Uguaglianza davanti alla legge e nei diritti, connesse al sorgere dello stato liberale, non hanno a che fare con l’egualitarismo democratico che si estende sino a perseguire l’ideale di un certo eguagliamento economico, estraneo al pensiero liberale. Rispetto dunque ai vari significati di uguaglianza le due tradizioni sono destinate a non incontrarsi. La democrazia si può considerare come naturale sviluppo dello stato liberale soltanto se presa dal lato della sua formula politica caratterizzata dal riconoscimento della sovranità popolare, ovvero dalla massima estensione dei diritti politici fino al limite ultimo del suffragio universale. Quest’ultimo è stato criticato da molti scrittori liberali pur non essendo in linea di principio contrario né allo stato minimo né allo stato di diritto; vi sono al contrario buone ragioni per credere che oggi il metodo democratico sia necessario per la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona e che d’altro canto la salvaguardia di suddetti diritti sia necessaria per il corretto funzionamento del metodo democratico. Infatti la maggiore garanzia di protezione dei diritti dal tentativo di limitazione da parte dei governanti sta nella possibilità che i cittadini hanno di difenderli e il migliore, anche se non per questo infallibile, rimedio contro ogni abuso di potere è la partecipazione del maggior numero di cittadini alla formazione delle leggi. Sotto questo aspetto i diritti politici sono un completamento naturale dei diritti di libertà e civili, garantendo quelli la salvaguardia di questi che, in uno stato non fondato sulla sovranità popolare, sono difesi unicamente dal diritto naturale di resistenza all’oppressione. D’altra parte la partecipazione al voto può essere considerata come corretto e efficace esercizio di un potere politico soltanto se si svolge liberamente e ciò avviene solo se il votante gode della libertà di opinione, di associazione, di riunione, di stampa, che costituiscono l’essenza dello stato liberale e che fungono da presupposti necessari affinchè la partecipazione sia reale. Oggi soltanto gli stati nati da rivoluzioni liberali sono democratici e soltanto gli stati democratici proteggono i diritti dell’uomo, a testimonianza del progressivo intrecciarsi di ideali liberali e metodi democratici.
L’individualismo, base comune e terreno di scontro
Il nesso reciproco tra democrazia e liberalismo è reso possibile dalla comunanza del punto di partenza: l’individuo. Il pensiero politico è infatti dominato dalla grande dicotomia organicismo/individualismo: si può, pur con una certa approssimazione, affermare che l’organicismo è antico mentre l’individualismo è moderno; il primo considera lo stato come un corpo composto di parti che concorrono alla vita del tutto, non attribuendo alcuna autonomia agli individui, il secondo considera invece lo stato come insieme di individui, risultato della loro attività e dei rapporti che essi stabiliscono tra loro. Per l’organicismo, ovviamente, secondo la formulazione aristotelica "la città è per natura anteriore all’individuo", Hobbes, invece, ipotizza uno stato di natura formato da individui separati dal loro egoismo costretti ad unirsi per sfuggire al reciproco annientamento. Il capovolgimento del punto di partenza è fondamentale per il pensiero politico moderno: per il liberalismo una concezione organica di uno stato superiore alle parti non può concedere spazio a nulla che sia indipendente dal tutto, non conosce distinzione tra pubblico e privato e non giustifica la sottrazione di interessi individuali, soddisfatti nel mercato, al supremo interesse pubblico; per la democrazia, che si fonda su una concezione ascendente del potere, l’organicismo, che si fonda su una concezione discendente, si ispira a modelli autocratici di governo.
Tuttavia l’individuo del pensiero liberale non è lo stesso di quello della democrazia. Individualismo non significa certo considerare l’uomo come essere isolato, ma i rapporti tra individuo e società possono essere valutati in modo diverso. Così il liberalismo recide l’individuo dal tutto dell’organicismo e lo fa vivere in gran parte fuori dal "grembo materno", inserendolo in un mondo pieno di pericoli in cui deve lottare per la sopravvivenza, la democrazia lo congiunge invece ad altri uomini perché la società venga ricomposta dalla loro unione non più come un tutto organico, ma come un’associazione di liberi individui. Inoltre il liberalismo mette in evidenza nell’individuo la capacità di autoformarsi, di progredire in condizioni di massima libertà; la democrazia esalta soprattutto la capacità di superare l’isolamento con vari accorgimenti che portano al costituirsi di un potere comune non tirannico. L’uno guarda la faccia dell’individuo volta all’interno, l’altra quella volta all’esterno creando due individui evidentemente diversi: microcosmo in se compiuto il primo, particella indivisibile ma variamente componibile in un’unità artificiale il secondo. I due individualismi nascono del resto attraverso processi diversi: per graduale erosione della totalità e il secondo per interna dissoluzione dell’unità globale. Il primo processo porta alla progressiva riduzione della sfera d’azione del potere pubblico, il secondo lo ricostruisce, ma come somma di poteri particolari, ricostruzione evidente nel contrattualismo che fonda lo stato su un istituto tipico del diritto privato quale è il contratto.
Liberali e democratici fra Seicento e Ottocento
La teoria e la prassi moderna dello stato liberale ebbero inizio nel Seicento inglese dove la rivoluzione puritana aprì la strada a tutte le idee di libertà e affermò la superiorità del parlamento sul re; la dottrina della separazione dei poteri ispirò Montesquieu e attraverso di lui il costituzionalismo americano e europeo. Anche l’idea della massima estensione del suffragio, caposaldo dell’ideale democratico moderno, ebbe la sua prima affermazione in quegli anni grazie ai Levellers (i Livellatori). Inoltre soltanto in Inghilterra, a partire dalla seconda rivoluzione (1688) il passaggio dalla monarchia costituzionale a quella parlamentare avvenne per interna evoluzione, senza scosse violente. In Francia il processo di democratizzazione fu molto più travagliato e il rapido passaggio dalla repubblica giacobina all’impero napoleonico suscitò forti sentimenti liberali antidemocratici che produssero il famoso luogo comune secondo cui democrazia e tirannia sono due facce della stessa medaglia.
In base al diverso modo di vivere il rapporto tra liberalismo e democrazia nel corso dell’Ottocento si creò un liberalismo radicale, liberale e democratico, contrapposto a uno conservatore, liberale ma non democratico. Allo stesso modo all’interno del movimento democratico vi furono democratici liberali e non liberali, interessati più alla distribuzione del potere che alla sua limitazione; questi ultimi si troveranno più vicini ai primi movimenti socialisti, anche se spesso in un rapporto di concorrenza come avverrà in Italia ai mazziniani.
Schematicamente il rapporto tra liberalismo e democrazia può essere dunque raffigurato secondo tre combinazioni: liberalismo e democrazia possono cioè essere compatibili e compossibili, antitetici oppure essere legati necessariamente secondo un rapporto rispettivamente di possibilità, impossibilità o necessità. Allo stesso modo si può rappresentare anche il rapporto tra democrazia e socialismo.
Tocqueville e Mill: la tirannia della maggioranza
L’ala più conservatrice del liberalismo europeo si riscontra nel pensiero di Alexis de Tocqueville, autore della Democrazia in America, che, nel secolo scorso, dedicò anni di studio alla democrazia di una società nuova e proiettata verso il futuro come quella americana. Egli era convinto che la libertà religiosa e morale fosse il fondamento del vivere civile, ma comprendeva che il suo tempo correva inesorabilmente verso la democrazia; per questa ragione, osservata negli Stati Uniti "l’immagine della democrazia stessa", egli si chiese come e se potesse sopravvivere la libertà in un regime democratico. Secondo il liberale francese il maggior rischio della democrazia come forma di governo che prospetta una partecipazione di tutti alla vita pubblica consiste nella tirannide della maggioranza e il pericolo che corre in quanto attuazione dell’ideale egualitario è il livellamento il cui sbocco finale è il dispotismo: entrambe le situazioni sono evidentemente la negazione della libertà. Il principio di maggioranza è egualitario dal momento che pretende di far valere la forza del numero su quella del singolo nella convinzione che vi sia più saggezza nel numero che nella qualità dei legislatori. L’onnipotenza della maggioranza ha per effetto tuttavia l’instabilità del legislativo, le decisioni spesso arbitrarie dei funzionari, il conformismo delle opinioni e l’assenza di uomini ragguardevoli sulla scena politica. Per un liberale come Tocqueville il potere è sempre negativo e li problema principale non riguarda l’identità del detentore di suddetto potere quanto il modo per controllarlo e limitarlo: il buon governo non si giudica dal numero delle persone che lo possiedono ma dal numero delle cose che è loro lecito fare. Egli sente avvicinarsi, nell’ultima parte della sua opera, il momento in cui la democrazia si rovescia nel suo contrario perché porta in sé un nuovo dispotismo sotto forma di un governo accentrato e onnipresente e cerca di proporre dei rimedi che sono quelli classici della tradizione liberale: la difesa di alcune libertà individuali e dell’individuo in genere spesso messo in secondo piano in nome dell’interesse collettivo, li rispetto dell’uguaglianza di fronte al diritto e il decentramento. Partendo da questa posizione Tocquevile, ovviamente, non potè mai trovarsi vicino al socialismo in cui vedeva l’attuazione di quello stato collettivista che sottraeva all'uomo la libertà, sostenendo che esso aveva in comune con la democrazia solo l’ideale dell’uguaglianza, ma, mentre la democrazia vuole l’uguaglianza nella libertà, il socialismo la vuole nella servitù.
Il contemporaneo John Stuart Mill fu invece esponente dell’ala del liberalismo più vicina al pensiero democratico considerando la democrazia come naturale sviluppo dei principi liberali. Richiamandosi alla filosofia utilitaristica di Bentham, egli non fondò la dottrina dei limiti del potere politico sull’esistenza di diritti naturali, che Bentham aveva aspramente criticato formulando il principio di utilità secondo cui il criterio su cui si deve basare il legislatore è quello della maggior felicità per il maggior numero, ma sulla convinzione obiettiva che se tali limiti devono esistere è solo in considerazione del fatto che gli uomini desiderano il piacere e fuggono il dolore. L’utilitarismo in base a tale concezione origina una morale che si preoccupa non dell’utilità dell’individuo isolato, ma dell’utilità sociale. Sulla scia del pensiero liberale l’utlitaristà Mill parla di libertà negativa, pertanto egli deve stabilire entro quali limiti sia concessa l’azione del potere pubblico e l’ambito in cui gli individui possano agire indisturbati; Mill sostiene dunque che " il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civile, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri.
L’individualismo, base comune e terreno di scontro
Il nesso reciproco tra democrazia e liberalismo è reso possibile dalla comunanza del punto di partenza: l’individuo. Il pensiero politico è infatti dominato dalla grande dicotomia organicismo/individualismo: si può, pur con una certa approssimazione, affermare che l’organicismo è antico mentre l’individualismo è moderno; il primo considera lo stato come un corpo composto di parti che concorrono alla vita del tutto, non attribuendo alcuna autonomia agli individui, il secondo considera invece lo stato come insieme di individui, risultato della loro attività e dei rapporti che essi stabiliscono tra loro. Per l’organicismo, ovviamente, secondo la formulazione aristotelica "la città è per natura anteriore all’individuo", Hobbes, invece, ipotizza uno stato di natura formato da individui separati dal loro egoismo costretti ad unirsi per sfuggire al reciproco annientamento. Il capovolgimento del punto di partenza è fondamentale per il pensiero politico moderno: per il liberalismo una concezione organica di uno stato superiore alle parti non può concedere spazio a nulla che sia indipendente dal tutto, non conosce distinzione tra pubblico e privato e non giustifica la sottrazione di interessi individuali, soddisfatti nel mercato, al supremo interesse pubblico; per la democrazia, che si fonda su una concezione ascendente del potere, l’organicismo, che si fonda su una concezione discendente, si ispira a modelli autocratici di governo.
Tuttavia l’individuo del pensiero liberale non è lo stesso di quello della democrazia. Individualismo non significa certo considerare l’uomo come essere isolato, ma i rapporti tra individuo e società possono essere valutati in modo diverso. Così il liberalismo recide l’individuo dal tutto dell’organicismo e lo fa vivere in gran parte fuori dal "grembo materno", inserendolo in un mondo pieno di pericoli in cui deve lottare per la sopravvivenza, la democrazia lo congiunge invece ad altri uomini perché la società venga ricomposta dalla loro unione non più come un tutto organico, ma come un’associazione di liberi individui. Inoltre il liberalismo mette in evidenza nell’individuo la capacità di autoformarsi, di progredire in condizioni di massima libertà; la democrazia esalta soprattutto la capacità di superare l’isolamento con vari accorgimenti che portano al costituirsi di un potere comune non tirannico. L’uno guarda la faccia dell’individuo volta all’interno, l’altra quella volta all’esterno creando due individui evidentemente diversi: microcosmo in se compiuto il primo, particella indivisibile ma variamente componibile in un’unità artificiale il secondo. I due individualismi nascono del resto attraverso processi diversi: per graduale erosione della totalità e il secondo per interna dissoluzione dell’unità globale. Il primo processo porta alla progressiva riduzione della sfera d’azione del potere pubblico, il secondo lo ricostruisce, ma come somma di poteri particolari, ricostruzione evidente nel contrattualismo che fonda lo stato su un istituto tipico del diritto privato quale è il contratto.
Liberali e democratici fra Seicento e Ottocento
La teoria e la prassi moderna dello stato liberale ebbero inizio nel Seicento inglese dove la rivoluzione puritana aprì la strada a tutte le idee di libertà e affermò la superiorità del parlamento sul re; la dottrina della separazione dei poteri ispirò Montesquieu e attraverso di lui il costituzionalismo americano e europeo. Anche l’idea della massima estensione del suffragio, caposaldo dell’ideale democratico moderno, ebbe la sua prima affermazione in quegli anni grazie ai Levellers (i Livellatori). Inoltre soltanto in Inghilterra, a partire dalla seconda rivoluzione (1688) il passaggio dalla monarchia costituzionale a quella parlamentare avvenne per interna evoluzione, senza scosse violente. In Francia il processo di democratizzazione fu molto più travagliato e il rapido passaggio dalla repubblica giacobina all’impero napoleonico suscitò forti sentimenti liberali antidemocratici che produssero il famoso luogo comune secondo cui democrazia e tirannia sono due facce della stessa medaglia.
In base al diverso modo di vivere il rapporto tra liberalismo e democrazia nel corso dell’Ottocento si creò un liberalismo radicale, liberale e democratico, contrapposto a uno conservatore, liberale ma non democratico. Allo stesso modo all’interno del movimento democratico vi furono democratici liberali e non liberali, interessati più alla distribuzione del potere che alla sua limitazione; questi ultimi si troveranno più vicini ai primi movimenti socialisti, anche se spesso in un rapporto di concorrenza come avverrà in Italia ai mazziniani.
Schematicamente il rapporto tra liberalismo e democrazia può essere dunque raffigurato secondo tre combinazioni: liberalismo e democrazia possono cioè essere compatibili e compossibili, antitetici oppure essere legati necessariamente secondo un rapporto rispettivamente di possibilità, impossibilità o necessità. Allo stesso modo si può rappresentare anche il rapporto tra democrazia e socialismo.
Tocqueville e Mill: la tirannia della maggioranza
L’ala più conservatrice del liberalismo europeo si riscontra nel pensiero di Alexis de Tocqueville, autore della Democrazia in America, che, nel secolo scorso, dedicò anni di studio alla democrazia di una società nuova e proiettata verso il futuro come quella americana. Egli era convinto che la libertà religiosa e morale fosse il fondamento del vivere civile, ma comprendeva che il suo tempo correva inesorabilmente verso la democrazia; per questa ragione, osservata negli Stati Uniti "l’immagine della democrazia stessa", egli si chiese come e se potesse sopravvivere la libertà in un regime democratico. Secondo il liberale francese il maggior rischio della democrazia come forma di governo che prospetta una partecipazione di tutti alla vita pubblica consiste nella tirannide della maggioranza e il pericolo che corre in quanto attuazione dell’ideale egualitario è il livellamento il cui sbocco finale è il dispotismo: entrambe le situazioni sono evidentemente la negazione della libertà. Il principio di maggioranza è egualitario dal momento che pretende di far valere la forza del numero su quella del singolo nella convinzione che vi sia più saggezza nel numero che nella qualità dei legislatori. L’onnipotenza della maggioranza ha per effetto tuttavia l’instabilità del legislativo, le decisioni spesso arbitrarie dei funzionari, il conformismo delle opinioni e l’assenza di uomini ragguardevoli sulla scena politica. Per un liberale come Tocqueville il potere è sempre negativo e li problema principale non riguarda l’identità del detentore di suddetto potere quanto il modo per controllarlo e limitarlo: il buon governo non si giudica dal numero delle persone che lo possiedono ma dal numero delle cose che è loro lecito fare. Egli sente avvicinarsi, nell’ultima parte della sua opera, il momento in cui la democrazia si rovescia nel suo contrario perché porta in sé un nuovo dispotismo sotto forma di un governo accentrato e onnipresente e cerca di proporre dei rimedi che sono quelli classici della tradizione liberale: la difesa di alcune libertà individuali e dell’individuo in genere spesso messo in secondo piano in nome dell’interesse collettivo, li rispetto dell’uguaglianza di fronte al diritto e il decentramento. Partendo da questa posizione Tocquevile, ovviamente, non potè mai trovarsi vicino al socialismo in cui vedeva l’attuazione di quello stato collettivista che sottraeva all'uomo la libertà, sostenendo che esso aveva in comune con la democrazia solo l’ideale dell’uguaglianza, ma, mentre la democrazia vuole l’uguaglianza nella libertà, il socialismo la vuole nella servitù.
Il contemporaneo John Stuart Mill fu invece esponente dell’ala del liberalismo più vicina al pensiero democratico considerando la democrazia come naturale sviluppo dei principi liberali. Richiamandosi alla filosofia utilitaristica di Bentham, egli non fondò la dottrina dei limiti del potere politico sull’esistenza di diritti naturali, che Bentham aveva aspramente criticato formulando il principio di utilità secondo cui il criterio su cui si deve basare il legislatore è quello della maggior felicità per il maggior numero, ma sulla convinzione obiettiva che se tali limiti devono esistere è solo in considerazione del fatto che gli uomini desiderano il piacere e fuggono il dolore. L’utilitarismo in base a tale concezione origina una morale che si preoccupa non dell’utilità dell’individuo isolato, ma dell’utilità sociale. Sulla scia del pensiero liberale l’utlitaristà Mill parla di libertà negativa, pertanto egli deve stabilire entro quali limiti sia concessa l’azione del potere pubblico e l’ambito in cui gli individui possano agire indisturbati; Mill sostiene dunque che " il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civile, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri.
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