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mercoledì 28 luglio 2010

...ESSELUNGA E LA COOP...

Per la seconda domenica consecutiva, il patron di Esselunga Bernardo Caprotti ha comprato pagine di pubblicità sui principali quotidiani per spiegare come funzionano le cose in materia di «concorrenza e libertà» nelle regioni rosse. La settimana scorsa, il caso Modena: prima le Coop pagano un terreno cinque volte il suo valore commerciale per ostacolare l’insediamento di un supermercato Esselunga, poi il comune completa l’opera decidendo di trasformare l’area da commerciale a residenziale. Così il supermercato non verrà mai costruito, né a marchio Coop ma soprattutto non a marchio Esselunga. E chi ci rimette di più? Per capirlo basta osservare lo specchietto pubblicato ieri mattina: a Modena le catene legate a Legacoop possiedono l’88,1 per cento della superficie di vendita, Caprotti appena il 3,4. Ora si apre un capitolo inedito del fortunatissimo Falce e carrello: il caso Livorno. Che presenta varie analogie con Modena. Anche sulla costa toscana ci sono giunte rosse, le Coop monopoliste (il 72,2 per cento degli spazi commerciali della grande distribuzione è dei marchi Legacoop) e un terreno commerciale conteso. Il proprietario è il cavaliere del lavoro Marcello Fremura, 80 anni, armatore e spedizioniere marittimo. La superficie fa parte di un grande lotto in cui verranno realizzati 700 appartamenti, uffici, servizi e appunto un ipermercato (unico sito cittadino disponibile per una nuova apertura) con annesso centro commerciale e megastore non alimentare. Due anni fa Fremura trova l’accordo con il Comune per avviare i lavori. Partono i contatti per rivendere i 41mila metri quadrati dell’area commerciale. Lo scorso aprile sul tavolo di Fremura si trovano tre proposte. Le Coop propongono 30 milioni di euro, qualcosa in più la Airaudo costruzioni, mentre Caprotti ne mette sul piatto 40. Vincono le Coop.

Faccenda «inconsueta e singolare» osserva Esselunga senza eccepire la regolarità delle procedure. Perché rinunciare a un’offerta più alta di un terzo? Fremura, attraverso la nipote Antonella Boccardo (che guida la società Le Ninfee creata per gestire l’operazione), fa sapere che l’offerta di Caprotti è giunta in ritardo. Strano, replica Esselunga, visto che è stata presentata il giorno dopo un colloquio a Livorno tra i due imprenditori, e non è ipotizzabile che Fremura abbia ricevuto Caprotti avendo già chiuso l’affare. «Delle sue buone maniere non è dato dubitare», si legge in una nota di Esselunga. D’altra parte, il rogito con le Coop è stato firmato davanti al notaio Poma di Firenze il primo luglio scorso mentre la lettera di Esselunga è del 9 aprile. Il tempo per trovare l’accordo c’era tutto. Ma Caprotti punta il dito sul clima nel quale è avvenuta la compravendita. Due anni fa Sergio Costalli, amministratore delegato di Unicoop Tirreno, aveva dichiarato: «Siamo determinati a non lasciare spazio a nessun concorrente in Toscana». Un anno dopo aveva ripetuto: «L’importante è che non si insedi la concorrenza». Lo scorso febbraio, nei giorni cruciali delle trattative con Fremura, il presidente della società Marco Lami aveva lanciato l’ennesimo avvertimento: «Livorno è nostra». Segnali, messaggi, avvertimenti. E infatti Antonella Boccardo ha spiegato così la scelta di incassare 30 milioni di euro targati Coop invece che i 40 di Caprotti: «C’è stata una riunione di famiglia ed è stata presa una decisione. Ma soprattutto abbiamo deciso che non saremmo più tornati indietro. Ed è quello che faremo: noi a Livorno ci viviamo e lavoriamo». Caprotti non ci vive e non riesce ancora a lavorarci, con buona pace di centinaia di livornesi che su Facebook hanno aderito al gruppo «Vogliamo l’Esselunga a Livorno» con tanto di indicazioni stradali per arrivare al supermercato di Pisa. E poi Caprotti non ci sta a passare per bersaglio di false accuse, come l’agnello nell’apologo di Fedro che viene citato nella pubblicità sui giornali. In difesa di Esselunga è sceso il coordinatore del Pdl e ministro Sandro Bondi: «Qualcuno raccolga l’ennesimo appello-denuncia. In una parte d’Italia, che grossomodo coincide con le regioni rosse, l’intreccio tra potere politico ed economia raggiunge livelli impensabili. Se la magistratura se ne occupasse si rivelerebbe un sistema di illegalità impressionante».

Tratto da Il Giornale.

martedì 27 luglio 2010

...Nel bunker della Cricca...

Chi dopo Scajola, Brancher e Cosentino? Il toto dimissioni punta su Verdini, ma anche Bertolaso non è messo molto bene. Ecco la mappa dei clan che stanno smottando uno dopo l'altro, travolti dagli scandali.
Ma l'amico... l'amico Lombardi è in grado di agire?". Al telefono Roberto Formigoni è supplichevole. Teme che la sua lista venga esclusa dalle elezioni e invoca l'intervento dell'"amico Lombardi": "Ti prego!". Ignora chi sia l'uomo di cui sta invocando il sostegno: un geometra che fatica a parlare in italiano e fa replicare alla supplica del governatore con un "dicitangill pure a chill amic tui su a Milan (diteglielo anche a quell'amico tuo su a Milano)". Eppure l'irpino Pasquale Lombardi, celebre nel suo giro per l'incapacità di sedere a tavola senza imbrattarsi di sugo ("Il nostro comune amico che quanno magna se sporca sempre..."), con il suo eloquio da Pappagone riusciva ad entrare in tutti i palazzi del potere. Il suo motto era semplice: "Arriviamo, arriveremo dove dobbiamo arrivare".
In Cassazione, nel ministero dell'Economia e in quello della Giustizia, nel Consiglio superiore della magistratura, nel Pirellone, nella presidenza della Sardegna, in ogni procura d'Italia, il geometra Lombardi trovava sempre le porte aperte. Snocciolava una serie di diminuitivi affettuosi - Fofò, Nicolino, Pinuccio, Giacomino - con cui si rivolgeva a sottosegretari, coordinatori di partito, governatori e procuratori della Repubblica. Fino a incontrare "Chillu cess' e Nicola", al secolo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm e suo compaesano. E non era l'unico a godere di simili frequentazioni, intime e pericolose.
Democrazia limitata
In pochi mesi gli italiani hanno scoperto l'altro volto del potere: le cricche, termine antico che indica "un gruppo informale e ristretto di persone che condividono degli interessi". Aggiunge il dizionario: "Generalmente in una cricca è difficile entrarvi". Invece - grazie a quelle intercettazioni che il governo vuol mettere a tacere - di questi club esclusivi se ne sono emersi parecchi. Un'orda che si è infilata dovunque: hanno influito e interferito su ogni decisione importante degli ultimi dieci anni, dal Giubileo al G8, dalle nomine al vertice della magistratura alla designazione dei presidenti di Regione, dai processi nella Suprema corte al lodo Alfano. Centurie del malaffare, avversarie e alleate a seconda della posta in gioco e dei loro punti di forza, pronte a scambiarsi favori e tirarsi addosso dossier al veleno.
Deviazioni per tutti i gusti
Ogni cricca ha la sua specialità. C'è quella degli appalti, con Diego Anemone - geometra sconosciuto al pari di Lombardi - che riunisce a tavola e negli affari il capo della Protezione civile Bertolaso, il gran commis di tutte le opere pubbliche Balducci, il ministro Scajola e l'ex Lunardi, il coordinatore pdl Verdini, il cardinale Angelo Sepe, un alto magistrato e una sterminata lista di beneficiati eccellenti. C'è quella del riciclaggio scoperchiata dal pm Giancarlo Capaldo, tra traffici sulla telefonia e sospetti di narcotraffico, del pregiudicato romanissimo Gennaro Mokbel e del suo senatore Nicola Di Girolamo, che muovono tanto denaro da non riuscire a contarlo ed esclamare "c'avete rotto il cazzo co tutti sti milioni". C'è poi la rete su scala minore dei fratelli De Luca, imprenditori campani delle ferrovie, con parenti al Csm, agganci in Vaticano e intrallazzi al ministero delle Infrastrutture. E il sogno infranto di Giampi Tarantini, che era entrato nelle notti di Villa Certosa e Palazzo Grazioli, passando dai contratti della sanità pugliese alle holding internazionali come Finmeccanica. Senza dimenticare sullo sfondo la nebulosa di Why Not, la ragnatela di contatti messa a nudo dall'indagine di Luigi De Magistris: una mappa delle relazioni altolocate, senza risvolti penali ma comunque significative per capire cosa resta della democrazia.
Le regole dei clan
Scordatevi delle tessere o dei cappucci: elenchi massonici come nella vecchia P2 sono ricordi del passato. E quanto c'entri la massoneria nel diffondere questo contagio ancora non è chiaro, anche se l'aura dei liberi muratori circonda molti protagonisti tra Toscana e Sardegna. Pur senza gran maestri e gerarchie, come in un gioco di ruolo ogni cricca per funzionare richiede alcune figure specializzate. C'è il tesoriere, in genere un imprenditore, che sostiene le spese del gruppo. Il clan degli irpini poteva attingere ai capitali di Arcangelo Martino, ex assessore socialista napoletano diventato un ras delle forniture ospedaliere: sede legale a Lodi, base operativa nel Casertano e oltre cento Asl nel carniere. Con Formigoni ha un filo diretto e non solo con lui: sono in molti a scommettere che il prossimo filone riguarderà la sanità e sarà dirompente. La gang degli appalti invece usava i fondi di Anemone, costretto a sudare quattro camicie per ragranellare il cash prima di cene con Bertolaso e generoso nel finanziare le dimore di Scajola, di un generale del Sisde e di altre perdine ministeriali. Ma Anemone spesso pagava in natura, ossia faceva lavori a gratis o a prezzo di costo a tutta la Roma che conta. In più c'era la santa alleanza con il cardinale Angelo Sepe che aveva offerto il catalogo di Propaganda Fide, con case da sogno a prezzi modici. Tutte le consorterie cercavano un padre spirituale con mire materiali. Sepe era intimo di Balducci, Bertolaso e company ma avrebbe tenuto relazioni intense anche con Arcangelo Martino e viene chiamato a benedire un convegno dei magistrati sedotti dal geometra Lombardi. Molto attivo e trasversale monsignor Francesco Camaldo, cerimoniere del papa e delle raccomandazioni. Invece i fratelli De Luca si rivolgono al cardinale Fiorenzo Angelini, ben introdotto tra i parlamentari cattolici e nell'ufficio di Bertolaso "che ha aiutato moltissimo...".
L’Espresso, 15 luglio 2010

Strage di Ustica, le conseguenze e i suicidi.

Il 29 luglio del 2008 Giovanni Marino portò uno scatolone allo Stormo e andò via. Si uccise subito dopo. C'entra con la strage di Ustica?
Non è stata una «strage» lontana da qui. E continua ad inseguirci. Il Dc 9 Itavia caduto il 27 giugno 1980 nel mare di Ustica, «vittima» di quella «guerra segreta» che per 30 anni anche le nostre autorità hanno tentato di tenere nascosta, ci ha colpito intanto con la morte di nostri conterranei. La provincia di Trapani ha avuto le sue vittime: Bosco Alberto, da Valderice di anni 41; i mazaresi Diodato Antonella, di anni 7; Diodato Giuseppe, di anni 1; Diodato Vincenzo, di anni 10; Gallo Vito, di anni 25; Guarano Andrea, da Valderice di anni 38; Guzzo Rita, da Marsala di anni 30; Lupo Francesca, da Castelvetrano di anni 17; Lupo Giovanna, da Mazara di anni 32; Norrito Guglielmo, da Campobello di Mazara di anni 37; Parrinello Carlo, da Marsala di anni 43; Parrinello Francesca, da Marsala di anni 49. Nove adulti e tre bambini. Erano tra quegli 81 morti del Dc 9. Una «strage» che non è lontana per via di quei radar del centro dell'Aeronautica di Marsala che «hanno visto» e ci hanno detto per anni «di non avere visto» quello che è accaduto la sera del 27 giugno 80 sopra il Tirreno, marescialli e militari che avrebbero avuto l'ordine di fare sparire brogliacci e tracciati, protagonisti dei depistaggi, raccontarono che nell'istante in cui l'aereo in arrivo a Palermo da Bologna veniva colpito da un missile, i radar di Marsala non erano funzionanti, «per una esercitazione in corso». Il giudice istruttore Rosario Priore venne più volte a Marsala a indagare, in ultimo in Procura un paio di anni fa per nuovi interrogatori; un'altra volta a cercare tracciati che l'ufficiale di turno gli avrebbe consegnato con un verbale nel quale era scritta una diffida (al magistrato) a fare un «uso discreto di quel materiale». Dopo Ustica ci sono state una serie di morti «strane», possibili testimoni deceduti in incidenti, o che hanno deciso di farla finita, suicidandosi. È di queste settimane la scoperta di un altro possibile suicidio da legare ad Ustica. Non c'è la certezza, ma il sospetto è forte e serio. E qualcuno ne è convinto tanto da averci lasciato in redazione un anonimo appunto. Si chiamava Giovanni Marino, sessantenne, maresciallo dell'Aeronautica, originario di Corleone. Il 29 luglio del 2008, quando era oramai in pensione, si presentò alla base del 37° stormo di Birgi per consegnare uno scatolone e andare via. Si rimise sulla sua auto, imboccò l'autostrada per Palermo, alla prima piazzola di sosta si fermò, scese dall'auto e si uccise. Un colpo di pistola alla tempia, un automobilista di passaggio diede l'allarme notando l'auto ferma e vicino un corpo disteso a terra, dentro la cunetta. Cosa c'entra Giovanni Marino con Ustica? C'entra quanto pare qualcosa. Voci non confermate dicono che lui nel giugno 1980 era in servizio al centro radar di Marsala. Certamente è stato in servizio al «centro di ascolto» di Prizzi, base dipendente sempre dal 37° Stormo, centro attrezzato ad avere occhi ed orecchie giuste per guardare ciò che accade sopra i nostri cieli. I fatti anomali sono diversi: all'autorità giudiziaria, Procura di Trapani, che indagò sul suicidio, decidendo poi per l'archiviazione, nessuna autorità militare ha mai riferito la circostanza che Marino aveva lavorato in questi due centri. Potevano essere elementi indispensabili per risalire al perché di quel gesto liquidato come frutto di una crisi personale. Crisi personale che è negata ancora oggi da alcuni familiari che però chiedono silenzio sul dramma che ancora vivono. Eppure chi c'era quel giorno del 2008 ricorda anche che il suicidio di Marino a pochi metri dalla base di Birgi scatenò una serie di movimenti di alti ufficiali. Si potrebbe dire che fu determinato dalla paura di cosa poteva contenere quello scatolone lasciato da Marino alla base prima di uccidersi. Ma cosa c'era dentro? Carte, accertò la magistratura, ma c'erano solo carte o poteva esserci anche qualcos'altro fatto sparire prima della consegna all'autorità giudiziaria? Nastri per esempio. Dicevamo, per i suoi familiari niente fece presagire l'insano gesto del maresciallo, ma a qualche investigatore da militari dell'Aeronautica sarebbe stato fatto cenno ad un «esaurimento nervoso» dell'ex sottufficiale. Una malattia che conoscevano solo loro, sebbene lui in caserma non andava più da qualche tempo.
La Sicilia, 25/07/2010

Termini Imerese è sempre stata una scelta sbagliata.

L'assoluta incertezza su quello che sarà il futuro dello stabilimento FIAT di Termini Imerese, mi ha stimolato a rileggere l'intervento che,da consigliere, ho svolto in aula, quando il 21/11/2002, il Consiglio Comunale di Cefalù si occupò della CRISI DELLO STABILIMENTO FIAT DI TERMINI IMERESE. Nel 2010 nulla è cambiato rispetto al 2002.

Dopo una stentata sopravvivenza di otto anni la questione si è riproposta, e si propone, negli stessi termini di allora. Avendo riletto quel mio intervento del 2002 lo ripropongo.
A mio giudizio è di estrema attualità. A quella seduta era presente il Vescovo di Cefalù Mons. Francesco Sgalambro ed una nutritissima rappresentanza dei lavoratori FIAT di Termini Imerese. Eccellenza Reverendissima,
Signori che lavorate alla Fiat di Termini Imerese, Signora Sindaco,Signor Presidente, Signori consiglieri, Mai come in questa circostanza mi sono sentito, come cittadino e come consigliere comunale, piccolo, inadeguato ed impotente rispetto alla soluzione di un problema, così grande e complesso, quale è quello della crisi dello stabilimento FIAT di Termini Imerese.
Ciò non perché, qualcuno abbia chiesto a noi consiglieri comunali di Cefalù, di svolgere un qualsiasi ruolo nella soluzione del dramma che grava, anche, su tante famiglie cefaludensi, ma perché mi sono chiesto cos’altro il Consiglio possa fare oltre a stendere un documento dal contenuto più o meno scontato, da inviare a quanti hanno il potere di concertare una soluzione e magari da diffondere sugli organi d’informazione. Un documento votato all’unanimità con il quale,
oltre ad esprimere i segni della nostra solidarietà verso i lavoratori che vedono minacciato il loro posto di lavoro il Consiglio formuli gli auspici per una soluzione positiva della vicenda.

Sono convinto che, nelle giuste sedi, una soluzione che possa evitare la chiusura a breve termine dello stabilimento verrà trovata.
Una soluzione, a mio giudizio, tampone, che consentirà ai lavoratori che per primi sono stati assunti nello stabilimento di concludere la loro vita lavorativa per maturare il diritto alla pensione. E’, invece, sulle prospettive a lungo termine che la partita da giocare, a mio giudizio, è difficilissima. E non soltanto, per lo stabilimento FIAT ma per il destino di tutta quell’area che sarebbe dovuta diventare il “Polo industriale di Termini Imerese” con il fiore all’occhiello costituito da quella “Chimica del Mediterraneo” che, come ci ricordò per tanto tempo un cartello, fu soltanto “La comica del Mediterraneo” Quell’area verso la quale, ogni qualvolta viaggiamo da e per Palermo,
va inevitabilmente il nostro sguardo. Quell’area la cui vista, per quanto ormai abituale, desta sempre, in chi la guarda, una profonda angoscia che scuote la coscienza. Quanto danaro sperperato per una scelta di sviluppo errata! Quante illusioni svanite in quella sinistra immagine di scheletri di strutture allineate che si frappongono alla vista del mare!

Laddove, sino a quaranta anni addietro, fertili campi coltivati davano lavoro che permetteva di vivere, senza sprazzi ma dignitosamente, a tante famiglie, oggi soltanto degrado, abbandono, devastazione! Non sono un analista economico in grado di esaminare le cause della crisi dello stabilimento Fiat, però, al riguardo, ho qualche convincimento. Nei giorni scorsi, sono stato per qualche ora, tra gli operai che presidiano l’ingresso principale dello stabilimento,
ed ascoltando quanto dicevano tra loro con uno stato d’animo pervaso dalla preoccupazione per il futuro delle loro famiglie,
ho avuto modo di capire che secondo loro le cause della crisi sono le stesse di quelle diffuse dai “mass media” :

• l’eccessivo costo del lavoro;
• la mancanza da parte della dirigenza FIAT di investimenti nella ricerca per migliorare la competitività del prodotto sul mercato internazionale;
• la crisi dell’automobile nel mercato aperto della globalizzazione.

L’uno e le altre insieme, come dicono tutti,
ma a mio giudizio, anche, una ragione di fondo :

l’idea originaria con la quale venne progettato uno stabilimento per assemblare autoveicoli con componenti, che salve pochissime eccezioni, vengono prodotte lontanissimo dallo stabilimento.

Un handicap che sommato ad una innegabile arretratezza dal punto di vista tecnologico,
ha finito col determinare nel prezzo e nella qualità del prodotto finito un “gap” che ha tolto competitività sul mercato, non soltanto alla PUNTO che viene assemblata a Termini Imerese, ma a tutte le autovetture prodotte nel territorio nazionale.

Un handicap cui, in futuro, difficilmente potrà ovviarsi
a meno che la dirigenza non decida di cambiare la strategia produttiva dell’impianto di T.I. con massicci investimenti che, oggi, non sono giustificati dall’andamento del mercato dell’automobile nell’intero globo nè compatibili con il bilancio economico della FIAT AUTO.

Una nuova strategia produttiva dello stabilimento di T.I. inserita in un nuovo piano industriale esteso all’intera azienda per consentire alla Fabbrica Italiana Automobili di Torino di continuare a produrre autoveicoli.
Un nuovo piano industriale cui la dirigenza FIAT continua a resistere nonostante le sollecitazioni di quasi tutti i leaders politici nazionali dal vicepremier Fini, al segretario del più forte partito di opposizione Fassino.

Questo per così dire il peccato originale, la ragione di fondo per la quale, a mio modesto giudizio, e lo dico con la speranza di sbagliarmi, non vi sono, a lungo termine, concrete prospettive di vita per lo stabilimento di Termini Imerese.

Lo stabilimento Fiat, l’intera area che avrebbe dovuto promuovere lo sviluppo in prossimità dello snodo autostradale più importante della Sicilia e dell’interporto di Termini Imerese, nel cuore della Sicilia settentrionale, non sono, secondo me, come la Sagunto di sallustiana memoria, non sono cioè come quella città che veniva espugnata mentre a Roma si discuteva di cui alla famosa frase “dum Romae consulitur Saguntum expugnatur”.

Lo stabilimento Fiat e quell’intera area nel cui ambito lo stesso ricade sono stati già espugnati.

Ed oggi che cominciamo a ragionare in termini di Ambiti Territoriali Ottimizzati, Termini Imerese e tutti gli altri Comuni del circondario devono pretendere che a Palermo, a Roma ed in tutte le sedi istituzionali “consulitur” si discuta.

perchè con provvedimenti speciali, con una legge speciale quell’area che è stata disastrata in nome di uno sviluppo industriale che il tempo ha dimostrato effimero e velleitario dopo la bonifica ed il recupero ambientale di cui abbisogna, non foss’altro perché indegno contraltare delle vestigia del tempio di dell’antica HIMERA possa ritornare ad essere produttiva, con investimenti pubblici e privati che diano sbocchi occupazionali, in settori diversi, (perché no, il turismo),
più consoni alle caratteristiche, alla posizione geografica ed alla natura di quei luoghi,
più consoni agli indirizzi di studio e di formazione professionale che i giovani, in numero crescente di anno in anno, scelgono per il loro inserimento nel mondo del lavoro.

(Saro Di Paola, consiglio comunale del 21/11/2002, punto all’o.d.g., CRISI DELLO STABILIMENTO FIAT di Termini Imerese)

mercoledì 21 luglio 2010

Il nuovo indulto in carcere: 593 suicidi in 10 anni

Negli ultimi dieci anni nelle carceri italiane sono morte 1.702 persone. Di queste, 593 per suicidio. Un flusso costante che non accenna alcuna battuta d’arresto. Un dato allarmante che solleva una domanda: quali sono le condizioni dei detenuti negli istituti di pena? Qualche numero e la risposta è presto detta: in Italia ci sono circa duecento strutture carcerarie e il numero totale dei posti sui quali si può contare è di 37.742. I detenuti, però, sono 67.601. A mancare quindi, non sono soltanto i posti in cella, ma anche i tempi per l’attuazione di un provvedimento che risolva la situazione. E’ per questo che il senatore Luigi Compagna (Pdl) ha presentato alla Commissione Giustizia di Palazzo Madama un ddl sulla concessione di amnistia e d’indulto. "Non si è riusciti finora a varare provvedimenti che rendessero meno disumane le condizioni delle nostre carceri. Esse vivono un dramma che le pone al di fuori di ogni principio della Carta dei diritti dell'uomo", è l’allarme lanciato dall’esponente della maggioranza.

Dunque, senatore Compagna, le carceri italiane stanno per "esplodere"?

Nel corso di questa legislatura il ministro della Giustizia Alfano aveva informato il Parlamento della condizione drammatica dei nostri istituti carcerari, provando anche a intraprendere la strada di un provvedimento alla Camera: il cosiddetto "svuota-carceri". Però la rigida opposizione in Commissione Giustizia, da parte soprattutto della capogruppo del Pd Donatella Ferranti, aveva portato anche questo provvedimento ad un binario morto. Da qui la necessità di richiamare l’attenzione dei colleghi al nostro diritto-dovere di occuparci della questione.

Ma il capogruppo Maurizio Gasparri e il viceministro alle infrastrutture Roberto Castelli hanno subito gridato "no all’amnistia".

Guardi, mi rendo conto di tutte le obiezioni. E credo che quelle di Castelli e Gasparri non siano del tutto improprie. Però la condizione delle carceri, di quelli che ci lavorano e dei detenuti è diventata talmente drammatica che è difficile rimanere insensibili a quello che ormai è un vero e proprio grido di dolore e disperazione. Ma le dirò di più. Credo che le obiezioni dei colleghi e amici restituiscano vigore ad un tema sempre più critico che deve essere risollevato.

In cosa consiste la sua proposta di legge?

E’ un disegno di legge di concessione di amnistia e indulto d’ "impianto tradizionale": lo definisco come tale perché quella dell’amnistia è una tradizione che si è interrotta ormai da una ventina d’anni. Da quando cioè, in seguito ad un appello dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, il Parlamento decise di intervenire in questa materia fissando il quorum necessario alla deliberazione dell’amnistia in una maggioranza di due terzi.

Cosa è successo da allora?

Quella dei due terzi è una maggioranza molto difficile da raggiungere. Perciò siamo passati dall’abuso degli "istituti di clemenza", che prevedevano almeno un’amnistia per ogni legislatura, ad un altro di circa vent’anni nel quale non ce n’è stata neppure una. Ricordo solo, nel 2003, le sollecitazioni di Papa Wojtyla, alle quali seguì poi l’indulto durante il governo Prodi: un provvedimento però molto contraddittorio.

Quali sono le esigenze più urgenti?

La questione più drammatica è senza dubbio il sovraffollamento delle strutture. Lo stesso Castelli, che muove obiezioni nei miei confronti, riconosce tutti i dati che fornisco nella mia relazione: e cioè che il carcere non serve solo per la pena detentiva, bensì anche per la custodia cautelare, che le strutture non sono adeguate e che in alcuni casi in una sola cella ci sono otto detenuti. C’è chi sostiene che bisogna costruire più carceri, ma il famoso "piano carceri" presentato da Matteoli e da Alfano non sembra attuabile.

Qual è il problema del "piano carceri"?

Non voglio certo drammatizzare. Ma i tempi di realizzazione di strutture adeguate non vanno d’accordo con quelli estremamente più rapidi con cui apprendiamo di suicidi dovuti a casi di mala detenzione.

Quali sono le strutture più problematiche?

I casi peggiori si ravvisano soprattutto nel Mezzogiorno. Comunque anche il carcere romano di Rebibbia riversa in una situazione drammatica. Il mese scorso ad esempio, visitai il carcere, e il personale manifestava grande preoccupazione per l’arrivo del caldo: dicevano che la tensione all’interno della struttura era latente.

A chi deve essere data per prima l'amnistia tra le tipologie di detenuti?

Secondo me ci sono ricorsi alla custodia cautelare del tutto voluttuari. Da questo punto di vista il disegno di legge Alfano, che prevedeva di non scontare in carcere l’ultimo anno di detenzione, qualche respiro lo offriva. Purtroppo si è arenato alla Camera.

In italia ci sono circa 68 mila detenuti. Di questi, oltre 14 mila sono in attesa di giudizio…

Ho l’impressione che ci sia il ritorno ad un uso-abuso del ricorso alla custodia cautelare degno dei tempi del peggior Borrelli-D’Ambrosio a Milano. Facciamo un esempio: si può mettere in carcere gente di oltre settant’anni? Credo che da questo punto di vista una discussione debba ripartire.

Chi esce dal carcere però, dovrà essere "reinserito" in qualche modo. Non crede?

Esistono una serie di organismi meritori che favoriscono il reinserimento: tanto per citarne uno, la Croce Rossa. Sicuramente non è ancora sufficiente, ma il Parlamento serve a porre problemi e a confrontare opinioni diverse cercando di trovare le priorità e soprattutto la compatibilità fra gli aspetti delle varie questioni. Intanto, ho provveduto a gettare la palla in campo, come si dice, per risollevare una questione urgente. La mia non è una proposta ultimativa: appartengo ad una classe politica e a un costume che prevede il ragionamento. Io stesso, in passato, mi sono opposto a provvedimenti di amnistie annunciate, ma stavolta l’incalzare delle cifre ci pone di fronte un problema più serio: oggi nelle nostre carceri c’è almeno il doppio dei detenuti previsti.

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