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giovedì 17 febbraio 2011

Voltaire e la Rivoluzione Francese


Pessimismo e ottimismo

Mentre Montesquieu si dedica ad esaminare le leggi che hanno caratterizzato le varie epoche della storia umana, Voltaire rifiuta questo atteggiamento, il quale ha il solo scopo di trovare un senso alle forme politiche nell'ambito esclusivo delle circostanze variabili in cui si collocano.
Voltaire esige che le leggi derivino da una ragione assoluta e libera da condizionamenti, per cui l'obiettivo finale da lui indicato è la creazione di una nuova società, plasmata sui principi del secolo dei lumi. Egli dunque non può che rivolgersi pessimisticamente alla storia passata, dal momento che essa si è articolata come affermazione progressiva dell'assurdità, della superstizione e del rifiuto della ragione. Gli unici passi avanti che Voltaire registra si limitano all'età antica, mentre a partire dall'avvento del Cristianesimo non riesce a scorgere altro che sfacelo. E' chiaro come questa visione essenzialmente negativa si opponga al relativismo di Montesquieu, che rintraccia il valore di ogni struttura della vita umana a partire dalla sua efficacia o meno rispetto al contesto; naturalmente questo avviene perché Montesquieu non ha parametri assoluti sulla base dei quali dare giudizi di valore.
Per Voltaire è la ragione ha il compito di sovrintendere alla storia, così come è dal valore intrinseco ad essa che deve partire la valutazione delle forme che ha assunto la vita collettiva dell'uomo.
Nondimeno, l'uomo di Voltaire non può che gioire e provare sollievo al vedere rifiutato ciò che appartiene al passato, nella misura in cui quest'atto segna la fine della rassegnazione, l'inizio della liberazione dal pregiudizio.

La Rivoluzione Francese adotta entrambi questi punti di vista: da un lato essa critica negativamente il passato, dall'altro si volge con fiducia al futuro.
Tale fiducia deriva in Voltaire dalla certezza che, da quel momento, sarà la ragione a dettar legge in campo politico e sociale. La ragione salirà al potere in quanto legittima sovrana della storia: saranno i filosofi a governare, a illuminare ciò che ancora è nelle tenebre e a inaugurare la nuova era che si apre all'umanità.
In questo auspicio operativo si può scorgere il preludio di una svolta interna alla cultura illuministica: non più ragione volta alla critica di ciò che è stato, ma anche progettualità in vista dell'avvenire; la ragione è pronta a trasformarsi in passione, ovvero in stimolo all'azione per il bene dell'umanità.

Voltaire rivoluzionato

Un quesito resta però insoluto da parte dell'autore del Candide, o almeno la risposta che ad esso è attribuita non può soddisfare pienamente il movimento rivoluzionario: chi ha il diritto legittimo di fare le leggi?
Un problema molto simile era sorto a proposito del pensiero di Montesquieu: anche un quel caso non si indicava con chiarezza l'identità del legislatore e ci si limitava a spiegare la genesi delle leggi a partire da concrete variabili storiche.

Per Voltaire sono gli uomini illuminati, cioè i filosofi, ad avere il diritto di formulare le leggi, in quanto più vicini alla verità dettata dalla ragione assoluta; in questa affermazione si trova il fondamento di quanto stava avvenendo un po' in tutto il Vecchio Continente, dove i filosofi erano impegnati a intervenire sull'opera legislativa consigliando a vario titolo i sovrani riformisti.
Ma il compito precipuo dei filosofi resta quello della direzione dell'opinione pubblica non ancora sufficientemente "razionale"; non si tratta solo di influenzare le masse, bensì di istruire quelli che sono in grado di ragionare, insegnando loro la riflessione individuale, la critica della situazione presente, la comprensione del vero bene al di là delle ambizioni meschinamente private.
Quella degli uomini illuminati è tuttavia destinata a restare un'èlite di pochi adepti, in quanto per il bene dell'umanità è meglio tenere separati gli intelligenti dalla maggioranza degli idioti. Per usare le parole del filosofo:

E' giusto che il popolo sia guidato, non istruito; non è degno di esserlo.

O ancora: Per popolo io intendo la massa che ha solo le braccia per vivere. Dubito che quest'ordine di cittadini abbia mai il tempo o la capacità di istruirsi; morirebbero di fame prima di diventare filosofi.

(dalle lettere a Damilaville)

E' questo il punto di vista più diffuso fino all'inizio della Rivoluzione Francese. Già dai mesi che precedono l'elezione dei rappresentanti del terzo stato agli Stati Generali del 1789, tuttavia, quello che Voltaire chiama popolo rivendica per sé il diritto di intervenire nelle vicende politiche francesi: le assemblee locali alimentano il dibattito e vengono a crearsi gruppi di opinione con una base popolare più o meno radicata; la stessa pratica dei Cahiers de doleance contribuisce a creare consapevolezza politica: proprio per questo il popolo francese, soprattutto nelle città e in massimo grado e a Parigi, giunge carico di aspettative alla data di apertura degli Stati Generali.
Nel corso della Rivoluzione il problema assume però dimensioni imprevedibili e più direttamente connesse al funzionamento delle procedure democratiche. La logica voltaireiana di una illuminazione che procede dai ceti più alti e acculturati fino a quelli infimi, ai quali però essa giunge sotto forma di fioco barlume, deiviene inaccettabile. Non solo bisogna tener conto della pressione delle masse popolari parigine sulle vicende politiche, ma dal punto di vista istituzionale diviene improponibile la divisione del popolo in cittadini attivi (in virtù della loro consapevolezza razionale) e passivi, cioè non illuminati: è per questo che l'esperimento politico dell'Assemblea Costituente, basato su una legge elettorale censitaria, è destinato a fallire e a essere superato dall'Assemblea Legislativa e soprattutto dalla Convenzione, che finalmente ufficializzerà nella legge fondamentale dello Stato il suffragio universale.
Nel corso della Rivoluzione il problema non è insomma più quello di "chi fa le leggi migliori?" ma quello di "chi ha il diritto di fare le leggi?".
Certo la Rivoluzione, in particolare nella sua componente girondina, rivendica il diritto di tutto il popolo a essere illuminato, ma supera Voltaire nel non subordinare a tale illuminazione il diritto fondamentale alla cittadinanza attiva.
Se l'autore del Candide ha insegnato alla Rivoluzione la libertà dal pregiudizio e l'ha spinta a rivendicare il mondo nuovo che da tale libertà procede, l'eguaglianza è concetto squisitamente rousseauiano, in netto contrasto con l'idea di aristocrazia intellettuale propria di tanto Illuminismo: Rousseau e la Rivoluzione sulla sua scia chiedono che tutti godano di pari diritti, compreso quello all'esercizio della razionale consapevolezza politica universalmente posseduta dagli uomini.

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