibili degenerazioni dell'autorità. La sua natura è per definizione democratica e pluralistica, la sua legittimazione discende immediatamente e “spontaneamente” dall'esercizio della sovranità popolare. A questa concezione ampia di opinione pubblica, fortemente impregnata di cultura filosofica e ispirata alla tradizione del radicalismo democratico settecentesco e ottocentesco, si può contrapporre una rappresentazione assai più tecnica e implicitamente restrittiva. È esattamente quest'ultima la nozione di opinione pubblica che ci viene trasmessa dalla scienza politica anglosassone e che, nell'età delle tecnologie comunicative (fra cui i sondaggi e le rilevazioni in tempo reale degli umori collettivi, ulteriormente potenziate a partire dagli anni Ottanta del sec. XX grazie alla massiccia applicazione dell'informatica e della telematica), tende obiettivamente a coincidere con la cosiddetta psephology. Il termine, coniato nel 1952 da R. B. McCallum e reso popolare fra i politologi anglosassoni dagli studi di D. E. Butler sul comportamento di voto, deriva dal greco psefos, la pietruzza che nell'Atene classica veniva gettata in una delle urne allestite sulla pubblica piazza per esprimere la preferenza dei cittadini in possesso dei diritti politici per uno o l'altro degli aspiranti a cariche pubbliche.

I sondaggi elettorali

Le ricerche sul comportamento elettorale vanno però a loro volta distinte in una serie di applicazioni operative molto differenziate fra di loro. Il filone più tradizionale riguarda i sondaggi relativi alla propensione di voto degli elettori. Si tratta di rilevazioni predittive – che dovrebbero anticipare le possibili opzioni a favore di liste e/o di candidati impegnati in consultazioni elettorali –, condotte su campioni stratificati casuali di popolazione. L'universo di riferimento, coincidente con il corpo elettorale, viene segmentato in relazione a una serie di variabili strutturali, come l'età, il sesso, l'occupazione e il titolo di studio. Per ogni segmento di popolazione, localizzato attraverso precise procedure statistiche dopo aver individuato le appropriate unità di analisi (in Italia questa è quasi sempre rappresentata dalla sezione elettorale), vengono estratti campioni rappresentativi di elettori cui vengono sottoposti questionari compilati allo scopo. La somministrazione può avvenire tramite intervista su questionario, affidata a un ricercatore specializzato, o attraverso la compilazione di una scheda contenente alcune batterie di domande, che viene recapitata al soggetto intervistato e restituita per via postale o con altri sistemi. In questo caso parliamo di questionario autosomministrato, meno costoso e di più facile e rapida circolazione, ma assai meno affidabile sotto il profilo dell'attendibilità scientifica rispetto alle classiche indagini con intervistatore. Chiaramente, questo genere di sondaggi offre ai soggetti interessati (partiti, istituzioni, agenzie specializzate) una serie di informazioni utili all'impostazione delle campagne elettorali e permette anche di monitorare quasi in tempo reale le reazioni dell'opinione pubblica a specifiche problematiche politiche, l'approvazione o la disapprovazione dell'elettorato per determinati provvedimenti, gli spostamenti nelle sensibilità di massa, il gradimento per i singoli leaders politici. Come aveva avvertito J. Habermas, si tratta di un'arma sicuramente poderosa ma non priva di insidie. In un certo senso, infatti, la rincorsa al consenso da parte di attori politici in competizione – come partiti e leaders impegnati in una campagna elettorale – può indurre operazioni opportunistiche di propaganda, facendo scemare la funzione delle forze politiche come portatrici di idealità e valori. Secondo molti critici, in altre parole, la possibilità di orientare e adattare continuamente le parole d'ordine in funzione degli umori diffusi nella popolazione e puntualmente registrati dai sondaggi d'opinione, farebbe declinare la funzione di educatore collettivo dei soggetti politici, spingendoli a perseguire non la coerenza con la propria ispirazione etico-filosofica, ma la conquista a basso costo dei favori elettorali. A conferma, si cita il classico esempio delle campagne elettorali USA, durante le quali spesso i personali convincimenti dei candidati in relazione a temi significativi dell'etica pubblica, come i diritti civili per le minoranze o la pena di morte, sono stati piegati all'esigenza di conservare o guadagnare il consenso di settori di elettorato potenzialmente decisivi per l'esito della competizione. In questo modo, il leaderpolitico e il suo schieramento rinunciano implicitamente al diritto-dovere democratico di “convincere” pur di “vincere”. La weberiana etica della responsabilità si piega alle ragioni strumentali del successo a ogni costo, provocando indirettamente una crescente spoliticizzazione e la trasformazione del confronto elettorale in una pura gara fra apparati propagandistici. Altri osservatorihanno però obiettato che gli accresciuti livelli di scolarizzazione e la minore dipendenza dell'elettorato dalle logiche organizzative dei partiti, consentendo la formazione di pareri più liberi, autonomi e meglio documentati in settori sempre più estesi di cittadini, consentirebbero di ovviare in gran parte al rischio del “circuito automanipolatorio” di cui si è detto.

I modelli elettorali

Un altro terreno molto fertile di analisi dell'opinione pubblica è quello che riguarda la socializzazione politica degli elettori, vale a dire il modo attraverso cui essi hanno assimilato e rielaborato non tanto esplicite opzioni elettorali (il voto “ereditario”), quanto i paradigmi culturali e i modelli valoriali che orientano la scelta politica. Questa produzione di norme, valori e significati può non prefigurare un rapporto permanente di preferenza per una determinata forza politica, ma può sicuramente restringere la gamma delle opzioni possibili nel “mercato elettorale”. Alla socializzazione politica familiare, per esempio, sono spesso da ascrivere i comportamenti di negative partisanship: l'elettore si riserva di scegliere fra programmi e candidati di alcune liste, ma sa che non voterà mai per quelli proposti da uno schieramento che gli appare incompatibile con i propri quadri di riferimento essenziali. In questo modo, l'analisi individua la socializzazione politica come il processo che consegna al soggetto “lenti colorate” con cui guarderà al mondo della politica, indipendentemente dagli oggetti specifici che di volta in volta ricadranno nel suo angolo di osservazione. Queste ricerche, che utilizzano metodologie diverse da quelle del sondaggio demoscopico a pronto impiego – facendo ricorso soprattutto a metodiche qualitative, come le storie di vita, le testimonianze libere, i focus groups, ecc. – hanno consentito di descrivere l'influenza sul comportamento di voto dell'appartenenza di classe, di sesso, etnica o religiosa, nonché della collocazione degli intervistati in specifici gruppi di età. L'analisi della propensione all'astensionismo o all'assenteismo elettorale e persino la costruzione di peculiari tipologie di voto (la sociologia politica italiana aveva suggerito negli anni Settanta, per esempio, una tripartizione dell'opzione elettorale in voto di appartenenza, di scambio e di opinione) rientrano nel contesto di questo genere di ricerche. Fa riferimento a questo ambito di analisi anche la ricostruzione di comportamenti specifici e di modalità di espressione dell'opinione politica condizionati dalle regole elettorali e capaci di fungere da indicatori della presenza e della forza di una serie di fattori correlati. Fra questi si possono ricordare l'influenza degli apparati organizzativi dei partiti, l'esistenza di un sistema di consenso alla persona – in cui il voto assume il carattere del riconoscimento di status conferito ai notabili locali –, la capacità di suggestione e di richiamo esercitato da leaders prestigiosi o dalla costruzione di una loro immagine accattivante (personalizzazione del consenso). La sociologia elettorale di comunità nazionali in cui è possibile l'espressione di indicazioni per i candidati in competizione su liste – voto di tipo proporzionale – si è, infatti, lungamente esercitata sull'analisi del voto di preferenza, sui tassi di avvicendamento (turnover) delle candidature da un'elezione all'altra, sulla distribuzione infrapartitica delle preferenze, che segnala la presenza di gruppi o correnti in competizione all'interno di una stessa lista o coalizione elettorale.

La dinamica del voto

Un altro genere di rilevazioni che interessano l'opinione pubblica nelle sue concrete opzioni elettorali è quello riconducibile alla ricostruzione di mappe del comportamento di voto a risultati acquisiti. Non siamo qui in presenza di sondaggi, di previsioni di voto o di altre forme di anticipazione degli esiti del confronto elettorale (tipo gli exit polls o le proiezioni su dati parziali che consentono di anticipare di qualche ora con relativa attendibilità i risultati finali, in parte a uso del consumo televisivo della politica). Si tratta, invece, di indagare le dinamiche di flusso che hanno orientato il comportamento degli elettori, individuando attraverso l'adozione di procedure statistiche abbastanza complesse e soggette a non poche contestazioni i passaggi intervenuti da un'elezione all'altra a favore o a danno di ogni singola forza politica. Contestualmente, si possono per questa via – o applicando metodiche ancora più specifiche – disegnare mappe elettorali che segnalano la geografia del voto e le correnti sotterranee che hanno accompagnato la trasformazione delle preferenze all'interno dell'opinione pubblica. Come si può facilmente intuire, la laboriosità e la delicatezza della strumentazione tecnica necessaria a questo tipo di ricerche sono state oggetto di frequenti obiezioni sia di tipo tecnico-metodologico, sia di tipo etico-politico. Si tratta, in effetti, di metodiche estremamente vulnerabili, che se non sottoposte a rigorose verifiche e controllate nella loro circolazione sociale, fornendo tutti gli elementi scientifici di supporto e informando il grande pubblico sul carattere probabilistico e puramente tendenziale di una serie di informazioni, possono indurre effetti sconvolgenti nella stessa opinione pubblica, alimentando allarme sociale o generando colossali equivoci interpretativi. Precedenti al riguardo non mancano. In alcuni Paesi l'erronea dilatazione di alcune tendenze dell'elettorato, come la radicalizzazione a favore dei partiti di estrema in situazioni di crisi sociale segnalata dai sondaggi sulla propensione di voto, ha suggerito il ricorso allo scioglimento anticipato del Parlamento per “prevenire” il rischio di un puramente supposto contagio estremistico. In altri casi l'analisi degli spostamenti fra un partito e l'altro (flussi) è stata indebitamente, anche se involontariamente, artefatta dall'adozione di tecniche statistiche non sperimentate. Si sono così generate letture distorte e politicamente arrischiate di comportamenti virtuali, scambiati per concrete dinamiche di voto.
Buon studio e al prossimo articolo.

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