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sabato 21 agosto 2010

L'identità europea tra pluralismo etico e unità politica

L'incertezza generata dalle sfide connesse al pluralismo identitario ed etico ha sollevato la necessità di ripensare le coordinate che, tradizionalmente, inquadravano la definizione dello stato-nazione in termini di unità politica, omogeneità culturale e stabilità dei confini e delle istituzioni.

Di fronte alle trasformazioni connesse all'incremento della mobilità di individui e risorse ed alla crescente porosità dei confini, unitamente alle tendenze globalizzanti in ambito economico, scientifico-tecnologico e culturale, il modello tradizionale di stato-nazione, legato ad un concetto di sovranità definita sulla base dell'idea di integrità dei confini e territorialità dell'esercizio del potere, non può non essere sottoposta ad una forte analisi critica generante, per sua stessa natura, un diffuso sentimento d'incertezza identitaria.

Entro un simile contesto, le singole dimensioni nazionali possono considerarsi sempre meno autonome le une rispetto alle altre, poiché le sorti dei diversi stati, entro un sistema economico-politico globalizzato – o meglio, in fase di globalizzazione – risultano essere strettamente vincolate le une alle altre. Si pensi, a tal proposito, alla portata di alcune decisioni che, pur essendo prese a livello nazionale, estendono i propri effetti al di là dei confini dello stato stesso: non mi sto riferendo semplicemente a questioni riguardanti la politica estera – il cui peso a livello internazionale è piuttosto ovvio – ma anche, e soprattutto, alla trattazione di problematiche legate all'economia o all'impiego di scoperte tecnologiche, le cui conseguenze a livello etico (si faccia riferimento al caso della clonazione o della fecondazione assistita) ed ecologico (come, ad esempio, l'opportunità di svolgere test nucleari) travalicano le frontiere nazionali. Ciò che viene messo in gioco, in questi casi, è la responsabilità dei diversi attori internazionali, una responsabilità estesa geograficamente (al di là dei confini dello stato-nazione) e temporalmente (nei confronti delle generazioni future); un impegno, questo, che non può che rimettere in discussione il modo in cui lo stato-nazione si rivolge a se stesso ed alla sua identità.

La presa in considerazione di un simile stato di cose mi ha spinto ad interrogarmi sulla portata di queste trasformazioni nella prospettiva di un progetto di unione europea, che sembra essere sempre più vicino e palpabile.
In modo particolare vorrei cercare di analizzare le circostanze in cui ha preso vita l'esigenza di un simile progetto di unificazione, le aspettative ad esso connesse e le prospettive per la costruzione di un'effettiva identità comune.

1. Globalizzazione economica e allargamento dei confini nazionali

In una recente raccolta di saggi, J. Habermas prende in considerazione il problema della riconfigurazione delle coordinate dello stato-nazione, alla luce delle trasformazioni introdotte, a livello nazionale e trans-nazionale, dal processo di globalizzazione dei mercati; un processo, questo, presentato da Habermas come una vera e propria sfida per la democrazia.
L'appello che anima e sorregge la riflessione del filosofo è rivolto verso al necessità di far rinascere la politica dietro i mercati globalizzati: la mondializzazione delle transazioni economiche, infatti, sembra essere accompagnata da una mancanza di regolamentazione politica, che possa strutturare le relazioni tra stati alla luce delle nuove prospettive trans-nazionali.
Come sottolinea a questo proposito L. Ceppa, “i processi economici della globalizzazione non sono visti come un processo paralizzante che metta fuori gioco la politica, bensì come una “sfida” che si pone alla democrazia” [Habermas, 1999, p.125]: entro una simile prospettiva, alla spersonalizzazione connessa al processo di globalizzazione dei mercati, alle forme di standardizzazione e massificazione dei rapporti economici (si pensi, a titolo esemplificativo, alle grandi catene di distribuzione, a quei veri e propri colossi multinazionali che ottengono ampi consensi in modo trasversale rispetto ai confini nazionali ed ai differenti target di riferimento), Habermas contrappone il momento del dialogo politico, del confronto democratico come occasione d'incontro tra dimensioni differenti che, nel corso di un confronto orientato all'intesa, mettono sul piatto le loro diverse visioni del mondo particolari per costruire, proprio a partire da queste, un'intesa politica che regolamenti i rapporti tra i cittadini stessi, un'intesa sempre e comunque aperta alla revisione.
Naturalmente, non è solo il processo di globalizzazione dei mercati a costituire una sfida per la riflessione filosofico-politica contemporanea, non dobbiamo dimenticare, infatti, gli effetti connessi all'allargamento delle sfere d'interesse legate alla cultura, alla medicina, alla ricerca scientifica; così come non sono da trascurare i crescenti fenomeni migratori che rendono sempre più composite le configurazioni identitarie dei diversi stati e minano nel profondo quell'idea di omogeneità del Volk, come base su cui strutturare l'identità nazionale stessa. Come pone in evidenza lo stesso Habermas, “questo diffuso “venir meno delle frontiere” in sede economica, sociale e culturale tocca i fondamenti materiali di quel sistema statale europeo che era stato edificato su base territoriale a partire dal diciassettesimo secolo e che continua a rappresentare, sulla scena politica, gli attori collettivi più importanti. Sennonché la costellazione postnazionale elimina questo costruttivo combaciare – entro i confini dello stato nazionale – di politica e sistema giuridico, da un lato, con circuiti economici e tradizioni culturali, dall'altro lato.” [Habermas, 1999, p.106]

1.2
Un simile stato di cose pone in risalto, come abbiamo evidenziato più volte, la necessità di individuare un nuovo modo di pensare i confini nazionali, sempre meno nettamente definiti e sempre più permeabili: tale tendenza viene definita, in modo particolarmente efficace, da J. Agnew e S. Corbridge come “ il passaggio dalle frontiere ai flussi”, al fine di evidenziare come le comunità nazionali sembrano essere sempre meno protette da barriere – erette a fini difensivi – e sempre più circondate da zone grigie, ove avviene l'incontro e lo scambio tra diverse culture.
E' proprio all'interno di una simile prospettiva che M. Walzer nota come, “i confini esistono ancora, anche se sono resi più confusi dal moltiplicarsi degli attraversamenti. Sappiamo ancora di essere questo o quello, ma questa conoscenza è incerta, giacché siamo anche questo e quello.” [Walzer, 1998]
Questa trasformazione del modo d'intendere i confini non è solo connessa all'abolizione delle frontiere e dei controlli doganali tra gli stati membri dell'Unione Europea, ma è anche legata alla crescente mobilità di cittadini europei ed extraeuropei: tale fenomeno comporta una presenza di gruppi, relativamente omogenei, definiti in termini etnici o culturali che tagliano trasversalmente le differenti realtà nazionali, rendendo ancora più complessa la definizione di un'identità collettiva.
Entro una simile prospettiva sembra quasi che i confini territoriali vengano introiettati e trasformati in confini culturali: in questo modo ogni soggetto – individuale o collettivo – sembra poter rimanere fedele alla propria cultura d'origine, anche all'interno di un contesto misto, ricco di contaminazioni, su un territorio straniero, sempre meno soggetto a partizioni nette.

2. Regolamentazione politica e dialogo democratico

2.1
In tutto questo discorso mi sembra che emerga chiaramente l'assenza di una definizione politica del problema, o meglio di una proposta politica che possa, in qualche modo, cercare di delineare una prospettiva di convivenza e cooperazione sociale tra soggetti provenienti da dimensioni etnico-culturali profondamente eterogenee e che si trovano a dover condividere uno stesso territorio e a definire modalità pacifiche d'interazione.
E' proprio questa insufficienza di regolamentazione politica dei rapporti trans-nazionali che Habermas denuncia nel corso della sua riflessione, proponendo, come via di risoluzione, un'estensione del modello democratico al di là dei confini nazionali. A tale proposito, le parole utilizzate dal filosofo sono molto chiare: “noi potremo ragionevolmente affrontare le sfide della globalizzazione solo se riusciremo a sviluppare - nella costellazione postnazionale - nuove forme di autogoverno democratico della società” [Habermas, 1999, p.69]. Il dialogo democratico, infatti, aprendo spazi per il confronto - cui ogni cittadino, o gruppo di cittadini, ha pari opportunità di accesso - tra le differenti dimensioni, che animano una determinata comunità, sembra garantire le migliori condizioni per la costruzione di modalità di convivenza che soddisfino, nel maggior modo possibile, le richieste delle parti e che siano conciliabili con le loro visioni del mondo particolari.
Tale momento d'incontro/confronto viene presentato da Habermas come un momento di apertura all'altro da sé, come occasione di arricchimento e spunto per la riflessione autocritica: Habermas chiede, cioè, alle diverse parti coinvolte un concreto impegno revisionistico nei confronti della propria dimensione, invitandole a rimettere in discussione i propri punti di riferimento tradizionali e ad intraprendere un confronto dialogico che potrà anche aiutarle a prendere una maggiore coscienza della propria specificità (specificità, che si evidenzia proprio nel contatto con il diverso).

2.2
Tale invito all'apertura, però, deve venire ben calibrato per non innescare una tendenza alla disintegrazione di ogni legame sociale, all'anomia, ad un mondo popolato da individui isolati e divisi all'interno di un caleidoscopio di cerchie di lealtà particolari, individui privi di un qualsiasi sentimento di appartenenza ad una stessa comunità o di condivisione di una qualche prospettiva, sia essa etica o politica.
E' alla luce di queste considerazioni, che Habermas sottolinea come l'apertura dei confini della comunità debba essere seguita da una nuova chiusura, che inglobi e faccia propri i mutamenti e le ridefinizioni che si sono verificate nel corso del confronto dialogico tra le differenti anime della società stessa. Questa nuova chiusura, comunque, dovrà avvenire nella consapevolezza fallibilistica della precarietà di ogni equilibrio raggiunto e dovrà, quindi, essere accompagnata dalla disposizione ad una nuova apertura che renda conto delle trasformazioni avvenute, o meglio che potranno avvenire, all'interno delle molteplici trame del tessuto sociale.
Si può comprendere così come non siano, o non debbano necessariamente essere, i singoli individui, i protagonisti di tale dialogo democratico, bensì le comunità le quali, facendosi portavoci di quell'atteggiamento fallibilistico che Habermas definisce nei termini di un “revisionismo spregiudicato”, si aprono al confronto con dimensioni differenti, lasciando liberi i loro membri di scegliere la dimensione maggiormente adatta alle loro aspettative, conforme ai loro valori, per poi richiudersi entro i termini di una nuova consapevolezza identitaria, arricchitasi nell'incontro con l'altro e attraverso i contributi introdotti da eventuali nuovi membri.
Tutto ciò non comporta, e non deve comportare, uno slittamento verso prospettive relativistiche, poiché nessuno chiede alle differenti comunità - e alle loro rispettive cerchie di riconoscimento - di abbandonare le proprie pretese di validità: ciò che viene loro chiesto è di adattarsi, nella definizione della propria identità, alla crescente elasticità che connota sempre più i diversi ambiti del vivere insieme.

2.3
Un simile ordine di considerazioni permette di concepire il “multiculturalismo” nei termini di “pluriappartenenza”: come sottolinea Habermas, svincolandosi da un mondo-di-vita più fortemente integrato, i singoli individui si trovano esposti a un ambivalente allargarsi dei loro margini d'opzione” [Habermas, 1999, p.62]. Se da un lato tale processo incrementa le condizioni generanti incertezza, dall'altro apre nuovi ed inaspettati margini di scelta ai diversi soggetti che si trovano, in questo modo, in grado di scegliere la dimensione entro i cui confini sembra essere maggiormente possibile realizzare le proprie aspettative.
Da una simile prospettiva, uno dei maggiori problemi sollevati dal pluralismo non sarebbe più quello della convivenza tra gruppi culturali differenti, ognuno chiuso in se stesso e tutti culturalmente omogenei, ma quello della possibilità per l'individuo di appartenere a più dimensioni, quanto ad aspetti differenti della sua vita etica, religiosa o, più in generale, culturale: il collante di un simile pluralismo etico sembra allora dover essere rintracciato nella comunità politica; una comunità che possa integrare al suo interno differenti realtà culturali. Ed è proprio tale appello alla politica, ad una nuova politica sensibile alle sfide introdotte dal pluralismo, che Habermas solleva nel corso della sua riflessione; in modo particolare di fronte ad un simile pluralismo etico ed alla necessità d'individuare pratiche di convivenza condivise, credo sia particolarmente importante sottolineare, con Habermas, la forza integratrice di un processo democratico, che renda possibile la costruzione di un livello (politico) d'intesa e cooperazione, fondato sull'accettazione collettiva di procedure per la deliberazione politica e l'esercizio del potere.

2.4
Come evidenzia Habermas, allora, “la forza dello stato democratico sta nel poter riempire i vuoti dell'integrazione sociale a partire dalla partecipazione politica dei cittadini” [Habermas, 1999, p.53]: tale suggerimento, anche e soprattutto nella prospettiva della realizzazione di un'unione politica europea, prende la forma di un invito all'inclusione, all'integrazione di differenti componenti etiche (legate alle singole realtà nazionali, tradizionalmente definite) entro un unico progetto politico, privo di spinte all'omologazione e, comunque, rispettoso delle differenze.
Entro un simile contesto trans-nazionale sembra, allora, che spetti alle procedure di consultazione democratica supplire alle carenze solidalistiche, connesse all'indebolirsi dei legami sociali tradizionali (fondati sulla consapevolezza della comune partecipazione ad una comunità etnicamente ed eticamente omogenea), che devono venire, in questo modo, sostituiti da legami politici, giuridicamente tutelati, strutturati proprio a partire dal confronto eticamente connotato tra le diverse parti coinvolte (presentate nei termini di attori sociali orientati all'intesa).
Tali vincoli giuridici hanno lo scopo di costituire una sorta di solidarietà civica, che possa colmare il vuoto lasciato dall'indebolirsi dei legami interni alle comunità nazionali: detto altrimenti, tale nuovo modo d'intendere i rapporti solidaristici tra cittadini si fonda sul diritto positivo e sullo stato sociale, come forma d'assistenza reciproca tra i cittadini stessi, come una sorta di solidarietà istituzionalizzata.
Questi legami giuridici si presentano, tuttavia, come decisamente più deboli rispetto a quelli tradizionali, particolaristici: in effetti essi risultano essere estesi ad un numero notevole di soggetti, molto diversi gli uni dagli altri e, in quanto tali, poco disposti a sacrificarsi o, semplicemente, a rimettere in discussione la propria forma di vita per costruire un orizzonte di condivisione con altri soggetti così diversi e così, eticamente, lontani.
Credo che, da questo punto di vista, uno dei problemi maggiormente spinosi sia quello connesso alla ridefinizione dei parametri della giustizia distributiva in chiave trans-nazionale: come pone in evidenza Habermas, “la solidarietà civica, fin qui ristretta allo stato nazionale, dovrebbe allargarsi ai cittadini dell'Unione in maniera tale che, per esempio, svedesi e portoghesi siano disposti a garantire l'uno per l'altro” [Habermas, 1999, p.120]. Un simile obiettivo pare molto lontano: chiediamoci, ad esempio, come, allo stato attuale, un tedesco possa accettare di vedere ridefinire i canoni di misurazione del suo reddito in vista di un'operazione di adattamento con gli standard spagnoli. Non credo che tale questione possa trovare una soluzione in tempi brevi; ritengo, invece, di poter indicare nel dialogo e nel confronto democratico la via maestra lungo la quale procedere per l'individuazione della soluzione stessa; un dialogo, questo, le cui basi, come abbiamo avuto modo di evidenziare, sono il pari trattamento delle diverse parti in causa e l'impegno al rispetto reciproco.

2.5
E' proprio su tali basi che sembra essere possibile la formazione di qualcosa di simile ad una coscienza comune europea: certo, se è vero che “i membri di una stessa cultura possiedono un vocabolario comune di tradizioni e consuetudini” [Kymlicka, 1999, p.135], allora pare veramente difficile poter comprenderne la portata e le modalità di realizzazione. Ma se abbandoniamo, come credo sia necessario fare, l'idea della necessità di verificare l'omogeneità etica, come base per la costruzione di un qualsiasi orizzonte di condivisione, e focalizziamo l'attenzione sull'importanza della conservazione delle differenze, entro un progetto d'unione politica - esclusivamente politica - allora sembra che si aprano ampi spazi per la cooperazione trans-nazionale.
L'idea di base è quella di favorire un processo d'integrazione che preservi la pluralità etica entro il progetto di costituzione di un' unione politica: questo mi sembra essere l'unico modo per rendere possibile la cooperazione e l'unione tra dimensioni assolutamente non disposte a rinunciare alla propria peculiarità.
A tal proposito, si rivela essere particolarmente interessante il suggerimento avanzato da R. Münch il quale, in Das Projeckt Europa, evidenzia come il maggior ostacolo all'integrazione europea sia proprio la presenza di differenti culture irriducibili (soprattutto in virtù della loro volontà di autoconservazione) in una sorta di macrocultura europea: detto altrimenti, “sarebbe la mancanza di una tradizione culturale comune a impedire il formarsi di un'identità europea in senso forte, ovvero di un substrato di valori condivisi e comportamenti interiorizzati, che coinvolgano, conducendola a un minimo comun denominatore, ogni sfera dell'agire individuale e sociale” [S. Dellavalle, Chi ha paura dell'Unione Europea, in Teoria Politica, XIV, n°1, 1998, p.15].
All'interno di una prospettiva che voglia realmente prendere sul serio il fatto del pluralismo, una simile mancanza di un sostrato comune, che ci permetta di parlare di un vero e proprio “popolo europeo”, è tutt'altro che un ostacolo all'integrazione: sembra, invece, essere proprio la capacità di combinare la tendenza alla conservazione delle differenze con un progetto di cooperazione politica a costituire la sfida più interessante per chiunque voglia tentare di prospettare un modello di convivenza applicabile a livello europeo.
“D'altro canto i popoli nascono soltanto con le loro costituzioni statali. Anche la democrazia è una forma giuridicamente mediata di integrazione politica. Certo, quest'ultima dipenderà a sua volta da una cultura politica condivisa da tutti i cittadini. Ma se pensiamo che anche negli stati europei dell'Ottocento “coscienza nazionale” e “solidarietà civica” si produssero soltanto in una maniera graduale [...], allora vediamo che non abbiamo troppi motivi per essere disfattisti. Se ammettiamo che questa forma artificiale di “solidarietà tra estranei” è nata da una spinta astrattiva che - con rilevanti effetti storici - ha già trasformato, nel passato, la coscienza locale e dinastica in una coscienza nazionale e democratica, allora possiamo anche chiederci perché mai questo processo di apprendimento non dovrebbe poter superare i confini della nazione” [Habermas, 1999, pp.120,121]. Pur condividendo, in linea di massima, il suggerimento habermasiano, credo valga la pena di soffermarsi a riflettere su alcune implicazioni connesse a tali considerazioni: Habermas fa riferimento al processo che ha condotto dalla dimensione dinastica e locale alla costituzione dello stato nazionale, come precedente di un processo di allargamento degli orizzonti di condivisione, che potrebbe riprodursi a livello europeo. Non dobbiamo dimenticare, però, come gli stati costituitisi in seguito a tale processo di estensione si sono definiti sulla base dell'omogeneità culturale del tessuto sociale, cosa difficilmente attuabile a livello europeo, se consideriamo la pluralità non solo delle dimensioni nazionali, ma anche dei popoli che le costituiscono (sto pensando, a tal proposito, ai fenomeni migratori che contribuiscono in maniera determinante a rendere multietnica la composizione delle dimensioni locali). Non dimentichiamo, poi, come le società dinastiche fossero comunque società chiuse, omogenee e strutturate solidamente, ben lontane cioè dalla configurazione pluralistica ed instabile che caratterizza le dimensioni statali postmoderne. Ecco che, alla luce di queste considerazioni, parlare di coscienza europea (soprattutto se la intendiamo ancora come connessa al requisito dell'omogeneità culturale) sembra essere poco realistico, e anche poco auspicabile (se volessimo, in vista di un simile progetto, sacrificare la ricchezza connessa al pluralismo etico): ritengo, infatti, che la realizzazione di un accordo politico tra identità eticamente distinte sia un obiettivo sufficientemente ambizioso, ma comunque ragionevolmente realizzabile.



3. Prospettive per un'unione politica europea

3.1
Sembra inevitabile, giunti a questo punto, cercare di definire le modalità di realizzazione di un simile progetto di unione politica; un progetto che, cogliendo il suggerimento habermasiano, assume la connotazione di un'estensione delle procedure democratiche al di fuori dei confini nazionali. Secondo Habermas una simile estensione, almeno a livello europeo, sarebbe del tutto naturale: seguendo l'ordine di considerazioni precedentemente introdotto, non ci sarebbe nulla, infatti, che ci vieti di pensare che lo stesso processo storico che ha condotto dal particolarismo delle dinastie locali allo stato-nazione (trasversale rispetto alle singole cerchie di lealtà particolari), possa ora permetterci di estendere il modello politico democratico dall'interno dei differenti stati nazionali, alla realtà di una “ costellazione postnazionale”.
Quello che Habermas ha in mente non è però il progetto di una sorta di governo sovranazionale, o comunque di un sistema politico strutturato, poiché tale invito all'estensione riguarda esclusivamente le procedure democratiche e, dunque, va letto nei termini di un allargamento dei processi dialogici di scambio e confronto, orientati all'intesa.
Partendo dalla presa di coscienza della sempre maggiore interdipendenza tra i destini dei diversi stati e delle ripercussioni a livello globale delle decisioni prese localmente, Habermas evidenzia la necessità di un allargamento della base posta a fondamento dei processi deliberativi; detto con le parole di Habermas, “quanto più sono numerose ed importanti le materie regolate attraverso le trattative tra stati, tanto più le decisioni politiche risultano sottratte a quella formazione politica dell'opinione e della volontà che trova le sue radici soltanto nelle arene nazionali” [Habermas, 1999, p.108]. Di qui il senso e la portata dell'invito habermasiano ad estendere il modello procedurale democratico a livello trans-nazionale, creando un'ampia arena destinata al dialogo politico, ove si possono confrontare le posizioni degli interlocutori rappresentanti gli interessi e gli orientamenti dei diversi stati; posizioni, queste, a loro volta, democraticamente definite all'interno degli stati stessi.

3.2
Data, dunque, la necessità di disciplinare i rapporti trans-nazionali e nella consapevolezza dell'irriducibile eterogeneità etica ed etnica propria delle dimensioni locali coinvolte, la proposta maggiormente convincente mi pare essere proprio quella di una coordinazione tra diversi livelli, espressioni di differenti realtà particolari (dalle cittadine alle nazionali, passando per provinciali e regionali), tutte animate da uno spirito di confronto democratico, da integrare a livello internazionale, tramite un dialogo paritetico che, permettendo un costante flusso d'informazioni fra centro e periferia, garantisce visibilità pubblica alle problematiche provenienti dalle singole realtà locali. Ecco, dunque, come “la democrazia internazionale si presenta come una rete [...] [che] poggia sì su una coscienza giuridico-morale collettiva [individuabile nell'impegno procedurale e nella tutela dei diritti umani fondamentali - la definizione dei quali è tutt'altro che poco problematica], ma deve fare a meno di una coscienza etica comune” [Habermas, 1999, p.132].
Partendo da una simile prospettiva, allora, credo di potermi collocare, in seno al dibattito tra eurofederalisti ed euroscettici, più vicino ai primi, pur riconoscendo l'importanza delle preoccupazioni avanzate dai secondi: di fronte al processo di globalizzazione ormai in atto, il progetto di una politica trans-nazionale non si configura come una mera materia di scelta, come un'opzione, ma prende la forma di una vera e propria necessità, al fine di conferire un ordine legittimo alle transazioni e agli accordi tra stati.
Il pericolo, contro il quale stare in guardia, è quello di una perdita delle peculiarità delle differenti dimensioni locali; un pericolo, questo, che sembra essere evitabile avanzando la proposta di un modello federale che, come quello proposto da Habermas, permetta di mantenere viva la specificità dei diversi soggetti (definiti in termini nazionali, o culturali) presenti sulla scena internazionale, in quanto interlocutori di un dialogo democratico che dia vita, come abbiamo precedentemente evidenziato, a linee politiche e giuridiche generali e largamente condivise.
Questo progetto è chiaramente distinguibile da quello di un governo mondiale in cui i cittadini, quali soggetti cosmopolitici, rischierebbero veramente di perdere tutti i contatti con le proprie radici culturali, scivolando nell' indeterminatezza.

3.3
Questo invito alla conservazione del contatto con le proprie radici non deve venire interpretato come un appello reazionario alla conservazione della purezza culturale delle differenti dimensioni nazionali di fronte al pericolo della globalizzazione: tali riflessioni hanno lo scopo di sottolineare come al processo di globalizzazione economica non debba necessariamente corrispondere una tendenza alla globalizzazione culturale. Anzi, l'incontro tra diverse culture può aprire, come abbiamo sottolineato, nuove ed interessanti prospettive, permettendo a differenti realtà di prendere una maggiore coscienza di se stesse, nel confronto con l'altro da sé, e inaugurando anche opportunità di contaminazioni che diano vita a nuove culture.
Come evidenzia lo stesso Habermas, “in risposta alla pressione uniformante di una cultura materiale del mondo, vediamo spesso formarsi nuove costellazioni che, lungi dal livellare le differenze culturali esistenti, creano un pluralismo di forme ibridate” [Habermas, 1999, p.52].
Le opportunità di contaminazione sono sicuramente più elevate entro contesti plurietnici ove i fenomeni migratori di consistente rilevanza favoriscono lo stretto contatto tra soggetti differenti: entro una simile prospettiva, la realtà europea risulta essere relativamente omogenea, soprattutto se confrontata con dimensioni composite come quella statunitense.
Mentre, infatti, il progetto di unione europea prende la forma di una struttura multinazionale, gli Stati Uniti d'America possono essere definiti come uno stato polietnico: come suggerisce Will Kymlicka, nel primo caso siamo di fronte all'integrazione politica di più culture “territorialmente concentrate”, che desiderano mantenere il proprio statuto di società distinte, pur riconoscendo la loro mutua interdipendenza. Nel secondo caso, invece, “la diversità culturale scaturisce dall'immigrazione di individui e famiglie. Gli immigrati spesso si raccolgono in associazioni flessibili [definiti] “gruppi etnici”. Di solito essi desiderano integrarsi nella società dominante e di esservi accettati quali membri a pieno titolo. Anche se sollecitano un maggiore riconoscimento della loro identità etnica, il loro scopo non è diventare una nazione separata e autonoma bensì modificare le istituzioni e le leggi della società ospitante al fine di renderle più indulgenti nei confronti delle differenze culturali” [Kymlicka, 1999, pp.21,22]. Si comprende, già da questa breve presentazione, come da queste due realtà pluralistiche provengano diverse richieste d'integrazione: nel caso delle minoranze nazionali queste si fermano a livello politico, nella condivisione di norme che definiscano le modalità d'interazione e le reciproche aspettative, garantendo una maggiore autonomia quanto alle molteplici pratiche culturali.
Nel caso delle nazioni d'immigrati, invece, oltre ad una integrazione politica (che si concretizza nella concessione del diritto di cittadinanza), il processo d'inclusione si estende ad un livello più profondo, culturale, provocando una modificazione delle usanze del gruppo ospite ed un feedback (di varia intensità, a seconda della compattezza e della rilevanza numerica del gruppo immigrato) sulla cultura ospitante.

La descrizione, tracciata da Kymlicka, di stato multinazionale come originato dall'assorbimento di nazioni differenti all'interno di un unico stato, rende problematica la definizione della natura del progetto di unione europea che, come abbiamo sottolineato, sembra ben lontana dall'assumere la fisionomia di un vero e proprio sistema statale centralizzato: sembra, dunque, che essa possa venire definita come una sorta di stato multinazionale anomalo, poiché privo di un governo centrale e composto da stati polietnici (o che, comunque, stanno diventando tali) desiderosi di preservare la propria sostanziale indipendenza.
Tale impegno all'autoconservazione, da parte delle differenti realtà nazionali, deve, sempre e comunque, essere affiancato ad una disposizione all'apertura all'altro, in modo da evitare ogni pericolo di chiusura nazionalistica e di propagazione di sentimenti xenofobi. Questi ultimi, in alcuni casi, quando cioè il confronto con l'altro viene avvertito come una minaccia per la conservazione della propria identità peculiare possono, unitamente all'esaltazione nazionalistica, svolgere una funzione di risposta all'incertezza identitaria; il riconoscimento collettivo in un “noi” forte, corroborato dal disprezzo per il diverso, però, se da un lato può essere considerato come uno “spontaneo” meccanismo di difesa, dall'altro impedisce ogni dialogo, chiude ogni porta alla possibilità di individuare modalità di convivenza pacifica e di trarre benefici dal confronto costruttivo con l'altro.

Invece, come abbiamo notato, è proprio sulla base di un simile impegno all'apertura, all'incontro/confronto con il diverso, che si prospetta la possibilità di costruire un'identità europea la quale, collocandosi nella spaccatura tra demos (inteso nei termini di una “cittadinanza giuridica e universalistica”) ed ethos (definito in relazione ad una concezione di “cittadinanza culturale e particolaristica”) si configura come identità politica, definita nel rispetto delle peculiarità etiche, come un'unione nella pluralità delle differenze.

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