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martedì 2 novembre 2010

Statuto del lavoratore. Il Tea Party Italia raddoppia: "Abolire l'Articolo 18"

E’ innegabile che lo Statuto dei Lavoratori sia un testo intriso di marxismo e rivendicazione di “diritti” tutt’altro che naturali la cui acquisizione è frutto, più che di fantomatiche nobili battaglie, di pretese soddisfatte populisticamente dal grande valzer della democrazia, in cui la concessione di qualsiasi capriccio popolare diviene inalienabile poiché aiuta a far pendere la grande bilancia della politica dalla parte del consenso elettorale.

Proprio come Atlante sulle cui spalle gravava l’insormontabile peso del mondo, gli imprenditori italiani rendono possibile con i loro capitali, rischi, duro lavoro e passione la crescita e il benessere del Paese e soprattutto dei suoi lavoratori. Mai nessuna metafora aveva espresso la condizione in cui sono costretti i nostri produttori meglio di quella dell’eroe greco scelto da Ayn Rand nel suo epico romanzo “La Rivolta d’Atlante”. Se i tanti atlanti che costituiscono il motore della nostra economia decidessero di ribellarsi al sistema che li schiaccia probabilmente il loro primo obiettivo sarebbe l’abolizione dell’Articolo 18 del suddetto statuto.

Pervaso di pregiudizi ideologici, l’articolo si fonda su delle illogiche credenze collettiviste. In primo luogo ignora il principio secondo il quale ogni individuo sul mercato agisce razionalmente, da cui deriva che indiscriminatamente tutti i licenziamenti sono legittimati da una motivazione valida che spinge il datore di lavoro a prendere tale decisione, oltre che dalla libertà dell’imprenditore di decidere a chi riservare l’utilizzo dei propri mezzi di produzione e recidere tale contratto in qualsiasi momento in quanto proprietario.

L’ignoranza economica della sinistra inoltre preclude ai suoi ferventi fautori la possibilità di comprendere che in realtà la forza lavoro è una merce scarsa, e come tale destinata all’esaurimento. Il capitalista non è una creatura immortale: è un uomo che deve far fronte a necessità analoghe a quelle dei propri dipendenti; licenziare senza alcuna motivazione razionale impoverisce la capacità produttiva della sua azienda e con il tempo ne decreta l’inevitabile fallimento.

Ogni guerra ha i suoi eserciti, ma nella storia non se n’è mai visto uno infinito. L’esercito di lavoratori di riserva di cui farnetica Marx è in realtà molto limitato, e il comandante che vuol vincere la battaglia della crescita e del profitto deve mantenere in salute i suoi soldati altrimenti, come in ogni altro conflitto, la morte dei commilitoni decreterebbe la sconfitta di tutto il battaglione, senza eccezione alcuna per il comandante. Una rivolta d’Atlante è possibile soltanto se ciascun individuo comprendere di essere nel suo intimo l’imprenditore di se stesso, capitano d’industria del proprio futuro e investitore nel proprio successo.

Uno dei principali motivi della precarietà nel lavoro come nella vita dei nostri giovani è il privilegio discriminatorio reso possibile dallo stesso Articolo 18 a discapito di quelle figure professionali che producono sotto contratti a progetto o nelle nuove forme di contrattualistica, in cui il licenziamento è, come abbiamo detto giustamente, una legittima eventualità a disposizione del datore di lavoro.

I milioni di dipendenti precari del nostro paese sono vittime del corporativismo sindacalista che difende soltanto le istanze di quei lavoratori tesserati e politicamente schierati a favore di certi partiti, e a cui regala garanzie quali lo Statuto, condannando il resto degli occupati a un futuro incerto incoraggiato dalle Istituzioni stesse. Insomma, è del tutto ragionevole chiedersi se abolendo l’Articolo 18 quelle ragioni che spingono i datori di lavoro ad assumere personale a tempo determinato potrebbero venire meno, incoraggiando finalmente l’inversione di marcia della triste tendenza che il mercato del lavoro italiano ha registrato negli ultimi decenni verso un sempre maggiore precariato professionale, nonché sociale.

Serve il carisma di un movimento estraneo all’establishment politico e sindacale che riesca a radunare e mobilitare al tempo stesso giovani, precari e imprenditori. Il Tea Party Italia è questa entità, nuova, effervescente che può e deve farsi portavoce delle istanze dei titani che sostengono il peso del mondo, ma che per troppo tempo sono rimasti schiacciati dalle forze che vogliono comprimere il lavoro e difendere solo certi diritti. Quei “diritti” acquisiti in democrazia grazie al voto della maggioranza, gli stessi diritti che una nuova maggioranza può sottrarre con un’altra votazione democratica.

(Daniele Venanzi è il portavoce romano del Tea Party Italia)

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