A poche settimane dall’approvazione di una nuova tornata di sanzioni contro il regime di Ahmadinejad, Teheran mostra i muscoli: se il 23 agosto è stato presentato al mondo il primo drone (aereo militare senza pilota) di fabbricazione nazionale, ieri il ministro della Difesa iraniano Ahmad Vahidi ha tenuto a battesimo il Fateh 110, missile terra-terra di nuova generazione con una gittata di 193 km. La scorsa settimana, Vahidi aveva battezzato un altro missile - il Qiam - e aveva mostrato le nuove armi di cui può disporre l’esercito degli Ayatollah, tra cui due navi lanciamissili che verranno posizionate nello Stretto di Hormuz.
Dopo aver fatto i conti con i giovani dell’Onda Verde, il governo di Teheran continua inoltre a stringere le maglie della censura. Secondo un sito web vicino all’opposizione - ripreso dai principali media occidentali - il ministero della Cultura avrebbe vietato agli editori di testate giornalistiche di pubblicare nomi e foto dei leader dei partiti di minoranza, a partire da Moussavi, Karroubi e Khatami. Sul fronte internazionale monta intanto la preoccupazione per la sorte di Sakineh Ashtiani, la donna condannata a morte con l’accusa di tradimento e assassinio del marito: mentre sul web si moltiplicano le petizioni per chiedere l’abolizione della sentenza, Carla Bruni ha scritto una lettera alla prigioniera - “Sappiate che mio marito difenderà la vostra causa senza sosta”, assicura la Fist Lady - e sui social network ci si mobilita per protestare contro Ahmadinejad in occasione del suo viaggio a New York di fine settembre, quando il presidente iraniano parlerà all’assemblea generale delle Nazioni Unite al Palazzo di Vetro.
Ulteriori motivi di preoccupazione vengono poi dai rapporti tra Teheran e la leadership di Hezbollah. Tutto nasce da alcune dichiarazioni del leader della milizia sciita, Hassan Nasrallah, che ha invitato il governo libanese a chiedere aiuto militare ai Paesi amici stilando una lista degli armamenti necessari: “Tutti i Paesi arabi esprimono il loro amore per il Libano assieme ad altri Paesi amici, e per questo suggerisco che il governo determini il tipo di armi necessarie per equipaggiare l’esercito e sottoponga quindi le richieste agli Stati arabi”. La reazione di Teheran non si è fatta attendere: “La nazione libanese e anche il suo esercito sono nostri amici - ha risposto il ministro della Difesa iraniano Vahidi - e se ci fosse una richiesta ufficiale saremmo pronti a cooperare in ogni modo”. La notizia ha un certo peso, in quanto il governo di Ahmadinejad ha sempre dichiarato di sostenere Hezbollah esclusivamente sul piano politico: un accordo militare, dunque, ufficializzerebbe quello scambio di armi più volte denunciato da Israele.
Cavalcando proteste diffuse in diverse città libanesi contro i guasti alla rete elettrica nazionale, Nasrallah ha poi aperto un altro fronte molto delicato: “Chiedo al governo - ha detto il leader di Hezbollah - di studiare e discutere piani per la costruzione di una centrale nucleare”, finalizzata alla fornitura di elettricità ai libanesi e alla vendita di energia a paesi vicini come Siria e Giordania. L’ipotesi, alla luce del braccio di ferro che da anni contrappone l’Iran e la diplomazia internazionale, è potenzialmente esplosiva, e anche in questo frangente l’alleanza tra Beirut e Teheran non permette all’Occidente di dormire sonni tranquilli. Nella capitale libanese, intanto, è tornata la calma dopo i recenti scontri tra sostenitori di Hezbollah e attivisti dell’associazione umanitaria sunnita al-Abash: il bilancio degli scontri conta 3 morti e 11 feriti, e alcuni analisti leggono l’accaduto come un sintomo delle crescenti tensioni tra sciiti e sunniti nel Paese dei Cedri. Secondo il quotidiano “al Akhbar”, vicino a Hezbollah, gli scontri avrebbero addirittura “portato la capitale e il Paese sull’orlo della guerra civile”.
In attesa di sviluppi sui delicati rapporti tra il regime iraniano e il governo libanese, gli occhi del mondo restano puntati sull’incombente meeting tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’Anp Abu Mazen. I due leader, chiamati da Obama a riprendere negoziati diretti, si troveranno a trattare partendo da posizioni molto distanti: sui colloqui, oltre al fallimento della conferenza di Annapolis voluta nel 2007 dall’ex-presidente George W. Bush, pesa lo spettro di Hamas, che governa saldamente parte del futuro Stato palestinese. Sarà l’ennesimo buco nell’acqua? Probabile: sul “Daily News”, del resto, l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite John Bolton ha messo in discussione la stessa opportunità di riaprire forzatamente le trattative da parte di Washington. Se i negoziati saranno un fallimento, spiega Bolton, il risultato sarà “il declino dell’influenza statunitense in Medio Oriente” e Obama, già indebolito dalla situazione afghana e dall’inefficienza delle sanzioni contro l’Iran, rischia di trasmettere una “percezione di debolezza e incompetenza”. Bisogna valutare, in altre parole, se il gioco vale la candela.
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