Si potrebbe immaginare una società che consista soltanto di associazioni volontarie, una società senza Stato. Questa è la visione dell’anarchismo e l’ideale anarchico è probabilmente esistito in qualche forma da quando esistono gli stati. La teoria filosofica dell’anarchismo sostiene che, poiché gli Stati hanno una natura coercitiva e la coercizione è cosa intrinsecamente negativa, gli stati sono di per se stessi un male; da ciò consegue che essi potrebbero (e in quanto male non necessario, dovrebbero) essere eliminati e sostituiti da associazioni volontarie. Dato che la democrazia potrebbe rivelarsi il processo più desiderabile per governare tali associazioni, non è da escludere che possa essere la forma di governo prevalente in una società anarchica. Ma dal punto di vista degli anarchici, la democrazia non può riscattare lo stato. Anche se la coercizione fosse il risultato di un processo assolutamente democratico, essa rimarrebbe comunque un male in sé (e evitabile). Quindi, anche uno stato governato mediante un processo democratico è un male. In quanto tale, uno stato democratico, così come qualunque stato, non può avanzare alcun diritto sulla nostra lealtà, sul nostro sostegno o sul nostro rispetto obbligato delle sue leggi.
Non solo gli anarchici hanno elaborato una serie di vedute assai diversificate, ma spesso hanno anche dimostrato una imprecisione di pensiero che si sottrae a un’analisi sistematica. William Godwin, P.A. Kropotkin, Mikhail Bakunin, Pierre Joseph Proudhon, Emma Goldman e altri hanno tutti espresso posizioni anarchiche, ma proponendo ricette nettamente divergenti. Più di recente, il filosofo politico Robert Paul Wolff ha scritto un piccolo saggio di impostazione logico - deduttiva che si distingue per l’eccezionale rigore nella difesa dell’anarchismo. Tuttavia, le giustificazioni che egli presenta si collocano all’esterno della tradizione di pensiero anarchico. Parimenti incompatibili sono le tante e diverse visioni della società anarchica: laddove alcuni anarchici hanno sostenuto un completo individualismo, e pochi altri hanno proposto una specie di anarco - capitalismo, molti di loro hanno propugnato un comunismo globale. Se la maggior parte si è opposta al mercato, c’è stato chi, come Proudhon, ha inglobato i mercati in un sistema di relazioni contrattuali privo di uno Stato.
Malgrado tale diversità, è possibile riscontrare nel pensiero anarchico delle tematiche comuni. L’idea più caratterizzante è naturalmente suggerita dal nome stesso: an + archè, cioè senza comando. Gli anarchici tendono a concordare sul fatto che lo stato, essendo coercitivo, non è desiderabile e di conseguenza dovrebbe essere e potrebbe essere interamente sostituito da associazioni volontarie fondate su un consenso continuativo. L’avverbio interamente è ciò che distingue il vero anarchico da altri, come Robert Nozick , che si avvicinano molto all’anarchismo ma si fermano a un passo dall’abolizione totale dello Stato, conservandolo in forma ridotta al minimo. L’opposizione all’esistenza dello stato distingue anche l’anarchismo dalla disobbedienza civile o dalla decisione di non obbedire a una legge motivato da determinati principi.
Alla base dell’anarchismo si possono individuare i seguenti presupposti fondamentali:
* Nessuno è obbligato a sostenere e obbedire a uno stato cattivo. Gli anarchici riconoscono a questo proposito il ruolo svolto dal cristianesimo a favore della dimostrazione della validità di questa tesi. Mentre nel XIII secolo san Tommaso d’Aquino ribadì più volte che in alcune circostanze un cristiano aveva non solo il diritto, ma anche il dovere di resistere alla tirannia, nel XVI secolo Lutero sostenne che i cristiani dovevano obbedire anche a un governo ingiusto. Tuttavia, i conflitti religiosi del Cinquecento e del Seicento scatenati da Lutero misero tutti i cristiani nell’impossibilità di obbedire agli ordini dello Stato senza violare le proprie convinzioni di cattolici o di protestanti. In conseguenza di ciò, il pensiero cristiano si è orientato verso una riaffermazione della posizione dell’aquinate, a volte in un linguaggio anche più schietto. Nel Settecento, acquistò terreno la convinzione che se le costituzioni e le leggi fatte dall’uomo volevano essere legittime e accettabili, non dovevano violare le "leggi superiori" prescritte dalla natura e dai diritti naturali. Le rivoluzioni francese e americana hanno entrambe contribuito a legittimare l’idea che la gente ha il diritto naturale di rovesciare uno stato oppressivo. Così, quando nell’Ottocento l’anarchismo venne riformulato in un contesto moderno, la convinzione di avere il diritto morale a ribellarsi a un cattivo regime era largamente condivisa, con tutta certezza dalla maggioranza dei liberali e dei democratici. Nel Novecento il terrore, la brutalità e l’oppressione sistematica dei regimi totalitari hanno trasformato in un presupposto quasi incontestato quella che un tempo avrebbe potuto essere una posizione opinabile. Democratici, liberali, conservatori, radicali, rivoluzionari, cristiani, ebrei, musulmani, atei e agnostici concordano tutti con gli anarchici sul fatto che nessuno ha l’obbligo di sostenere o di obbedire a un cattivo stato.
* Tutti gli Stati sono coercitivi. Fra le caratteristiche più importanti che distinguono uno Stato da altre associazioni vi è la capacità di imporre o almeno di regolamentare l’imposizione di sanzioni severe e perfino violente contro individui presenti all’interno dei suoi confini che violino le sue regole o leggi
* La coercizione è un male in sé. Generalmente per coercizione si intende costringere qualcuno a obbedire a una richiesta, utilizzando la minaccia credibile di un grave danno fisico o emotivo contro chi si rifiuta di obbedire. Se si potessero raggiungere gli obiettivi prestabiliti senza ricorrere alla coercizione, la maggior parte delle persone sarebbe senz’altro lieta di fare a meno di tali mezzi, il che costituisce la dimostrazione più concreta dell’intrinseca indesiderabilità della coercizione.
* Una società senza Stato è un’alternativa praticabile a una società dotata di Stato. Questo ultimo presupposto è invece palesemente specifico dell’anarchismo e è di importanza cruciale per lo sviluppo delle teorie anarchiche.
Dai presupposti enunciati discendono direttamente alcune conseguenze:
* Poiché tutti gli Stati sono coercitivi, tutti gli Stati sono necessariamente un male.
* Poiché tutti gli Stati sono necessariamente un male, nessuno ha l’obbligo di obbedire o sostenere un qualsiasi Stato.
* Poiché tutti gli Stati sono un male, poiché nessuno ha l’obbligo di obbedire o sostenere un qualsiasi Stato, e poiché una società senza Stato è un’alternativa praticabile, tutti gli Stati andrebbero aboliti.
Ne consegue che anche un processo democratico non può essere accettato se si limita a fornire procedure, come la regola di maggioranza, per fare ciò che è intrinsecamente sbagliato fare: cioè consentire a alcuni di imporre costrizioni a altri. Uno Stato democratico è pur sempre uno Stato, pur sempre coercitivo, pur sempre un male in sé. Dal momento che il requisito dell’unanimità impedirebbe la coercizione, le associazioni potrebbero essere giustificate se le loro decisioni richiedessero l’unanimità. Ma dal momento che il requisito dell’unanimità richiederebbe che nessuno fosse costretto a subire coercizioni, un’associazione in cui le decisioni fossero prese all’unanimità non sarebbe uno Stato.
La difesa dell’anarchismo di Wolff
La caratteristica distintiva dello Stato è l’autorità suprema. L’autorità è il diritto a comandare e il diritto a ricevere obbedienza. In questo senso l’autorità deve essere distinta dal potere, cioè dalla capacità di imporre sottomissione mediante l’uso o la minaccia della forza. L’obbedienza all’autorità deve essere distinta dalla sottomissione a un ordine motivata dalla paura delle conseguenze della disobbedienza, dalla prudenza, dall’aspettativa di effetti positivi o anche dal riconoscimento della validità di un’argomentazione o dell’equità di una prescrizione. L’autorità consiste dunque nel diritto a comandare e nel relativo obbligo a obbedire alla persona che emette l’ordine. Si tratta dunque di fare ciò che tale persona ci ordina di fare perché ci ha detto di farlo.
In senso prescrittivo, anziché descrittivo, lo Stato è costituito da un gruppo di persone che hanno il diritto di esercitare un’autorità suprema all’interno di un dato territorio. E obbedire all’autorità di uno Stato, in senso prescrittivo, significa fare ciò che i funzionari di quello stato dicono di fare perché dicono di farlo.
Gli esseri umani sono (a) liberi in senso metafisico, ossia dotati di libero arbitrio, in quanto hanno la facoltà di scegliere, in qualche misura, come agiranno;(b) possiedono la facoltà di ragionare e, di conseguenza sono responsabili delle proprie azioni. Dal momento che un individuo responsabile arriva a decisioni morali che esprime a se stesso sotto forma di imperativi, possiamo dire che si dota di leggi, ossia che è autoregolato. Insomma è autonomo.
Un individuo autonomo non è soggetto alla volontà di altri. Può fare ciò che un altro gli dice di fare, ma non perché gli è stato detto di fare in quel modo.
La responsabilità e l’autonomia si differenziano per questo aspetto: si può perdere la propria autonomia, ma non si può perdere la propria responsabilità. Dal momento che la responsabilità è una conseguenza della facoltà di scelta dell’uomo, gli esseri umani non possono rinunciare o perdere la responsabilità delle proprie azioni.
Esistono vari gradi e varie forme di perdita dell’autonomia. Ciò nonostante, nella misura in cui accettiamo la responsabilità della nostre azioni e riconosciamo dentro di noi la forza della ragione, dobbiamo anche ammettere l’obbligo ininterrotto di fare di noi stessi gli artefici di quegli ordini cui decidiamo di obbedire.
Il carattere distintivo dello Stato è l’autorità. L’obbligo fondamentale dell’uomo è l’autonomia, il rifiuto a obbedire. Perciò non può esservi alcuna soluzione al conflitto fra l’autonomia dell’uomo e l’autorità putativa dello Stato. Se tutti gli uomini avessero l’obbligo ininterrotto di conseguire il maggior grado possibile di autonomia, allora non esisterebbe alcuno Stato in cui i cittadini avessero l’obbligo morale di obbedire ai suoi ordini. Quindi, l’anarchismo filosofico sembrerebbe essere il solo ideale politico ragionevole per un individuo illuminato.
Gli interrogativi suscitati dalla visione anarchica
La visione anarchica solleva almeno quattro interrogativi:
* Anche se la coercizione è intrinsecamente cattiva, è possibile giustificare ragionevolmente l’impegno della coercizione in determinate circostanze?
* E anche se così fosse, è ragionevole istituire uno Stato?
* E anche se così fosse, siamo sempre obbligati a sostenere l’esistenza di uno Stato?
* E anche supponendo di vivere in uno Stato buono o soddisfacente, dovremmo sempre obbedire alle sue leggi?
I due punti essenziali della visione anarchica sono il presupposto che esista un’alternativa allo Stato e la conclusione che tutti gli Stati, essendo coercitivi, sono per natura un male.
Innanzitutto, bisogna valutare fino a che punto è probabile che la coercizione si verifichi anche in mancanza di uno Stato, nel caso in cui, cioè, la gente vivesse nel cosiddetto "stato di natura". Gli anarchici sostengono che se gli stati non esistessero, ben presto la coercizione sparirebbe o diminuirebbe fino a livelli tollerabili. Ovviamente, questo giudizio empirico è di importanza cruciale per la validità della loro argomentazione. D’altro canto, se gli anarchici si sbagliassero riguardo alla probabile scomparsa della coercizione in assenza di uno Stato, la tesi che vede con favore ilo tentativo di creare uno stato buono o soddisfacente allo scopo di limitare la coercizione verrebbe notevolmente rafforzata. Benché non tutti siano disposti a giudicare la coercizione da un punto di vista utilitaristico, se si conclude che molto probabilmente la coercizione esisterebbe anche in assenza di uno Stato, occorre domandarsi se e in quali circostanze sarebbe giustificabile fare ricorso alla coercizione. Gli stessi anarchici non concordano su questo punto: secondo alcuni, come Bakunin, la violenza coercitiva è giustificata e necessaria alla causa suprema del rovesciamento dello Stato; altri anarchici, come Tolstoj, ritengono tuttavia che la coercizione e la violenza non siano mai giustificate. Da questo punto di vista, la sola posizione coerente per un anarchico è una stretta aderenza alla dottrina della non - violenza. La difficoltà posta dal primo punto di vista è che se la coercizione è giustificata come mezzo per rovesciare lo Stato, ne consegue ovviamente che dovrebbe essere giustificabile anche in altri casi, ammesso che venga utilizzata per scopi sufficientemente giusti e importanti. In altri termini, se il rifiuto della coercizione come mezzo non è assoluto ma contingente e relativo alle circostanze, non sarebbe giustificabile tentare di creare uno Stato democratico e sostenerne l’esistenza al fine di massimizzare libertà e giustizia, minimizzare l’occorrenza della coercizione privata non regolamentata, e impedire la nascita di uno Stato delinquenziale? La posizione alternativa, secondo cui la violenza e la coercizione non sono mai giustificate, dà origine a almeno due difficoltà. Innanzitutto, se è probabile che la coercizione venga comunque impiegata da malfattori, la posizione risulta allora contraddittoria: infatti, o la si rispetta, consentendo in tale modo ai malfattori di esercitare coercizione sugli altri, o si permette il ricorso alla coercizione per impedire ai malfattori di esercitare la stessa. In secondo luogo, perché mai evitare la coercizione dovrebbe essere uni fine supremo che prevale su tutti gli altri fini? Cos’è che rende la non - coercizione superiore a giustizia, libertà, eguaglianza, sicurezza, felicità e altri valori?
Si potrebbe sostenere d’altra parte che i vantaggi derivanti dalla creazione di uno Stato siano inferiori agli svantaggi. Molti anarchici sono convinti che i comportamenti sociopatici non siano inevitabili, ma che abbiano origine nei processi di socializzazione che inducono le persone a agire in conformità alle istanze degli Stati e dei sistemi socioeconomici che essi sostengono. Quindi, sostengono, una volta che gli Stati siano stati eliminati e vengano introdotte opportune misure sociali e economiche, la delinquenza verrebbe ridotta a livelli tollerabili dall’esecrazione, dal rimprovero pubblico, dall’emarginazione del colpevole e dall’ostracismo. E’ vero che talvolta gli esseri umani hanno vissuto un’esistenza tollerabile e forse addirittura soddisfacente in assenza di uno stato; a giudicare dalle ricerche etnografiche, è probabile che molte tribù prive di scrittura abbiano avuto una simile organizzazione. Tuttavia un ritorno a questo stato delle cose risulta impossibile o, se non impossibile, altamente indesiderabile. In primo luogo, il mondo è già troppo densamente popolato per fornire sufficiente spazio all’autonomia di una comunità. In secondo luogo, non è possibile spezzare la molteplicità dei legami di interdipendenza esistenti, se non a prezzo di enormi costi che poche persone sarebbero in grado di sostenere. In terzo luogo, l’intero globo terrestre è interamente occupato da Stati. Durante tutta la storia dell’umanità, i piccoli gruppi indipendenti di individui sono stati estremamente vulnerabili alla conquista e all’assorbimento da parte di Stati più grandi, fenomeno questo che tende tuttora a manifestarsi.
Obiezioni all’argomentazione di Wolff
Sebbene si distacchi dalla tradizione anarchica, l’argomentazione di Wolff va incontro tuttavia a difficoltà analoghe:
* Nello schema proposto da Wolff, la contraddizione fra l’autonomia morale e lo Stato esiste per definizione. Dunque, la sua ricerca di una soluzione è condannata in partenza al fallimento poiché, posto il problema in quei termini, da un punto di vista logico esso non può essere risolto. Inoltre, stando alla sua definizione, non solo lo Stato, ma qualunque forma di autorità risulta incompatibile con l’autonomia morale. Definendo infatti l’autorità come il diritto a esigere un’obbedienza irragionevole, immotivata e meccanica, Wolff si trova per forza di cose a dover scegliere tra un mondo di robot soggetti all’autorità da un lato e, dall’altro, un mondo di esseri umani non soggetti a alcuna autorità, che esercitano responsabilmente la propria autonomia morale.
* Di conseguenza, Wolff fallisce inevitabilmente nel tentativo di dimostrare che l’autorità e l’autonomia possono conciliarsi in uno Stato governato attraverso una democrazia unanime e diretta. Afferma Wolff: "Nell’ambito della democrazia unanime e diretta gli uomini possono armonizzare il dovere dell’autonomia con gli ordini dell’autorità", ma qui l’autorità non è l’autorità nella sua precedente definizione, cioè fare ciò che qualcuno ti dice di fare soltanto perché te lo dice. Una democrazia unanime e diretta, se pure fosse realizzabile, non costituirebbe una soluzione al problema nei termini in cui egli l’ha formulato.
* Wolff presenta l’autonomia come un valore assoluto di fronte al quale tutti gli altri fini passano in secondo piano. Ma perché mai felicità, giustizia, libertà personale, uguaglianza, sicurezza e tutti gli altri valori dovrebbero inchinarsi di fronte al valore supremo dell’autonomia? E’ possibile considerare l’autonomia come un bene in sé, oppure è un bene, almeno in qualche misura, solo fino a quando viene esercitata nella scelta responsabile di buoni fini? Ma se l’autorità e lo Stato dimostrano di essere mezzi necessari per massimizzare tali fini, non si potrebbe allora esercitare responsabilmente la propria autonomia scegliendo di istituire il migliore Stato possibile? Wolff non prende in seria considerazione tale possibilità perché l’ha esclusa fin dal principio.
* Escludendo tale possibilità, tuttavia, Wolff pone un falso problema. Lo Stato che richiede sempre e comunque una obbedienza cieca è un caso limite. Inoltre, analogamente alla libertà assoluta e illimitata, anche l’autonomia illimitata è impossibile, come riconosce lo stesso Wolff. La creazione di uno stato non rappresenterebbe allora una ragionevole opzione volta a massimizzare l’autonomia?
* E’ chiaro dunque che per agire responsabilmente si devono considerare le alternative possibili e valutare le condizioni che consentono di massimizzare l’autonomia morale o di minimizzare i limiti imposti alla autonomia morale. Considerata l’esperienza umana, si potrebbe concludere che in una società senza stato i limiti imposti alla autonomia morale, così come alla capacità di conseguire altri fini, sarebbero maggiori che in uno Stato democratico. Fra l’altro, si potrebbe essere soggetti alla volontà arbitraria di altri individui, per esempio malvagi recidivi e refrattari ai tentativi di dissuasione degli associati.
La tesi democratica afferma che è meglio scegliere uno Stato democratico piuttosto che qualsiasi altro Stato, o l’anarchia. Resta comunque aperta la questione di come dovrebbe agire un individuo che vivesse all’interno di uno Stato non democratico.
Le tesi anarchiche pongono poi un altro problema: si è moralmente obbligati a obbedire a tutte le leggi approvate in base al processo democratico? Si affaccia a questo punto la possibilità di accettare l’autorità morale e la legittimità morale di uno Stato democratico, senza con ciò rinunciare in alcun modo al dovere di agire responsabilmente qualora venisse promulgata una legge che viola gravemente i principi morali di un cittadino.
In definitiva, la critica anarchica sottolinea che gli stati sono, sono stati e forse saranno sempre imperfetti L’anarchismo offre inoltre un criterio di valutazione degli Stati nell’universo dei migliori stati realizzabili. Nel momento in cui sostiene che tutti gli Stati sono ugualmente e assolutamente un male, l’anarchismo si qualifica non tanto come una filosofia politica, quanto come una dottrina morale la quale afferma che le società possono essere giudicate relativamente buone o cattive a seconda del grado di massimizzazione dell’autonomia e di minimizzazione della coercizione. Al limite, dunque, una società perfetta la coercizione cesserebbe di esistere e le decisioni goderebbero sempre del consenso unanime.
Malgrado tale diversità, è possibile riscontrare nel pensiero anarchico delle tematiche comuni. L’idea più caratterizzante è naturalmente suggerita dal nome stesso: an + archè, cioè senza comando. Gli anarchici tendono a concordare sul fatto che lo stato, essendo coercitivo, non è desiderabile e di conseguenza dovrebbe essere e potrebbe essere interamente sostituito da associazioni volontarie fondate su un consenso continuativo. L’avverbio interamente è ciò che distingue il vero anarchico da altri, come Robert Nozick , che si avvicinano molto all’anarchismo ma si fermano a un passo dall’abolizione totale dello Stato, conservandolo in forma ridotta al minimo. L’opposizione all’esistenza dello stato distingue anche l’anarchismo dalla disobbedienza civile o dalla decisione di non obbedire a una legge motivato da determinati principi.
Alla base dell’anarchismo si possono individuare i seguenti presupposti fondamentali:
* Nessuno è obbligato a sostenere e obbedire a uno stato cattivo. Gli anarchici riconoscono a questo proposito il ruolo svolto dal cristianesimo a favore della dimostrazione della validità di questa tesi. Mentre nel XIII secolo san Tommaso d’Aquino ribadì più volte che in alcune circostanze un cristiano aveva non solo il diritto, ma anche il dovere di resistere alla tirannia, nel XVI secolo Lutero sostenne che i cristiani dovevano obbedire anche a un governo ingiusto. Tuttavia, i conflitti religiosi del Cinquecento e del Seicento scatenati da Lutero misero tutti i cristiani nell’impossibilità di obbedire agli ordini dello Stato senza violare le proprie convinzioni di cattolici o di protestanti. In conseguenza di ciò, il pensiero cristiano si è orientato verso una riaffermazione della posizione dell’aquinate, a volte in un linguaggio anche più schietto. Nel Settecento, acquistò terreno la convinzione che se le costituzioni e le leggi fatte dall’uomo volevano essere legittime e accettabili, non dovevano violare le "leggi superiori" prescritte dalla natura e dai diritti naturali. Le rivoluzioni francese e americana hanno entrambe contribuito a legittimare l’idea che la gente ha il diritto naturale di rovesciare uno stato oppressivo. Così, quando nell’Ottocento l’anarchismo venne riformulato in un contesto moderno, la convinzione di avere il diritto morale a ribellarsi a un cattivo regime era largamente condivisa, con tutta certezza dalla maggioranza dei liberali e dei democratici. Nel Novecento il terrore, la brutalità e l’oppressione sistematica dei regimi totalitari hanno trasformato in un presupposto quasi incontestato quella che un tempo avrebbe potuto essere una posizione opinabile. Democratici, liberali, conservatori, radicali, rivoluzionari, cristiani, ebrei, musulmani, atei e agnostici concordano tutti con gli anarchici sul fatto che nessuno ha l’obbligo di sostenere o di obbedire a un cattivo stato.
* Tutti gli Stati sono coercitivi. Fra le caratteristiche più importanti che distinguono uno Stato da altre associazioni vi è la capacità di imporre o almeno di regolamentare l’imposizione di sanzioni severe e perfino violente contro individui presenti all’interno dei suoi confini che violino le sue regole o leggi
* La coercizione è un male in sé. Generalmente per coercizione si intende costringere qualcuno a obbedire a una richiesta, utilizzando la minaccia credibile di un grave danno fisico o emotivo contro chi si rifiuta di obbedire. Se si potessero raggiungere gli obiettivi prestabiliti senza ricorrere alla coercizione, la maggior parte delle persone sarebbe senz’altro lieta di fare a meno di tali mezzi, il che costituisce la dimostrazione più concreta dell’intrinseca indesiderabilità della coercizione.
* Una società senza Stato è un’alternativa praticabile a una società dotata di Stato. Questo ultimo presupposto è invece palesemente specifico dell’anarchismo e è di importanza cruciale per lo sviluppo delle teorie anarchiche.
Dai presupposti enunciati discendono direttamente alcune conseguenze:
* Poiché tutti gli Stati sono coercitivi, tutti gli Stati sono necessariamente un male.
* Poiché tutti gli Stati sono necessariamente un male, nessuno ha l’obbligo di obbedire o sostenere un qualsiasi Stato.
* Poiché tutti gli Stati sono un male, poiché nessuno ha l’obbligo di obbedire o sostenere un qualsiasi Stato, e poiché una società senza Stato è un’alternativa praticabile, tutti gli Stati andrebbero aboliti.
Ne consegue che anche un processo democratico non può essere accettato se si limita a fornire procedure, come la regola di maggioranza, per fare ciò che è intrinsecamente sbagliato fare: cioè consentire a alcuni di imporre costrizioni a altri. Uno Stato democratico è pur sempre uno Stato, pur sempre coercitivo, pur sempre un male in sé. Dal momento che il requisito dell’unanimità impedirebbe la coercizione, le associazioni potrebbero essere giustificate se le loro decisioni richiedessero l’unanimità. Ma dal momento che il requisito dell’unanimità richiederebbe che nessuno fosse costretto a subire coercizioni, un’associazione in cui le decisioni fossero prese all’unanimità non sarebbe uno Stato.
La difesa dell’anarchismo di Wolff
La caratteristica distintiva dello Stato è l’autorità suprema. L’autorità è il diritto a comandare e il diritto a ricevere obbedienza. In questo senso l’autorità deve essere distinta dal potere, cioè dalla capacità di imporre sottomissione mediante l’uso o la minaccia della forza. L’obbedienza all’autorità deve essere distinta dalla sottomissione a un ordine motivata dalla paura delle conseguenze della disobbedienza, dalla prudenza, dall’aspettativa di effetti positivi o anche dal riconoscimento della validità di un’argomentazione o dell’equità di una prescrizione. L’autorità consiste dunque nel diritto a comandare e nel relativo obbligo a obbedire alla persona che emette l’ordine. Si tratta dunque di fare ciò che tale persona ci ordina di fare perché ci ha detto di farlo.
In senso prescrittivo, anziché descrittivo, lo Stato è costituito da un gruppo di persone che hanno il diritto di esercitare un’autorità suprema all’interno di un dato territorio. E obbedire all’autorità di uno Stato, in senso prescrittivo, significa fare ciò che i funzionari di quello stato dicono di fare perché dicono di farlo.
Gli esseri umani sono (a) liberi in senso metafisico, ossia dotati di libero arbitrio, in quanto hanno la facoltà di scegliere, in qualche misura, come agiranno;(b) possiedono la facoltà di ragionare e, di conseguenza sono responsabili delle proprie azioni. Dal momento che un individuo responsabile arriva a decisioni morali che esprime a se stesso sotto forma di imperativi, possiamo dire che si dota di leggi, ossia che è autoregolato. Insomma è autonomo.
Un individuo autonomo non è soggetto alla volontà di altri. Può fare ciò che un altro gli dice di fare, ma non perché gli è stato detto di fare in quel modo.
La responsabilità e l’autonomia si differenziano per questo aspetto: si può perdere la propria autonomia, ma non si può perdere la propria responsabilità. Dal momento che la responsabilità è una conseguenza della facoltà di scelta dell’uomo, gli esseri umani non possono rinunciare o perdere la responsabilità delle proprie azioni.
Esistono vari gradi e varie forme di perdita dell’autonomia. Ciò nonostante, nella misura in cui accettiamo la responsabilità della nostre azioni e riconosciamo dentro di noi la forza della ragione, dobbiamo anche ammettere l’obbligo ininterrotto di fare di noi stessi gli artefici di quegli ordini cui decidiamo di obbedire.
Il carattere distintivo dello Stato è l’autorità. L’obbligo fondamentale dell’uomo è l’autonomia, il rifiuto a obbedire. Perciò non può esservi alcuna soluzione al conflitto fra l’autonomia dell’uomo e l’autorità putativa dello Stato. Se tutti gli uomini avessero l’obbligo ininterrotto di conseguire il maggior grado possibile di autonomia, allora non esisterebbe alcuno Stato in cui i cittadini avessero l’obbligo morale di obbedire ai suoi ordini. Quindi, l’anarchismo filosofico sembrerebbe essere il solo ideale politico ragionevole per un individuo illuminato.
Gli interrogativi suscitati dalla visione anarchica
La visione anarchica solleva almeno quattro interrogativi:
* Anche se la coercizione è intrinsecamente cattiva, è possibile giustificare ragionevolmente l’impegno della coercizione in determinate circostanze?
* E anche se così fosse, è ragionevole istituire uno Stato?
* E anche se così fosse, siamo sempre obbligati a sostenere l’esistenza di uno Stato?
* E anche supponendo di vivere in uno Stato buono o soddisfacente, dovremmo sempre obbedire alle sue leggi?
I due punti essenziali della visione anarchica sono il presupposto che esista un’alternativa allo Stato e la conclusione che tutti gli Stati, essendo coercitivi, sono per natura un male.
Innanzitutto, bisogna valutare fino a che punto è probabile che la coercizione si verifichi anche in mancanza di uno Stato, nel caso in cui, cioè, la gente vivesse nel cosiddetto "stato di natura". Gli anarchici sostengono che se gli stati non esistessero, ben presto la coercizione sparirebbe o diminuirebbe fino a livelli tollerabili. Ovviamente, questo giudizio empirico è di importanza cruciale per la validità della loro argomentazione. D’altro canto, se gli anarchici si sbagliassero riguardo alla probabile scomparsa della coercizione in assenza di uno Stato, la tesi che vede con favore ilo tentativo di creare uno stato buono o soddisfacente allo scopo di limitare la coercizione verrebbe notevolmente rafforzata. Benché non tutti siano disposti a giudicare la coercizione da un punto di vista utilitaristico, se si conclude che molto probabilmente la coercizione esisterebbe anche in assenza di uno Stato, occorre domandarsi se e in quali circostanze sarebbe giustificabile fare ricorso alla coercizione. Gli stessi anarchici non concordano su questo punto: secondo alcuni, come Bakunin, la violenza coercitiva è giustificata e necessaria alla causa suprema del rovesciamento dello Stato; altri anarchici, come Tolstoj, ritengono tuttavia che la coercizione e la violenza non siano mai giustificate. Da questo punto di vista, la sola posizione coerente per un anarchico è una stretta aderenza alla dottrina della non - violenza. La difficoltà posta dal primo punto di vista è che se la coercizione è giustificata come mezzo per rovesciare lo Stato, ne consegue ovviamente che dovrebbe essere giustificabile anche in altri casi, ammesso che venga utilizzata per scopi sufficientemente giusti e importanti. In altri termini, se il rifiuto della coercizione come mezzo non è assoluto ma contingente e relativo alle circostanze, non sarebbe giustificabile tentare di creare uno Stato democratico e sostenerne l’esistenza al fine di massimizzare libertà e giustizia, minimizzare l’occorrenza della coercizione privata non regolamentata, e impedire la nascita di uno Stato delinquenziale? La posizione alternativa, secondo cui la violenza e la coercizione non sono mai giustificate, dà origine a almeno due difficoltà. Innanzitutto, se è probabile che la coercizione venga comunque impiegata da malfattori, la posizione risulta allora contraddittoria: infatti, o la si rispetta, consentendo in tale modo ai malfattori di esercitare coercizione sugli altri, o si permette il ricorso alla coercizione per impedire ai malfattori di esercitare la stessa. In secondo luogo, perché mai evitare la coercizione dovrebbe essere uni fine supremo che prevale su tutti gli altri fini? Cos’è che rende la non - coercizione superiore a giustizia, libertà, eguaglianza, sicurezza, felicità e altri valori?
Si potrebbe sostenere d’altra parte che i vantaggi derivanti dalla creazione di uno Stato siano inferiori agli svantaggi. Molti anarchici sono convinti che i comportamenti sociopatici non siano inevitabili, ma che abbiano origine nei processi di socializzazione che inducono le persone a agire in conformità alle istanze degli Stati e dei sistemi socioeconomici che essi sostengono. Quindi, sostengono, una volta che gli Stati siano stati eliminati e vengano introdotte opportune misure sociali e economiche, la delinquenza verrebbe ridotta a livelli tollerabili dall’esecrazione, dal rimprovero pubblico, dall’emarginazione del colpevole e dall’ostracismo. E’ vero che talvolta gli esseri umani hanno vissuto un’esistenza tollerabile e forse addirittura soddisfacente in assenza di uno stato; a giudicare dalle ricerche etnografiche, è probabile che molte tribù prive di scrittura abbiano avuto una simile organizzazione. Tuttavia un ritorno a questo stato delle cose risulta impossibile o, se non impossibile, altamente indesiderabile. In primo luogo, il mondo è già troppo densamente popolato per fornire sufficiente spazio all’autonomia di una comunità. In secondo luogo, non è possibile spezzare la molteplicità dei legami di interdipendenza esistenti, se non a prezzo di enormi costi che poche persone sarebbero in grado di sostenere. In terzo luogo, l’intero globo terrestre è interamente occupato da Stati. Durante tutta la storia dell’umanità, i piccoli gruppi indipendenti di individui sono stati estremamente vulnerabili alla conquista e all’assorbimento da parte di Stati più grandi, fenomeno questo che tende tuttora a manifestarsi.
Obiezioni all’argomentazione di Wolff
Sebbene si distacchi dalla tradizione anarchica, l’argomentazione di Wolff va incontro tuttavia a difficoltà analoghe:
* Nello schema proposto da Wolff, la contraddizione fra l’autonomia morale e lo Stato esiste per definizione. Dunque, la sua ricerca di una soluzione è condannata in partenza al fallimento poiché, posto il problema in quei termini, da un punto di vista logico esso non può essere risolto. Inoltre, stando alla sua definizione, non solo lo Stato, ma qualunque forma di autorità risulta incompatibile con l’autonomia morale. Definendo infatti l’autorità come il diritto a esigere un’obbedienza irragionevole, immotivata e meccanica, Wolff si trova per forza di cose a dover scegliere tra un mondo di robot soggetti all’autorità da un lato e, dall’altro, un mondo di esseri umani non soggetti a alcuna autorità, che esercitano responsabilmente la propria autonomia morale.
* Di conseguenza, Wolff fallisce inevitabilmente nel tentativo di dimostrare che l’autorità e l’autonomia possono conciliarsi in uno Stato governato attraverso una democrazia unanime e diretta. Afferma Wolff: "Nell’ambito della democrazia unanime e diretta gli uomini possono armonizzare il dovere dell’autonomia con gli ordini dell’autorità", ma qui l’autorità non è l’autorità nella sua precedente definizione, cioè fare ciò che qualcuno ti dice di fare soltanto perché te lo dice. Una democrazia unanime e diretta, se pure fosse realizzabile, non costituirebbe una soluzione al problema nei termini in cui egli l’ha formulato.
* Wolff presenta l’autonomia come un valore assoluto di fronte al quale tutti gli altri fini passano in secondo piano. Ma perché mai felicità, giustizia, libertà personale, uguaglianza, sicurezza e tutti gli altri valori dovrebbero inchinarsi di fronte al valore supremo dell’autonomia? E’ possibile considerare l’autonomia come un bene in sé, oppure è un bene, almeno in qualche misura, solo fino a quando viene esercitata nella scelta responsabile di buoni fini? Ma se l’autorità e lo Stato dimostrano di essere mezzi necessari per massimizzare tali fini, non si potrebbe allora esercitare responsabilmente la propria autonomia scegliendo di istituire il migliore Stato possibile? Wolff non prende in seria considerazione tale possibilità perché l’ha esclusa fin dal principio.
* Escludendo tale possibilità, tuttavia, Wolff pone un falso problema. Lo Stato che richiede sempre e comunque una obbedienza cieca è un caso limite. Inoltre, analogamente alla libertà assoluta e illimitata, anche l’autonomia illimitata è impossibile, come riconosce lo stesso Wolff. La creazione di uno stato non rappresenterebbe allora una ragionevole opzione volta a massimizzare l’autonomia?
* E’ chiaro dunque che per agire responsabilmente si devono considerare le alternative possibili e valutare le condizioni che consentono di massimizzare l’autonomia morale o di minimizzare i limiti imposti alla autonomia morale. Considerata l’esperienza umana, si potrebbe concludere che in una società senza stato i limiti imposti alla autonomia morale, così come alla capacità di conseguire altri fini, sarebbero maggiori che in uno Stato democratico. Fra l’altro, si potrebbe essere soggetti alla volontà arbitraria di altri individui, per esempio malvagi recidivi e refrattari ai tentativi di dissuasione degli associati.
La tesi democratica afferma che è meglio scegliere uno Stato democratico piuttosto che qualsiasi altro Stato, o l’anarchia. Resta comunque aperta la questione di come dovrebbe agire un individuo che vivesse all’interno di uno Stato non democratico.
Le tesi anarchiche pongono poi un altro problema: si è moralmente obbligati a obbedire a tutte le leggi approvate in base al processo democratico? Si affaccia a questo punto la possibilità di accettare l’autorità morale e la legittimità morale di uno Stato democratico, senza con ciò rinunciare in alcun modo al dovere di agire responsabilmente qualora venisse promulgata una legge che viola gravemente i principi morali di un cittadino.
In definitiva, la critica anarchica sottolinea che gli stati sono, sono stati e forse saranno sempre imperfetti L’anarchismo offre inoltre un criterio di valutazione degli Stati nell’universo dei migliori stati realizzabili. Nel momento in cui sostiene che tutti gli Stati sono ugualmente e assolutamente un male, l’anarchismo si qualifica non tanto come una filosofia politica, quanto come una dottrina morale la quale afferma che le società possono essere giudicate relativamente buone o cattive a seconda del grado di massimizzazione dell’autonomia e di minimizzazione della coercizione. Al limite, dunque, una società perfetta la coercizione cesserebbe di esistere e le decisioni goderebbero sempre del consenso unanime.
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