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mercoledì 14 aprile 2010

Ci vorrebbe Margaret Thatcher per la crisi della Grecia

Il prestito biennale alla Grecia da parte degli stati membri dell’Unione europea di 30 miliardi di euro, al tasso del 5 per cento, sopra il livello del mercato di breve termine dell’euro, di un po’ più di 3 punti, cui si aggiungono verosimilmente 15 miliardi di euro del Fondo Monetario Internazionale probabilmente a un tasso un po’ inferiore, ha generato una riduzione immediata del costo per il finanziamento del debito pubblico della Grecia. Che per i titoli decennali aveva superato il 7,5 per cento e per quelli biennali era sopra il 6 per cento e ha ridotto sensibilmente il costo dell’assicurazione dal fallimento del debito greco.

Non è detto che la situazione si rassereni interamente, anzi è probabile il contrario. E molto dipenderà sia dalla capacità della Grecia di attuare un piano di stabilizzazione della sua finanza pubblica assieme a un riordino della sua politica economica e del mercato del lavoro, rivolti a dare flessibilità all’economia, sia dalla dinamica complessiva dell’area euro. Infatti se l’economia dell’Eurozona riprenderà vigore abbastanza presto, la questione del debito greco passerà in seconda linea e non si aprirà il dossier del debito portoghese.

Diversamente, le cose si potranno complicare di nuovo. Se la Germania o l’Unione europea adottassero un programma di investimenti pubblici capace di rianimare la domanda interna del mercato unico, il problema greco si risolverebbe molto meglio che mediante il mero ricorso della Grecia a un piano di austerità con flessibilità e manodopera a buon mercato, orientato al rilancio della sua economia mediante l’afflusso di capitali esteri e la crescita. In altre parole, la Grecia, essendo nell’Eurozona non può svalutare la sua moneta. Ma se è vero che uscendo da essa, la Grecia potrebbe risolvere gran parte di suoi problemi grazie a una svalutazione, è anche vero che questa avrebbe efficacia solo se si risolvesse nel taglio dei salari reali dell’economia e degli stipendi dei pubblici dipendenti. Quindi per la Grecia si tratta di adottare queste misure, senza la finzione della svalutazione. Certo, tutto sarebbe più facile se al posto del premier Papandreou ci fosse una signora Thatcher.

Qualcuno si chiede se le cose andrebbero diversamente, qualora esistesse una finanza pubblica della federazione europea. La risposta è che, ovviamente, se la Federazione sovvenzionasse la Grecia, il problema si risolverebbe. Ma per sovvenzionare la Grecia non c’è bisogno di dare vita al Leviatano fiscale di un nuovo livello di governo, lo potrebbero fare gli stati membri mediante un intervento coordinato.

Ciò che è di ostacolo a questa soluzione non è la mancanza di una finanza federale, ma il divieto al soccorso alle finanze pubbliche e parapubbliche di uno stato in difficoltà da parte della Commissione europea o degli stati membri dell’Unione, stabilito dal Trattato di Maastricht. In effetti l’articolo 104B, stabilisce che “la Commissione europea non risponde, né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali e locali o da altri enti pubblici, da altrui organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico”. E dopo aver posto questi veto alla Commissione europea aggiunge “Gli stati membri non sono responsabili né subentreranno agli impegni dell’amministrazione statale, degli enti regionali e locali o degli altri enti pubblici, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese pubbliche, fatte salve le garanzie finanziarie specifiche”.

Il ricorso alla Corte di giustizia però non appare fondato, in quanto se è vero che il prestito alla Grecia viene fatto a condizioni inferiori a quelle che prevalevano sul mercato, al momento in cui è stato annunciato, è però vero che esso viene subordinato a condizioni che l’Unione europea pretende in base agli attuali poteri della Commissione europea sugli stati membri che si trovano nelle condizioni nell’articolo 104 C del Trattato, riguardante i “disavanzi pubblici eccessivi”, cioè quelli eccedenti il deficit del 3 per cento.

Le misure previste dall’articolo in questione arrivano sino alla richiesta di “un deposito infruttifero di importo adeguato presso la Comunità siano a quando il disavanzo eccessivo non sia stato corretto” e alla inflazione di “ammende di entità adeguata”. Il testo è chiaro. Si potrebbe fare un Fondo Monetario europeo basato sul principio dell’aiuto reciproco in caso di difficoltà, con le modalità che spiegherò meglio pià avanti, ma non si posso dare sovvenzioni agli stati in difficoltà per risolvere i problemi dei loro debiti e deficit eccessivi. Ciò che ora sta cominciando, è un esperimento di tipo nuovo, quello di un'unione monetaria fra stati membri di un mercato unico, che debbono operare senza questa rete di sicurezza e che, per giunta, hanno scarsi poteri di controllo sui comportamenti scorretti degli stati membri, con riguardo alle regolale di bilancio stabilite dal Trattato.

E alle prime battute appare evidente che l’esperimento funziona, peraltro con difficoltà a cui bisognerà porre rimedio escogitando nuove soluzioni, all’interno delle regole del Trattato. Secondo gli economisti, presuntamente liberali, ma cripto statalisti (che vanno per la maggiore), per gestire una Unione Monetaria in cui uno degli stati membri si trovi in difficoltà, con riguardo al suo debito pubblico, ci vorrebbe un governo federale. Ma, ripeto, ciò che manca non è il governo federale centrale, sono gli strumenti di collaborazione efficace fra stati membri. Sarebbe stato preferibile che esistesse già un Fondo Monetario Europeo che fosse in grado di effettuare questo tipo di interventi, dotato di proprie risorse finanziarie e di poteri propri, sulla base di procedure precostituite, analoghe a quelle del Fondo Monetario Internazionale.

Le difficoltà che si presenteranno nell'attuazione dello schema attuale, dimostreranno che è necessario pensare a tale Fondo. Ma tali difficoltà mostreranno che è ancor più necessario rivedere il funzionamento del patto di stabilità e crescita per prevenire situazioni come quella greca, dotando la Commissione di strumenti più incisivi di controllo e considerando non solo i parametri che emergono nella finanza pubblica, ma anche quelli che riguardano il rapporto fra la finanza pubblica, la macro economia e la bilancia dei pagamenti. Ciò per poter stabilire misure preventive più stringenti di quelle sin qui adottate, in relazione agli squilibri strutturali che emergono nella finanza pubblica dei singoli stati membri e che, in realtà, nascono dall’economia nel suo complesso, con particolare riguardo al mercato del lavoro, che genera una situazione di costi non competitivi e una disoccupazione anomala.

Prima della crisi internazionale scoppiata alla fine del 2007, in Grecia vi era un tasso di disoccupazione medio annuo del 10%, con un tasso di crescita del Pil superiore al 4% alimentati da un deficit di bilancia dei pagamenti correnti del 10% del Pil. Chiaramente, i salari erano troppo alti e c’era assieme mancanza di pieno impiego ed eccesso di domanda globale! Una situazione che a un economista keynesiano sembra inconcepibile e che dipende dal fatto che dato il cambio fisso, la variabile flessibile per il pieno impiego deve essere deve essere il salario, mentre per l’equilibrio della bilancia dei pagamenti occorre tagliare la domanda globale con una politica di bilancio tendente al quasi pareggio.

Alla sua crisi debitoria la Grecia è arrivata, invece, con un comportamento di politica fiscale e di bilancio spensierato, che fa capire come i controlli di Bruxelles sul suo comportamento siano stati inspiegabilmente omissivi. Già all’inizio del 2009 la situazione finanziaria della Grecia, ingolfata di debiti con l’estero, era molto precaria. Ma il governo uscente di centro destra di Nuova Democrazia, guidato da Costas Karamanlis, che ha lasciato il posto alla coalizione di sinistra guidata da Papandreu, durante la campagna elettorale del settembre 2009 non aveva rappresentato la drammaticità della situazione in cui la Grecia si trovava, a causa del rovesciamento del quadro finanziario internazionale che, d'improvviso, aveva determinato un'inversione dal flusso internazionale del credito da un regime di eccesso dell’offerta sulla domanda a uno di eccesso della domanda sull’offerta. E dal canto suo lo sfidante Georges Papandreu (figlio di Andreas e nipote di Georges, entrambi già presidenti del consiglio), alla guida di un governo del Pasok, il partito socialista greco, aveva promesso di risanare il Paese senza nessun ulteriore sacrificio da parte dei più deboli e della classe media. Il leader socialista aveva assicurato di voler rilanciare i consumi, l’economia e uno sviluppo verde, con un piano di spesa di 3 miliardi di euro pur riuscendo a proteggere salari e pensioni. Aveva anche promesso di finanziare il piano con una ridistribuzione fiscale e con una riduzione delle spese dello Stato.

Considerando che il Pil greco è di 230 miliardi di euro, i 3 miliardi di piano di rilancio di Papandreu erano lo 1,3 per cento del Pil . E tenendo presente che la Grecia aveva avuto negli anni precedenti un tasso di crescita medio del il del 4,5%, ma anche un tasso di inflazione del 4,2% nel 2008, con un deficit della bilancia dei pagamenti del 10% del Pil, e un deficit ufficiale di bilancio del 7.7% per il 2009, il programma di Papandreu era non solo demagogico, ma anche assurdamente irresponsabile.

E ciò anche a prescindere dal fatto che egli forse ignorava, che i conti pubblici greci erano truccati e che il vero deficit nel consuntivo annuale andava verso il 12,9 per cento. Fortunatamente, i numeri assoluti della crisi greca non sono gravi per l’Eurozona nel suo complesso, data la modesta dimensione della Grecia, per numero di abitanti e per Prodotto Interno Lordo: si tratta solo di 11 milioni di persone, a fronte dei 320 dell’Eurozona, ossia del 3,4 per cento. E nell’Eurozona c’è un complesso di stati membri, di circa 250 milioni di abitanti per i quali non si presenta un rischio per il debito pubblico, se continuano a tenere il comportamento prudente tenuto sino ad ora.

La Germania ha 83 milioni di abitanti, la Francia che con territori annessi ne ha 65, l’Italia che ne ha 60, Belgio, Olanda ed Austria ne hanno complessivamente 33. La percentuale della Grecia sul Pil dell’Eurozona è considerevolmente minore del 3,4% in quanto il Pil pro capite greco pre crisi di 28 mila dollari annui è molto minore di quello medio dell’Eurozona. Il Pil pro capite tedesco è di 40 mila, quello francese di 42, quello italiano di 35,5 , quello di Belgio, Olanda e Austria mediamente a 44. La media degli stati dell’Eurozona senza problemi di debito è sui 40 mila dollari e il Pil pro capite dell’Eurozona è di 38 mila dollari. Il Pil totale dell’Eurozona è di 12 .200 miliardi di dollari - la Grecia ha un Pil globale di 300 miliardi di dollari, cioè il 2,5% del Pil dell’Eurozona. Poiché il Pil greco in euro è di 230 miliardi e il suo debito pubblico è il 120 % del suo Pil, tale debito è attorno ai 275 miliardi di euro. La rete di sicurezza di 45 miliardi provvede al 16% di questo totale.

Con un debito decennale di 275 miliardi, ogni anno si debbono rinnovare mediamente 27 miliardi di titoli del debito pubblico. Ma poiché esso è cresciuto nel tempo, le scadenze annuali effettive sono forse di 23. Un deficit del 10% ne comporta altri 23. Ed ecco che la cifra di 45 miliardi fornita dal nuovo prestito potrà bastare alla Grecia come rete di sicurezza per quest’anno e per l’anno prossimo. E se essa saprà dosare con prudenza l’impiego di tale rete di sicurezza, potrà anche evitare di fruirne per intero. E’ un'ipotesi di non facile realizzo, ma non impossibile.

Ciò che sino ad ora ha giocato a sfavore della credibilità del debito pubblico greco è stata la spensieratezza con cui Atene è giunta a questa situazione. Le misure decise dal governo di Papanderu, quando la verità si è scoperta e la situazione debitoria della Grecia è cominciata ad apparire drammatica, dovrebbero riportare il defict del bilancio del 2010 al 9 per cento. Il governo, inoltre, si è impegnato ad avere un deficit del 3 per cento entro il 2013. Sulla carta, posto che il Pil rimanga invariato, ciò potrebbe non essere impossibile, dato che la pressione fiscale greca è solo il 37% del Pil mentre le spese rasentano il 50%. Ma, per evitare la caduta del Pil, ci vuole un programma eroico, relativo ai costi del lavoro, che solo mediante una forte pressione sul governo greco può essere possibile ottenere.

Considerando tutto ciò detto, appare chiaro perché l‘opinione pubblica tedesca fosse contraria all’intervento alla Grecia a carico del contribuente. La Germania in effetti dovrà accollarsi il 28% del sostegno finanziario alla Grecia, con un apporto di 8,4 miliardi di euro. E la tesi per cui la Grecia non li utilizzerà interamente appare poco credibile, dato quanto si è appena osservato.

Il cancellate tedesco Angela Merkel d’altra parte aveva assicurato che un eventuale prestito alla Grecia fosse fatto “a condizioni di mercato” e poiché esso è stato fissato a un livello del 5%, inferiore di forse 2 punti a quello di mercato, per i prestiti biennali greci, si è sentita tradita. E un gruppo di economisti e giuristi sta preparando un ricorso alla Alta Corte di Giustizia europea, sostenendo che si tratta di un aiuto contrario al Trattato di Maastricht , che fa parte integrante delle regole dell’Unione europea.

Si può discutere dell'efficacia operativa delle misure con cui la Commissione europea può condizionare l’erogazione del prestito e sanzionare la Grecia, ma non si può negare che esse consentono di affermare che un prestito al 5% non è una sovvenzione, vietata dal trattato di Mastricht. Ciò anche perché si tratta di un prestito inferiore ai livelli richiesti dal mercato al governo greco, ma molto superiore ai livelli a cui i governi degli stati dell’Eurozona, non considerati attualmente a rischio, si finanziano sul mercato del debito pubblico. Sicché essi con il sostegno finanziario alla Grecia potranno realizzare una plusvalenza.

Occorre aggiungere che non solo la Grecia ha aspettato troppo a varare il suo piano di austerità che consiste nel congelamento degli stipendi dei dipendenti pubblici e in aumenti fiscali, e nel chiedere il sostegno dell’Unione europea. Hanno tardato troppo anche gli stati membri, con riguardo alla creazione di un Fondo Monetario Europeo, che, come si desume dalla lettura dell’articolo 104 B del Trattato di Maastricht è ammissibile, nel quadro delle “garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico”. Infatti il Fondo Monetario Europeo si potrebbe finanziarie sul mercato, avvalendosi delle garanzie finanziarie specifiche precostituite degli stati membri e della Commissione europea, che potrebbero essere commisurate alle quote azionarie di ciascuno stato membro nel Fondo stesso, a loro volta parametrate su quelle di partecipazione alla Banca centrale europea.

C’è da augurarsi che da questo episodio nasca la volontà politica di dare vita a tale Fondo. Ma, paradossalmente, se l’intervento deciso in aprile avrà successo il proposito di dar vita al Fondo potrebbe essere accantonato.

Una cosa analoga sembra accadere con riguardo alla revisione delle regole riguardanti gli intermediari finanziaria non bancari: ora che il peggio è passato, al più si arriverà a una imposta sulle loro operazioni come surrogato della regolamentazione.

La Grecia, essendo nell’Eurozona non può svalutare la sua moneta. Ma se è vero che uscendo da essa, potrebbe risolvere gran parte di suoi problemi grazie a una svalutazione, è anche vero che questa avrebbe efficacia solo se si risolvesse nel taglio dei salari reali dell’economia e degli stipendi dei pubblici dipendenti. Quindi si tratta di adottare queste misure, senza la finzione della svalutazione. Certo, tutto sarebbe più facile se al posto del premier Papandreou ci fosse una signora Thatcher.


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