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domenica 17 gennaio 2010

Se Calvino leggesse "Emmaus" di Baricco sarebbe molto a disagio

"Così il mondo ha, per noi, confini fisici molto immediati, e confini mentali fissi come una liturgia. E quello è il nostro infinito”. “Più lontano, al di là delle nostre consuetudini, in un iperspazio di cui non sappiamo quasi nulla, ci sono quegli altri, figure all'orizzonte". Il mondo di Emmaus è questo, due universi paralleli, in contrapposizione essenziale. Alessandro Baricco sviluppa il tessuto narrativo del suo nuovo romanzo lungo questa contrapposizione e per farlo si affida a due personaggi.

Un io narrante, anonimo rappresentante del “noi” . Un ragazzo, adolescente in una metropoli appena sfumata sul fondo. Per lui e il suo gruppo di amici, il mondo è disegnato da confini routinari, piccolo borghesi e da convenzioni e liturgie cattoliche che scandiscono il loro cammino addolescenziale. La loro felicità fatta di piccole aspettative soddisfatte e da convenzioni sociali omaggiate sic et simpliciter , risiede nella fede senza dubbio, vissuta in continua urgenza . E’ un “noi” piccolo borghese, meschino, nel suo voler far bene, ripiegato su se stesso, nella propria insaziabile penitenza, nel proprio imperituro servizio alle convenzioni.

Un contro-personaggio, esplicito rappresentate del “loro”. Una ragazza, Andre, bella di perdizione e irrimediabilmente libera.”Estranea ed eventuale”, utilizzando le parole dell’autore. Dedita alla dissacrazione puntigliosa di ciascuna regola benpensante e cattolica, riflessa di una carica erotica esasperata. Andre è la rappresentante di una classe sociale di “ricchi”, per i quali “ la chimica della vita non produce formule esatte, ma spettacolari arabeschi”. Loro, “non sono morali, non sono prudenti, non hanno vergogna […]”, vivono e “non sembrano credere in nulla”.

Così in un passaggio l’io narrante, innominato rappresentate della massa, descrive la separazione tra il noi e il loro: "Ciò che li rende irrimediabilmente diversi, e apparentemente superiori” è “ il disporre di destini tragici". Questi destini paralleli finiscono inevitabilmente per intrecciarsi, e gli effetti di questo incontro sono devastanti. Il “noi” ferocemente attaccato ai ritmi tradizionali, alle miniature preconfezionate della vita, va alla deriva nella vita famelica, nella voluttà senza limiti; se ne inebria, e nel luogo del “loro” si smarrisce.

Quel luogo è Emmaus. Città della Palestina, peregrinando verso la quale due discepoli incontrano il figlio di Dio senza riconoscerlo fino a quando non svanisce: “Cuori piccoli – li nutriamo di grandi illusioni, e al termine del processo camminiamo come discepoli ad Emmaus, ciechi, al fianco di amici e amori che non riconosciamo – fidandoci di un Dio che non sa più di se stesso.”

Dovstoevskij scrisse che “ un giorno la bellezza salverà il mondo”. La stessa bellezza, che Italo Calvino già nell’85 declinava in proposte per il nuovo millennio: crismi che dovrebbero “informare non soltanto l’attività degli scrittori, ma ogni gesto della nostra troppo sciatta, svagata esistenza”. “Leggerezza”,”Rapidità”, “Esattezza”, “Visibilità” e “Molteplicità”. L’opera di Baricco, apre il 2010, in totale divergenza da queste lezioni calviniane.

133 pagine, un romanzo apparentemente “leggero”, ma che è ben lontano dal “dissolvere la compattezza del mondo”, ben lungi dal percepire ciò che è "infinitamente minuto”. Un solo immobile filo narrativo, articolato da costruzioni sintattiche pur delicate, ma che non penetrano nel significato delle cose. Personaggi pallidi, truccati di parole dotte, incasellati in una pesante rappresentazione sociologica che nulla ha a che vedere con la realtà. I piccoli gesti, il dettaglio, “le entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva ed intellettiva” che “tolgono il peso al linguaggio” sono inesistenti, zavorrate a terra da improvvisi esercizi di stile.

Scriveva Leopardi nello Zibaldone, la velocità … è “ l’eccitamento delle idee simultanee che “ fanno ondeggiare l’anima in una tale abbondanza di pensieri … ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, o priva di sensazioni”. La velocità di Emmaus è semplicemente ridotta al naufragare degli eventi verso l’inevitabile. Nessun ritmo, nessuna volontà di realizzare quell’intuizione istantanea a cui tanto Calvino teneva, l’assenza di sensazioni pervade tutto il romanzo.

Una delle principali preoccupazioni di Calvino risiedeva proprio “nella perdita di forma” nella vita come opposta al crisma dell’esattezza. Le immagini sono divenute “in gran parte prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzarle (...) come forma e come significato”. E’ in totale ossequio a questa preoccupazione che le immagini di Emmaus “si dissolvono immediatamente”, lasciando una sensazione di “ estraneità e disagio”. Stessa sorte l’autore del romanzo ha dedicato al crisma della visibilità. Quel “far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini”, è sostituito dall’arrovellamento di segni neri che stupiscono senza che possano essere immaginati davvero e quindi ricordati.

Il romanzo si conclude inevitabilmente con la dissacrazione dell’ultimo crisma. Laddove Calvino identifica nella molteplicità delle soluzioni la bellezza del mondo che in questa “molteplicità non si lascia afferrare”, Alessandro Baricco, riduce il mondo ad un equazione a due variabili, l’una sempre uguale a se stessa, l’altra indefinita. Dice Calvino in chiusura della quinta lezione americana: “chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, di informazioni, di letture, d’immaginazioni?” Il principio di “campionatura della molteplicità potenziale del narrabile” , e della permeazione del senso di “potenzialità” infinite sono incasellate dall’autore di Emmaus in una diarchia sterile che preclude al romanzo qualsiasi potenza narrativa.

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