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giovedì 31 gennaio 2013

Il lavoro dopo la laurea

In Italia l'ascensore sociale non funziona, ciò significa che la giustizia sociale e il merito se ne vanno a benedire da qualche parte. Il problema, non va cercato nell'università, almeno secondo i dati diffusi dal consorzio AlmaLaurea che ha tracciato il profilo dei 200 mila studenti che si sono laureati negli anni passati (tra cui me stesso). Fra i laureati di primo livello, evidenzia per esempio la nuova edizione dell'indagine, il 75% è figlio di genitori non laureati (idem). Il problema esiste, suggeriscono le tabelle, e lo si incontra quando si guarda a quel che succede appena dopo la discussione della tesi: rispetto a dieci anni fa il tasso di occupazione nel primo triennio dopo la laurea si è ridotto di 8,6 punti percentuali, e anche calcolando chi impiega più tempo per trovare un lavoro (cinque anni) la flessione è del 3,6 per cento. «La riforma del 3+2 ha migliorato gli indicatori accademici, ma la ripresa non potrà essere garantita se il paese continua a non considerare prioritari e strategici gli investimenti in formazione superiore e ricerca», sintetizza Andrea Cammelli, il presidente del consorzio che tiene sotto costante monitoraggio caratteristiche e destino dei laureati made in Italy, rievocando il dibattito eterno tra fautori e detrattori del doppio ciclo.
AlmaLaurea, certo, è una «voce» dell'università di Bologna, il consorzio raggruppa ormai 60 atenei italiani, ma nella mole dei dati messi a disposizione sono molti i numeri che provano a sostanziare il successo della riforma. Prima di tutto intervengono i dati sulla «produttività» del sistema, in aumento del 22,5% il numero di anni di formazione ultimati (in termini di titoli l'aumento, nello stesso periodo, è del 71%, ma il dato è gonfiato dal fatto che i laureati magistrali sono conteggiati due volte, perché hanno ottenuto prima il titolo triennale). Scende l'età media alla laurea, che si attesta a 23,9 anni per i «dottori» di primo livello e a 25 per quelli di secondo livello (l'età media alla tesi sale a 26,1 anni nei corsi a ciclo unico, come architettura e medicina); merito anche di un calendario di studi che si fa meno aleatorio, e che porta al titolo nei tempi previsti il 39,2% dei laureati. Nel 2001 era un'altra epoca, e il 91,5% finiva in fuoricorso, anche se non tutte le aree di studio hanno marciato allo stesso passo: a far crescere i laureati in tempo sono soprattutto i corsi per le professioni sanitarie, dove l'arrivo al traguardo senza ritardi è quasi un fatto obbligato (riguarda il 72,8% degli studenti), mentre in facoltà come giurisprudenza la vecchia abitudine ai tempi lunghi è rimasta (solo il 18,2% si laurea in tempo). Insomma, i progressi ci sono ma non tutto va bene: al di là della nota perennemente dolente della scarsa mobilità degli studenti (il 78,5% rimane in regione), a stupire sono soprattutto i progetti di chi ha conseguito la laurea magistrale, titolo che si rivela tutt'altro che definitivo. Il 41% di loro vuole rimanere sui libri, e il dato sale a quota 79% a psicologia: segno evidente che il rapporto laurea-occupazione resta problematico e lo confermo personalmente. E a pensare che la triennale ti apriva le prime porte nel mondo del lavoro, neanche quello. Io che da mesi sono specializzato in scienze politiche lo posso confermare. Tutto è in funzione della magistrale tanto valeva mantenere i vecchi corsi di laurea (i così detti vecchio ordinamento) e neanche quel "pezzo di carta" ti aiuta granchè. E confermo allo stesso modo anche l'impossibilità palese di trovare lavoro anche con la specialistica nelle mani già da un anno. E poi stando ai dati nessuno è più sicuro di trovare lavoro anche dopo il fine ciclo; cose da rizzare i capelli. 
Tra i disoccupati che vivono in famiglia ci sono molti giovani con titoli di studio elevati che aspirano alla possibilità di inserirsi in lavori che possano riconoscere un qualche merito per i loro studi, ma i ritardi di inserimento aumentano le difficoltà. Anche l’accettazione di piccole attività precarie è fatta in attesa di una migliore collocazione. Intanto nel nostro paese si è teorizzato il blocco del turn over, l’assenza di concorsi pubblici e l’aumento dell’età pensionabile. Questo significa far saltare possibilità di occupazione qualificata ad un’intera generazione. Mi sembra che sia da destra come da sinistra si suona la stessa musica sul fronte dell’impiego pubblico.
Nel contempo abbiamo la realtà dei lavoratori extracomunitari, i lavori rifiutati dai giovani che sperano in qualcosa di meglio vengono occupati dai disperati che sono disposti ad accettare qualsiasi tipo di lavoro; si possono scoprire anche realtà di lavoratori extracomunitari con elevata cultura che sono disposti ad accettare qualsiasi tipo di occupazione.
La proletarizzazione moderna ormai non ha più le regole del passato; non solo per ceto, per livelli di istruzione, ma anche per degli strani e capricciosi livelli di fortuna. Un giovane con due lauree, sprovvisto di “santi raccomandatari” e di fortuna, può trovarsi a dovere accettare un qualsiasi lavoro di magazziniere o imbianchino, oppure deve aspettare in casa in attesa che arrivi qualche assunzione privata o che qualche ministro ricominci a parlare di concorso day.
E i nostri "politici" che fanno? Un emerito niente aspettano di essere votati con una legge elettorale che li piazza sempre lì in prima fila per essere rivotati, e noi? Boh! Loro vorrebbero cercare di equipararsi con le normative europee non considerando che bisogna riconsiderare tutto, perchè siamo più vicini all'Africa che alla Germania.

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