L’impotenza governativa
Al di là delle particolarità nazionali, la crisi del parlamentarismo si manifesta soprattutto come instabilità e impotenza governativa: partiti numerosi e irremovibili nelle loro opposizioni non permettono la formazione di maggioranze solide e durature, dando invece vita a coalizioni fragili, a successioni di governi di breve durata o, all’opposto, a governi più lunghi per l’incapacità di sostituire nuove maggioranze a quelle esistenti. In entrambi i casi si riduce la capacità di governo per cui essa si riduce sostanzialmente all’ordinaria amministrazione.
Le proposte per superare tale sfida all’istituto parlamentare sono assai diversificate a seconda dei paesi.
Lo sforzo per l’integrazione delle masse popolari
L’ingresso nella vita politica delle masse popolari poteva tradursi in due rischi essenziali per la borghesia al potere: o esse si impadronivano del potere e distruggevano il regime, oppure si isolavano da esso ripiegandosi su se stese; la prima ipotesi si realizzò solo nelle democrazie popolari posteriori al 1945, infatti le paure della borghesia la spinsero in precedenza a rifugiarsi tra le braccia dei fascismi distruggendo essa stessa il regime parlamentare in Italia e in Germania. Ma nulla di simile si verificò tra il 1919 e il 1939; le masse si integrarono nel regime parlamentare senza gravi urti sostanzialmente per due fattori: la disgregazione delle masse e l’evoluzione del socialismo.
Le masse popolari non formavano un blocco compatto contro la borghesia: in particolare i contadini erano pronti ad accettare i quadri politici borghesi e altre componenti delle masse hanno seguito tale via in quanto ambivano ad essere considerate esse stesse borghesi, soprattutto i quadri superiori (ingegneri, alti funzionari, direttori) e inferiori (capi-reparti, capisquadra) e gli impiegati, che pure spesso avevano una situazione economica modesta, ma rifiutavano di essere assimilati al proletariato. Per accelerare tale disgregazione la borghesia ha creato il concetto di classe media, sorta di stato cuscinetto nelle lotte di classe, incarnazione dell’ordine e dell’equilibrio. La classe media faceva cessare l’isolamento del proletariato aprendogli prospettive di ascesa: il sogno di questa meta lo integrava nel sistema borghese e dunque nel parlamentarismo. Tale trasformazione era favorita dal progresso tecnico da un lato, che aumentava il numero di impiegati e quadri in rapporto a quello degli operai propriamente detti e, dall’altro, dall’evoluzione delle democrazie parlamentari, in cui si moltiplicavano le istituzioni sociali, che le rendeva più vicine al proletariato.
L’evoluzione dei partiti socialisti si è rivelata parallela alla disgregazione delle masse sia agendo su essa, sia subendone l’influenza. All’inizio del secolo il problema riformismo o rivoluzione divideva i socialisti, cinquant’anni dopo non si parla nemmeno più di rivoluzione e lo stesso riformismo non rappresenta un sistema per corrodere dall’interno i regimi borghesi, ma ha finito per rivolgersi contro coloro che volevano servirsene. All’inizio del Novecento i partiti socialisti erano considerati una grave minaccia per le istituzioni parlamentari, oggi ne sono i più ferventi sostenitori. Se la trasformazione è estendibile alla quasi totalità dei partiti socialisti, le modalità con cui si è realizzata sono diverse e dipendono sostanzialmente dal ruolo e dall’azione dei sindacati: in Gran Bretagna e nei paesi nordici i sindacati ebbero all’inizio una tendenza nettamente riformista e diedero alla loro azione obiettivi limitati, precisi e immediatamente realizzabili; nello stesso tempo essi presero parte attiva all’azione politica creando in Gran Bretagna il partito socialista che da essi fu sempre dominato. In Germania, Paesi Bassi e Belgio, l’unione sindacati-partito è meno intima, ma comunque forte. Tale socialismo sindacale e realista accettò facilmente il sistema borghese, al prezzo di un certo numero di riforme sociali. In altri paesi, specie in Francia e Italia, l’orientamento sindacale fu diverso sin dalle origini: le organizzazioni sindacali si svilupparono tardi e con difficoltà, raccogliendo anche per questo motivo pochi iscritti e scarsi successi, restando a lungo nelle mani di una minoranza dinamica e intransigente, su una linea maggiormente rivoluzionaria. Rifiutando il compromesso con la società borghese hanno contemporaneamente rinunciato alla partecipazione alla vita politica nel quadro del parlamentarismo. I partiti socialisti hanno invece integrato una parte della classe operaia nel regime costituito subendo certo più dei loro fratelli sindacati la deformazione dovuta alla convivenza con un ambiente borghese: in questi paesi le riforme sociali sono state meno numerose, il parlamentarismo non si è socializzato come nei paesi nordici, ma, piuttosto, è stato il socialismo a parlamentizzarsi. In Gran Bretagna e nell’Europa settentrionale, dunque, il parlamentarismo ha superato la crisi cessando di essere un regime di classe per inglobare realmente tutta la nazione, anche se si potrebbe obiettare che le riforme sociali non hanno in realtà trasformato la natura del regime, ma piuttosto, hanno imborghesito la classe operaia che si è trovata ad ottenere condizioni di vita migliori rispetto ai paesi in cui tale processo non si è verificato. L’integrazione delle masse popolari rimane invece parziale in Francia e Italia, il che rende più fragile il regime parlamentare.
Le trasformazioni del sistema dei partiti
Fino all’avvento dei socialisti i regimi parlamentari europei si erano basati sull’antagonismo di due grandi partiti: i conservatori, rappresentanti della grande aristocrazia agraria legata al regime monarchico, e i liberali, la borghesia commerciale e industriale ispirata alle dottrine della Rivoluzione francese e americana e alla filosofia del XVIII secolo. Nei paesi cattolici i primi avevano l’appoggio del clero, mentre i secondi tendevano piuttosto all’anticlericalismo. In realtà all’interno di questi schemi generali esistevano numerose peculiarità: in Scandinavia esisteva un partito agrario di tendenza liberale sviluppatosi accanto all’aristocrazia conservatrice e solo successivamente si era aggiunto un partito liberale urbano; nei Paesi Bassi opposizioni religiose dividevano i conservatori in partito cattolico antirivoluzionario e cristiano- protestante; in Francia le divisioni della destra lungo tutto il XIX secolo in legittimisti, bonapartisti, orleanisti, repubblicani moderati impedivano l’organizzazione solida di un partito conservatore. Quasi ovunque, infine, una crisi era scoppiata alla fine dell’Ottocento in seno ai partiti liberali. Tuttavia si registrava ancora una divisione dell’opinione pubblica in due partiti che facilitava sia i voti sia la costituzione di maggioranze governative. L’ingresso dei partiti socialisti ha trasformato il duo in un trio, rendendo più oscura l’interpretazione dei voti e più difficile e fragile la costituzione di maggioranze. I rimedi furono diversi, ma tutti ugualmente inefficaci.
Il ritorno al bipartitismo in Gran Bretagna
Il bipartitismo britannico aveva subito alterazioni tra il XIX e il XX secolo anche prima della nascita del Partito laburista, in particolare per il ruolo politico assunto dai nazionalisti irlandesi che avevano svolto un ruolo di arbitraggio, sproporzionato alle loro dimensioni reali, tra i due "grandi". Tuttavia mai la supremazia dei due "grandi" era stata messa in discussione fino al 1922, quando entrarono nella camera dei Comuni 142 laburisti contro 114 liberali, nonostante fosse aumentata la percentuale di voti ottenuta da questi ultimi. L’anomalia sottolinea il sostanziale difetto del sistema maggioritario a un solo turno, quando esso si applica in elezioni triangolari. Il disordine elettorale raggiunse il massimo grado alle elezioni del 1924 e del 1929: nonostante l’opinione pubblica sopportasse bene queste vicende per l’attaccamento alle istituzioni parlamentari e al sistema elettorale, le conseguenze erano molto gravi sul piano governativo dal momento che o un partito non riusciva a costituire una maggioranza omogenea e stabile come era nella tradizione, oppure la maggioranza parlamentare corrispondeva a una minoranza del paese. La Gran Bretagna doveva dunque piegarsi a governi di coalizione tipici del continente, dove negli stessi anni i regimi parlamentari si trovavano nelle medesime difficoltà con frequenti scioglimenti delle camere: tra il 1918 e il 1931 la Francia ebbe tre parlamenti, l’Inghilterra sei e tra il 1922 e il 1924 gli Inglesi votarono ogni anno. Il sistema britannico ritrovò l’equilibrio a partire dal 1935: il partito liberale fu praticamente eliminato dalla scena politica e il bipartitismo si rimodellò sull’opposizione conservatori-laburisti. La Gran Bretagna ebbe il merito di non piegarsi al proporzionale, mantenendo invece il sistema maggioritario: se tale scrutinio aggravava la crisi dovuta al tripartitismo, esso determinò tuttavia anche l’esaurirsi di tale lotta triangolare. Meccanicamente il partito più debole veniva ulteriormente indebolito dal meccanismo dello scrutinio e psicologicamente i suoi elettori, consci dell’inutilità del loro voto, se ne allontanavano per confluire in quello dei due grandi a loro più vicino: questa polarizzazione si esasperò sino a giungere all’eliminazione del terzo partito.
L’Europa continentale: il governo di coalizione
Nessun paese dell’Europa continentale applicò mai il modello britannico: troppo grande era il prestigio del proporzionale, che sarà abbandonato dalla maggior parte dei paesi solo nel secondo dopoguerra, e troppo complessa era la divisione dei partiti, tale da non permettere il raggiungimento del perfetto dualismo britannico.
La risposta più comune alla crisi è stata la formazione di governi di coalizione, tuttavia ancora una volta il sistema elettorale non incitava alle alleanze, quasi necessarie invece nel caso del maggioritario sia per l’eventuale ballottaggio, sia per la suddivisione delle circoscrizioni in anticipo evitando le lotte triangolari nel caso di elezioni a turno unico: tale comunità di interessi si riflette a livello parlamentare, laddove invece le alleanze nel sistema proporzionale, se si costituiscono, sono molto più fragili. Nei Paesi Bassi, ad esempio, la vecchia alleanza conservatrice che durava dal 1868 non resistette all’introduzione del proporzionale nel 1925. Non bisogna certo esagerare l’influenza del sistema elettorale: In Francia, pur sussistendo il sistema maggioritario, le alleanze elettorali stentavano a mantenersi sul piano parlamentare (nelle legislature del 1924,1932, 1936) mentre in altri paesi (Norvegia e Danimarca) l’introduzione del proporzionale non modificò la durata dei ministri. In generale, però, il proporzionale fece sentire i propri effetti innanzitutto sotto forma di instabilità ministeriale: il cambiamento più netto è visibile in Svezia, nei Paesi Bassi e, soprattutto, in Belgio dove tra il 1831 e il 1918 la durata media dei governi è di tre anni e nove mesi, mentre tra il 1918 e il 1938 precipita a un anno e tre mesi. L’instabilità ministeriale fu criticata dall’opinione pubblica quando essa coincideva con una stabilità dei partiti sul piano parlamentare, anch’essa frutto del sistema proporzionale, o quando si assistette alla formazione di alleanze parlamentari al di fuori delle indicazioni fornite durante le elezioni.
Il rimedio all’instabilità fu per la maggior parte dei casi il ricorso a maggioranze di coalizione, esperienza nuova solo per il Belgio, che tuttavia si rivelarono perlopiù fallimentari giungendo talvolta a "punti morti" in cui nessuno dei due schieramenti era in grado di costituire una maggioranza. Si ricorse allora o al governo d’affari o al governo di minoranza. Nel primo caso gli incarichi ministeriali sono affidati a figure extraparlamentari (tecnici) con il sostegno di molti partiti delle camere così da ottenere la maggioranza; in questo senso si mossero Danimarca, Svezia e Paesi Bassi nella prima metà degli anni Venti. Il secondo metodo è molto diverso: si tratta di un governo monocolore di parlamentari dello stesso partito che pur non dispone della maggioranza; per sopravvivere il gabinetto così formato deve beneficiare del sostegno di altri partiti che gli accordano i propri voti senza partecipare alle responsabilità di governo. In Francia questo sistema è stato utilizzato per preparare la strada a un nuovo raggruppamento di partiti che potesse dar vita a un governo normale, in Scandinavia invece si utilizzò per altri scopi ovvero come mezzo per governare stabilendo un equilibrio tra i partiti, una sorta di tregua: in Danimarca dal 1945 tutti i governi sono di minoranza. Entrambe le soluzioni tuttavia, sovrapponendosi alla dissociazione operata da parte della rappresentanza proporzionale tra maggioranza parlamentare e voto degli elettori, contribuiva ad allontanare ulteriormente il governo dall'opinione pubblica. A tale risultato si tentò di reagire, in Francia e in Belgio, con il sistema dell’Unione Nazionale il cui fondamento era il tentativo di imitare il sistema praticato durante la prima guerra mondiale in cui tutti i partiti si erano uniti per sostenere insieme il governo. Il solo Belgio applicò integralmente il sistema e fu in tal modo possibile l’introduzione anche di misure impopolari senza che un partito ne approfittasse per fare della demagogia, poichè tutti ne portavano insieme la responsabilità. Inoltre tale tregua permise un rinnovarsi dell’attaccamento popolare all’istituzione parlamentare specie quando essa era minacciata da movimenti fascisti come il rexismo. L’applicazione francese non fu totale: il raggruppamento non riguardava tutti i partiti, ma solo quelli di uno schieramento ad eccezione di socialisti e comunisti. Il sistema ha essenzialmente il fine di impedire l’alleanza tra radicali e socialisti, asse portante di tutte le maggioranze a partite dal 1906, e di spingere i primi a collaborare con la destra. Da parte loro i radicali spesso accettano questa collaborazione, ma generalmente ritornano ad avvicinarsi ai socialisti nell’imminenza delle elezioni. Gli sforzi per raggiungere una maggioranza stabile hanno però raramente successo: il miglior esempio è la Cecoslovacchia in cui funzionava un’Unione Nazionale di centro appoggiata a quattro partiti. La Germania di Weimar tentò anch’essa una alleanza centrista attraverso l’unione dei socialdemocratici e del centro cattolico, ma tale coalizione ottenne la maggioranza assoluta solo nella prima legislatura mentre in seguito si trovò nella necessità di servirsi dell’appoggio di partiti minori, il che impedì ogni stabilità.
L’ascesa dei partiti dominanti
Rimedio assai efficace alla crisi del parlamentarismo, che tuttavia implica anche una sua profonda trasformazione, può essere senza dubbio ritenuta l’apparizione dei partiti dominanti ovvero la crescita di un partito in modo tale che esso diventi il più importante in termini assoluti, avvicinandosi da solo alla maggioranza assoluta cosi da diventare necessario per ogni maggioranza e l’asse attorno a cui essa si deve costruite. Esso domina per certi versi la maggioranza e, attraverso di essa, il paese. A partire dal 1906 il partito radicale francese si avvicinò al ruolo di partito dominante a causa della sua posizione di centro-sinistra nell’assemblea che lo rendeva indispensabile per ogni maggioranza come elemento di destra in una maggioranza di sinistra (nel 1906 e nel 1924) o viceversa (nell’Unione Nazionale). Il miglior esempio resta però quello dei partiti socialisti scandinavi, che conobbero una progressiva crescita di suffragio tra il 1919 e il 1939 raggiungendo anche talvolta la maggioranza assoluta (in Svezia nel 1940 e in Norvegia nel 1949). Il loro appoggio era indispensabile per governare e avvenne così che il loro programma politico fu progressivamente realizzato: dopo la seconda guerra mondiale un processo simile si è verificato a vantaggio de partiti democristiani, specie in Germania e in Italia e, in misura minore, in Belgio. La dominazione portò però nuovamente alla crisi il regime parlamentare introducendo un elemento di stabilità eccessiva , benchè l’instabilità ministeriale non fosse necessariamente cancellata, se si esclude la Danimarca del periodo 1929-1939. Ma non è questo l’indice da osservare; se infatti i gabinetti cambiano, ma continuano ad applicare la medesima politica, si può parlare di stabilità governativa dietro l’apparente instabilità.
I tentativi di modificazione delle istituzioni politiche e le distorsioni del regime parlamentare
Poiché la crisi si poneva soprattutto a livello di infrastruttura (classi sociali, regime economico, partiti politici) piuttosto che a livello costituzionale, nacque per farvi fronte, specie in Francia, il mito della riforma delle istituzioni. Tuttavia un regime politico non è una giustapposizione di istituzioni che si possano modificare separatamente, e ogni intervento di riforma rischia di essere parziale e pertanto inutile o controproducente.
Una delle misure più diffuse fu l’uso da parte del governo dello scioglimento delle Camere, tecnica che appartiene in realtà alla pratica parlamentare, specie britannica. Alcuni paesi pensarono però di utilizzarlo come strumento contro l’instabilità ministeriale, legandolo al voto di sfiducia: se la camera rovescia il governo, questo la scioglie. Il sistema appariva come la proposta di un più marcato equilibrio tra i due poteri che rispettava d’altro canto il carattere democratico del regime in quanto il popolo poteva fare da arbitro tra parlamento e Governo. D’altra parte il timore di perdere il seggio e di affrontare di nuovo le spese di una campagna elettorale avrebbe dovuto incitare i deputati alla saggezza e alla moderazione davanti al governo, riducendo la frequenza della sfiducia: si trattava di un efficace mezzo di pressione sul parlamento a disposizione del governo. Lo scioglimento serviva in realtà piuttosto a favorire il partito al potere permettendogli di ricorrere alle urne nel momento ritenuto da esso più favorevole e di far decidere all’opinione pubblica le grandi questioni su cui i due partiti non riuscivano a trovare un accordo, come in un referendum. Del resto anche l’idea di rendere il popolo arbitro di un conflitto tra i due poteri era illusoria in presenza di un sistema proporzionale, poiché le variazioni di seggi sono in genere minime tra uno scrutinio e l’altro. Resta però il fatto che il timore di uno scioglimento limita i voti di sfiducia, ma si deve temere allora che i governi così mantenuti artificialmente in carica non godano di grande autorità e che l’impotenza sia una loro caratteristica primaria. Nell’insieme l’uso di tale strumento rimase limitato: in Francia se ne parlò molto tra il 1934 e il 1935, mentre più spesso fu applicato dalla repubblica di Weimar, rivelandosi però incapace di portare a maggioranze più stabili e, anzi, aggravando le divisioni dei partiti e contribuì a provocare il disinteresse popolare verso il regime; anche in Spagna i due scioglimenti del 1933 e del 1936 indebolirono il regime più che rafforzarlo. Nelle nuove democrazie dell’Europa orientale lo scioglimento si rivelò il mezzo privilegiato per assicurare il predominio del Capo dello Stato e distruggere le basi delle neonate democrazie. Unica eccezione è la Danimarca dove ancora oggi è unanimemente ammesso che ogni voto di sfiducia implichi nuove elezioni e con il risultato che dal 1945 la durata dei gabinetti coincide sempre con quella della legislatura.
Molto più sviluppato e usato è stato il sistema dei decreti-legge ovvero il trasferimento all’esecutivo del potere di legiferare su alcune materie formulando decreti aventi forza di legge. Il sistema nacque durante la guerra sotto la spinta della necessità e, terminata la guerra, apparve come antidoto alla crisi del parlamentarismo: la legge inglese del 1920 aumentava in tempo di crisi il potere dei governi in ambito legislativo e tali prerogative furono estese nel 1931, per fronteggiare le difficoltà economiche, e, ancora, durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. In Francia la pratica fu inaugurata nel 1925 e in Italia fu particolarmente sfruttata tra il 1921 e il 1922 prima dell’avvento di Mussolini e lo stesso vale per Belgio, Germania e Polonia. Si possono delineare tre momenti in cui l’uso del decreto-legge fu particolarmente frequente: negli anni Venti, per risolvere le difficoltà sorte dopo la prima guerra mondiale, tra il ‘30 e il ’35 per sopperire alla grave crisi economica, nel ‘38-’39 per far fronte all’aggravarsi delle tensioni internazionali. In tutti i casi il ricorso ai decreti-legge avvenne senza interventi costituzionali e molti giuristi si sono interrogati sulla legittimità del provvedimento, ritenuto contrario al fondamento del sistema parlamentare che attribuisce al parlamento il potere legislativo, ma la pressione degli eventi fu spesso tale da cancellare ogni remora giuridica. Talvolta i decreti-legge hanno permesso la risoluzione di questioni economico-finanziarie, altrimenti difficilmente superabili, ma non hanno accresciuto né la stabilità del governo, né la sua autorità poiché l’impossibilità di appoggiarsi a una maggioranza omogenea gli impedì spesso di avere una volontà e un orientamento precisi. I decreti-legge risolvono situazioni tecniche urgenti, ma non definiscono una linea politica e, inoltre, contribuiscono a accrescere l’importanza dei tecnici rispetto a quella dei ministri. Del resto anche le assemblee, delegando le loro funzioni all’esecutivo, perdono prestigio e tali semi-dimissioni del parlamento sono un fenomeno grave: basti pensare che in Francia, nel 1940, le assemblee, spinte ormai dall’abitudine, abbandonarono la Costituzione e la stessa repubblica con un decreto-legge.
Gli sforzi di modifica delle istituzioni hanno preso infine una terza direzione: l’accrescimento dei poteri del Capo dello Stato. L’esempio più evidente è quello della Costituzione tedesca di Weimar. Il presidente del Reich poteva contare infatti sull’elezione diretta da parte del popolo, sul diritto di revoca del governo anche indipendentemente dal voto di sfiducia delle Camere, sul diritto di sciogliere il Parlamento e sulla possibilità di legiferare per mezzo di decreti-legge. Specialmente la prima prerogativa avvicinava la Germania a un sistema presidenziale, ma, combinata con le altre, metteva seriamente in pericolo il regime parlamentare: per mezzo dello scioglimento il Presidente tedesco tentò di imporre al Parlamento governi presidenziali minoritari e, usando a vantaggio di questi ultimi la facoltà di operare per decreti-legge, egli potè di fatto fare a meno del Parlamento preparando la via alla dittatura hitleriana.
Nelle nuove democrazie parlamentari dell’Europa orientale gli esempi di tale deformazione si potrebbero moltiplicare, ma il più delle volte l’aumento di importanza del Capo dello Stato coincideva con un’aperta violazione delle norme costituzionali ovvero con la fine del regime parlamentare. Solo in Cecoslovacchia il Presidente seppe esercitare un’influenza reale e profonda sulla vita politica senza attentare al parlamentarismo. Lo sviluppo dei poteri del Capo dello Stato è del resto in contrasto con i presupposti del regime parlamentare e rischia perciò di aggravarne la crisi: storicamente il dualismo Capo dello Stato-Governo è una sopravvivenza monarchica, mentre il Capo dello Stato, oggi, è e deve essere solo un simbolo, come bene mostra la trasformazione dei sovrani scandinavi a partire dal 1914. Si potrebbe persino concepire un sistema parlamentare senza un Capo dello Stato distinto dal capo del governo, come accadde in Francia nel 1945-46. Inserito e premuto tra Parlamento e Capo dello Stato, il Governo finisce per diventare ancora più debole, instabile e impotente, a meno che il Presidente non domini il parlamento riducendolo all’impotenza come accadde in Germania a partire dal 1930, ma a questo punto non si può più parlare di regime parlamentare.
Al di là delle particolarità nazionali, la crisi del parlamentarismo si manifesta soprattutto come instabilità e impotenza governativa: partiti numerosi e irremovibili nelle loro opposizioni non permettono la formazione di maggioranze solide e durature, dando invece vita a coalizioni fragili, a successioni di governi di breve durata o, all’opposto, a governi più lunghi per l’incapacità di sostituire nuove maggioranze a quelle esistenti. In entrambi i casi si riduce la capacità di governo per cui essa si riduce sostanzialmente all’ordinaria amministrazione.
Le proposte per superare tale sfida all’istituto parlamentare sono assai diversificate a seconda dei paesi.
Lo sforzo per l’integrazione delle masse popolari
L’ingresso nella vita politica delle masse popolari poteva tradursi in due rischi essenziali per la borghesia al potere: o esse si impadronivano del potere e distruggevano il regime, oppure si isolavano da esso ripiegandosi su se stese; la prima ipotesi si realizzò solo nelle democrazie popolari posteriori al 1945, infatti le paure della borghesia la spinsero in precedenza a rifugiarsi tra le braccia dei fascismi distruggendo essa stessa il regime parlamentare in Italia e in Germania. Ma nulla di simile si verificò tra il 1919 e il 1939; le masse si integrarono nel regime parlamentare senza gravi urti sostanzialmente per due fattori: la disgregazione delle masse e l’evoluzione del socialismo.
Le masse popolari non formavano un blocco compatto contro la borghesia: in particolare i contadini erano pronti ad accettare i quadri politici borghesi e altre componenti delle masse hanno seguito tale via in quanto ambivano ad essere considerate esse stesse borghesi, soprattutto i quadri superiori (ingegneri, alti funzionari, direttori) e inferiori (capi-reparti, capisquadra) e gli impiegati, che pure spesso avevano una situazione economica modesta, ma rifiutavano di essere assimilati al proletariato. Per accelerare tale disgregazione la borghesia ha creato il concetto di classe media, sorta di stato cuscinetto nelle lotte di classe, incarnazione dell’ordine e dell’equilibrio. La classe media faceva cessare l’isolamento del proletariato aprendogli prospettive di ascesa: il sogno di questa meta lo integrava nel sistema borghese e dunque nel parlamentarismo. Tale trasformazione era favorita dal progresso tecnico da un lato, che aumentava il numero di impiegati e quadri in rapporto a quello degli operai propriamente detti e, dall’altro, dall’evoluzione delle democrazie parlamentari, in cui si moltiplicavano le istituzioni sociali, che le rendeva più vicine al proletariato.
L’evoluzione dei partiti socialisti si è rivelata parallela alla disgregazione delle masse sia agendo su essa, sia subendone l’influenza. All’inizio del secolo il problema riformismo o rivoluzione divideva i socialisti, cinquant’anni dopo non si parla nemmeno più di rivoluzione e lo stesso riformismo non rappresenta un sistema per corrodere dall’interno i regimi borghesi, ma ha finito per rivolgersi contro coloro che volevano servirsene. All’inizio del Novecento i partiti socialisti erano considerati una grave minaccia per le istituzioni parlamentari, oggi ne sono i più ferventi sostenitori. Se la trasformazione è estendibile alla quasi totalità dei partiti socialisti, le modalità con cui si è realizzata sono diverse e dipendono sostanzialmente dal ruolo e dall’azione dei sindacati: in Gran Bretagna e nei paesi nordici i sindacati ebbero all’inizio una tendenza nettamente riformista e diedero alla loro azione obiettivi limitati, precisi e immediatamente realizzabili; nello stesso tempo essi presero parte attiva all’azione politica creando in Gran Bretagna il partito socialista che da essi fu sempre dominato. In Germania, Paesi Bassi e Belgio, l’unione sindacati-partito è meno intima, ma comunque forte. Tale socialismo sindacale e realista accettò facilmente il sistema borghese, al prezzo di un certo numero di riforme sociali. In altri paesi, specie in Francia e Italia, l’orientamento sindacale fu diverso sin dalle origini: le organizzazioni sindacali si svilupparono tardi e con difficoltà, raccogliendo anche per questo motivo pochi iscritti e scarsi successi, restando a lungo nelle mani di una minoranza dinamica e intransigente, su una linea maggiormente rivoluzionaria. Rifiutando il compromesso con la società borghese hanno contemporaneamente rinunciato alla partecipazione alla vita politica nel quadro del parlamentarismo. I partiti socialisti hanno invece integrato una parte della classe operaia nel regime costituito subendo certo più dei loro fratelli sindacati la deformazione dovuta alla convivenza con un ambiente borghese: in questi paesi le riforme sociali sono state meno numerose, il parlamentarismo non si è socializzato come nei paesi nordici, ma, piuttosto, è stato il socialismo a parlamentizzarsi. In Gran Bretagna e nell’Europa settentrionale, dunque, il parlamentarismo ha superato la crisi cessando di essere un regime di classe per inglobare realmente tutta la nazione, anche se si potrebbe obiettare che le riforme sociali non hanno in realtà trasformato la natura del regime, ma piuttosto, hanno imborghesito la classe operaia che si è trovata ad ottenere condizioni di vita migliori rispetto ai paesi in cui tale processo non si è verificato. L’integrazione delle masse popolari rimane invece parziale in Francia e Italia, il che rende più fragile il regime parlamentare.
Le trasformazioni del sistema dei partiti
Fino all’avvento dei socialisti i regimi parlamentari europei si erano basati sull’antagonismo di due grandi partiti: i conservatori, rappresentanti della grande aristocrazia agraria legata al regime monarchico, e i liberali, la borghesia commerciale e industriale ispirata alle dottrine della Rivoluzione francese e americana e alla filosofia del XVIII secolo. Nei paesi cattolici i primi avevano l’appoggio del clero, mentre i secondi tendevano piuttosto all’anticlericalismo. In realtà all’interno di questi schemi generali esistevano numerose peculiarità: in Scandinavia esisteva un partito agrario di tendenza liberale sviluppatosi accanto all’aristocrazia conservatrice e solo successivamente si era aggiunto un partito liberale urbano; nei Paesi Bassi opposizioni religiose dividevano i conservatori in partito cattolico antirivoluzionario e cristiano- protestante; in Francia le divisioni della destra lungo tutto il XIX secolo in legittimisti, bonapartisti, orleanisti, repubblicani moderati impedivano l’organizzazione solida di un partito conservatore. Quasi ovunque, infine, una crisi era scoppiata alla fine dell’Ottocento in seno ai partiti liberali. Tuttavia si registrava ancora una divisione dell’opinione pubblica in due partiti che facilitava sia i voti sia la costituzione di maggioranze governative. L’ingresso dei partiti socialisti ha trasformato il duo in un trio, rendendo più oscura l’interpretazione dei voti e più difficile e fragile la costituzione di maggioranze. I rimedi furono diversi, ma tutti ugualmente inefficaci.
Il ritorno al bipartitismo in Gran Bretagna
Il bipartitismo britannico aveva subito alterazioni tra il XIX e il XX secolo anche prima della nascita del Partito laburista, in particolare per il ruolo politico assunto dai nazionalisti irlandesi che avevano svolto un ruolo di arbitraggio, sproporzionato alle loro dimensioni reali, tra i due "grandi". Tuttavia mai la supremazia dei due "grandi" era stata messa in discussione fino al 1922, quando entrarono nella camera dei Comuni 142 laburisti contro 114 liberali, nonostante fosse aumentata la percentuale di voti ottenuta da questi ultimi. L’anomalia sottolinea il sostanziale difetto del sistema maggioritario a un solo turno, quando esso si applica in elezioni triangolari. Il disordine elettorale raggiunse il massimo grado alle elezioni del 1924 e del 1929: nonostante l’opinione pubblica sopportasse bene queste vicende per l’attaccamento alle istituzioni parlamentari e al sistema elettorale, le conseguenze erano molto gravi sul piano governativo dal momento che o un partito non riusciva a costituire una maggioranza omogenea e stabile come era nella tradizione, oppure la maggioranza parlamentare corrispondeva a una minoranza del paese. La Gran Bretagna doveva dunque piegarsi a governi di coalizione tipici del continente, dove negli stessi anni i regimi parlamentari si trovavano nelle medesime difficoltà con frequenti scioglimenti delle camere: tra il 1918 e il 1931 la Francia ebbe tre parlamenti, l’Inghilterra sei e tra il 1922 e il 1924 gli Inglesi votarono ogni anno. Il sistema britannico ritrovò l’equilibrio a partire dal 1935: il partito liberale fu praticamente eliminato dalla scena politica e il bipartitismo si rimodellò sull’opposizione conservatori-laburisti. La Gran Bretagna ebbe il merito di non piegarsi al proporzionale, mantenendo invece il sistema maggioritario: se tale scrutinio aggravava la crisi dovuta al tripartitismo, esso determinò tuttavia anche l’esaurirsi di tale lotta triangolare. Meccanicamente il partito più debole veniva ulteriormente indebolito dal meccanismo dello scrutinio e psicologicamente i suoi elettori, consci dell’inutilità del loro voto, se ne allontanavano per confluire in quello dei due grandi a loro più vicino: questa polarizzazione si esasperò sino a giungere all’eliminazione del terzo partito.
L’Europa continentale: il governo di coalizione
Nessun paese dell’Europa continentale applicò mai il modello britannico: troppo grande era il prestigio del proporzionale, che sarà abbandonato dalla maggior parte dei paesi solo nel secondo dopoguerra, e troppo complessa era la divisione dei partiti, tale da non permettere il raggiungimento del perfetto dualismo britannico.
La risposta più comune alla crisi è stata la formazione di governi di coalizione, tuttavia ancora una volta il sistema elettorale non incitava alle alleanze, quasi necessarie invece nel caso del maggioritario sia per l’eventuale ballottaggio, sia per la suddivisione delle circoscrizioni in anticipo evitando le lotte triangolari nel caso di elezioni a turno unico: tale comunità di interessi si riflette a livello parlamentare, laddove invece le alleanze nel sistema proporzionale, se si costituiscono, sono molto più fragili. Nei Paesi Bassi, ad esempio, la vecchia alleanza conservatrice che durava dal 1868 non resistette all’introduzione del proporzionale nel 1925. Non bisogna certo esagerare l’influenza del sistema elettorale: In Francia, pur sussistendo il sistema maggioritario, le alleanze elettorali stentavano a mantenersi sul piano parlamentare (nelle legislature del 1924,1932, 1936) mentre in altri paesi (Norvegia e Danimarca) l’introduzione del proporzionale non modificò la durata dei ministri. In generale, però, il proporzionale fece sentire i propri effetti innanzitutto sotto forma di instabilità ministeriale: il cambiamento più netto è visibile in Svezia, nei Paesi Bassi e, soprattutto, in Belgio dove tra il 1831 e il 1918 la durata media dei governi è di tre anni e nove mesi, mentre tra il 1918 e il 1938 precipita a un anno e tre mesi. L’instabilità ministeriale fu criticata dall’opinione pubblica quando essa coincideva con una stabilità dei partiti sul piano parlamentare, anch’essa frutto del sistema proporzionale, o quando si assistette alla formazione di alleanze parlamentari al di fuori delle indicazioni fornite durante le elezioni.
Il rimedio all’instabilità fu per la maggior parte dei casi il ricorso a maggioranze di coalizione, esperienza nuova solo per il Belgio, che tuttavia si rivelarono perlopiù fallimentari giungendo talvolta a "punti morti" in cui nessuno dei due schieramenti era in grado di costituire una maggioranza. Si ricorse allora o al governo d’affari o al governo di minoranza. Nel primo caso gli incarichi ministeriali sono affidati a figure extraparlamentari (tecnici) con il sostegno di molti partiti delle camere così da ottenere la maggioranza; in questo senso si mossero Danimarca, Svezia e Paesi Bassi nella prima metà degli anni Venti. Il secondo metodo è molto diverso: si tratta di un governo monocolore di parlamentari dello stesso partito che pur non dispone della maggioranza; per sopravvivere il gabinetto così formato deve beneficiare del sostegno di altri partiti che gli accordano i propri voti senza partecipare alle responsabilità di governo. In Francia questo sistema è stato utilizzato per preparare la strada a un nuovo raggruppamento di partiti che potesse dar vita a un governo normale, in Scandinavia invece si utilizzò per altri scopi ovvero come mezzo per governare stabilendo un equilibrio tra i partiti, una sorta di tregua: in Danimarca dal 1945 tutti i governi sono di minoranza. Entrambe le soluzioni tuttavia, sovrapponendosi alla dissociazione operata da parte della rappresentanza proporzionale tra maggioranza parlamentare e voto degli elettori, contribuiva ad allontanare ulteriormente il governo dall'opinione pubblica. A tale risultato si tentò di reagire, in Francia e in Belgio, con il sistema dell’Unione Nazionale il cui fondamento era il tentativo di imitare il sistema praticato durante la prima guerra mondiale in cui tutti i partiti si erano uniti per sostenere insieme il governo. Il solo Belgio applicò integralmente il sistema e fu in tal modo possibile l’introduzione anche di misure impopolari senza che un partito ne approfittasse per fare della demagogia, poichè tutti ne portavano insieme la responsabilità. Inoltre tale tregua permise un rinnovarsi dell’attaccamento popolare all’istituzione parlamentare specie quando essa era minacciata da movimenti fascisti come il rexismo. L’applicazione francese non fu totale: il raggruppamento non riguardava tutti i partiti, ma solo quelli di uno schieramento ad eccezione di socialisti e comunisti. Il sistema ha essenzialmente il fine di impedire l’alleanza tra radicali e socialisti, asse portante di tutte le maggioranze a partite dal 1906, e di spingere i primi a collaborare con la destra. Da parte loro i radicali spesso accettano questa collaborazione, ma generalmente ritornano ad avvicinarsi ai socialisti nell’imminenza delle elezioni. Gli sforzi per raggiungere una maggioranza stabile hanno però raramente successo: il miglior esempio è la Cecoslovacchia in cui funzionava un’Unione Nazionale di centro appoggiata a quattro partiti. La Germania di Weimar tentò anch’essa una alleanza centrista attraverso l’unione dei socialdemocratici e del centro cattolico, ma tale coalizione ottenne la maggioranza assoluta solo nella prima legislatura mentre in seguito si trovò nella necessità di servirsi dell’appoggio di partiti minori, il che impedì ogni stabilità.
L’ascesa dei partiti dominanti
Rimedio assai efficace alla crisi del parlamentarismo, che tuttavia implica anche una sua profonda trasformazione, può essere senza dubbio ritenuta l’apparizione dei partiti dominanti ovvero la crescita di un partito in modo tale che esso diventi il più importante in termini assoluti, avvicinandosi da solo alla maggioranza assoluta cosi da diventare necessario per ogni maggioranza e l’asse attorno a cui essa si deve costruite. Esso domina per certi versi la maggioranza e, attraverso di essa, il paese. A partire dal 1906 il partito radicale francese si avvicinò al ruolo di partito dominante a causa della sua posizione di centro-sinistra nell’assemblea che lo rendeva indispensabile per ogni maggioranza come elemento di destra in una maggioranza di sinistra (nel 1906 e nel 1924) o viceversa (nell’Unione Nazionale). Il miglior esempio resta però quello dei partiti socialisti scandinavi, che conobbero una progressiva crescita di suffragio tra il 1919 e il 1939 raggiungendo anche talvolta la maggioranza assoluta (in Svezia nel 1940 e in Norvegia nel 1949). Il loro appoggio era indispensabile per governare e avvenne così che il loro programma politico fu progressivamente realizzato: dopo la seconda guerra mondiale un processo simile si è verificato a vantaggio de partiti democristiani, specie in Germania e in Italia e, in misura minore, in Belgio. La dominazione portò però nuovamente alla crisi il regime parlamentare introducendo un elemento di stabilità eccessiva , benchè l’instabilità ministeriale non fosse necessariamente cancellata, se si esclude la Danimarca del periodo 1929-1939. Ma non è questo l’indice da osservare; se infatti i gabinetti cambiano, ma continuano ad applicare la medesima politica, si può parlare di stabilità governativa dietro l’apparente instabilità.
I tentativi di modificazione delle istituzioni politiche e le distorsioni del regime parlamentare
Poiché la crisi si poneva soprattutto a livello di infrastruttura (classi sociali, regime economico, partiti politici) piuttosto che a livello costituzionale, nacque per farvi fronte, specie in Francia, il mito della riforma delle istituzioni. Tuttavia un regime politico non è una giustapposizione di istituzioni che si possano modificare separatamente, e ogni intervento di riforma rischia di essere parziale e pertanto inutile o controproducente.
Una delle misure più diffuse fu l’uso da parte del governo dello scioglimento delle Camere, tecnica che appartiene in realtà alla pratica parlamentare, specie britannica. Alcuni paesi pensarono però di utilizzarlo come strumento contro l’instabilità ministeriale, legandolo al voto di sfiducia: se la camera rovescia il governo, questo la scioglie. Il sistema appariva come la proposta di un più marcato equilibrio tra i due poteri che rispettava d’altro canto il carattere democratico del regime in quanto il popolo poteva fare da arbitro tra parlamento e Governo. D’altra parte il timore di perdere il seggio e di affrontare di nuovo le spese di una campagna elettorale avrebbe dovuto incitare i deputati alla saggezza e alla moderazione davanti al governo, riducendo la frequenza della sfiducia: si trattava di un efficace mezzo di pressione sul parlamento a disposizione del governo. Lo scioglimento serviva in realtà piuttosto a favorire il partito al potere permettendogli di ricorrere alle urne nel momento ritenuto da esso più favorevole e di far decidere all’opinione pubblica le grandi questioni su cui i due partiti non riuscivano a trovare un accordo, come in un referendum. Del resto anche l’idea di rendere il popolo arbitro di un conflitto tra i due poteri era illusoria in presenza di un sistema proporzionale, poiché le variazioni di seggi sono in genere minime tra uno scrutinio e l’altro. Resta però il fatto che il timore di uno scioglimento limita i voti di sfiducia, ma si deve temere allora che i governi così mantenuti artificialmente in carica non godano di grande autorità e che l’impotenza sia una loro caratteristica primaria. Nell’insieme l’uso di tale strumento rimase limitato: in Francia se ne parlò molto tra il 1934 e il 1935, mentre più spesso fu applicato dalla repubblica di Weimar, rivelandosi però incapace di portare a maggioranze più stabili e, anzi, aggravando le divisioni dei partiti e contribuì a provocare il disinteresse popolare verso il regime; anche in Spagna i due scioglimenti del 1933 e del 1936 indebolirono il regime più che rafforzarlo. Nelle nuove democrazie dell’Europa orientale lo scioglimento si rivelò il mezzo privilegiato per assicurare il predominio del Capo dello Stato e distruggere le basi delle neonate democrazie. Unica eccezione è la Danimarca dove ancora oggi è unanimemente ammesso che ogni voto di sfiducia implichi nuove elezioni e con il risultato che dal 1945 la durata dei gabinetti coincide sempre con quella della legislatura.
Molto più sviluppato e usato è stato il sistema dei decreti-legge ovvero il trasferimento all’esecutivo del potere di legiferare su alcune materie formulando decreti aventi forza di legge. Il sistema nacque durante la guerra sotto la spinta della necessità e, terminata la guerra, apparve come antidoto alla crisi del parlamentarismo: la legge inglese del 1920 aumentava in tempo di crisi il potere dei governi in ambito legislativo e tali prerogative furono estese nel 1931, per fronteggiare le difficoltà economiche, e, ancora, durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. In Francia la pratica fu inaugurata nel 1925 e in Italia fu particolarmente sfruttata tra il 1921 e il 1922 prima dell’avvento di Mussolini e lo stesso vale per Belgio, Germania e Polonia. Si possono delineare tre momenti in cui l’uso del decreto-legge fu particolarmente frequente: negli anni Venti, per risolvere le difficoltà sorte dopo la prima guerra mondiale, tra il ‘30 e il ’35 per sopperire alla grave crisi economica, nel ‘38-’39 per far fronte all’aggravarsi delle tensioni internazionali. In tutti i casi il ricorso ai decreti-legge avvenne senza interventi costituzionali e molti giuristi si sono interrogati sulla legittimità del provvedimento, ritenuto contrario al fondamento del sistema parlamentare che attribuisce al parlamento il potere legislativo, ma la pressione degli eventi fu spesso tale da cancellare ogni remora giuridica. Talvolta i decreti-legge hanno permesso la risoluzione di questioni economico-finanziarie, altrimenti difficilmente superabili, ma non hanno accresciuto né la stabilità del governo, né la sua autorità poiché l’impossibilità di appoggiarsi a una maggioranza omogenea gli impedì spesso di avere una volontà e un orientamento precisi. I decreti-legge risolvono situazioni tecniche urgenti, ma non definiscono una linea politica e, inoltre, contribuiscono a accrescere l’importanza dei tecnici rispetto a quella dei ministri. Del resto anche le assemblee, delegando le loro funzioni all’esecutivo, perdono prestigio e tali semi-dimissioni del parlamento sono un fenomeno grave: basti pensare che in Francia, nel 1940, le assemblee, spinte ormai dall’abitudine, abbandonarono la Costituzione e la stessa repubblica con un decreto-legge.
Gli sforzi di modifica delle istituzioni hanno preso infine una terza direzione: l’accrescimento dei poteri del Capo dello Stato. L’esempio più evidente è quello della Costituzione tedesca di Weimar. Il presidente del Reich poteva contare infatti sull’elezione diretta da parte del popolo, sul diritto di revoca del governo anche indipendentemente dal voto di sfiducia delle Camere, sul diritto di sciogliere il Parlamento e sulla possibilità di legiferare per mezzo di decreti-legge. Specialmente la prima prerogativa avvicinava la Germania a un sistema presidenziale, ma, combinata con le altre, metteva seriamente in pericolo il regime parlamentare: per mezzo dello scioglimento il Presidente tedesco tentò di imporre al Parlamento governi presidenziali minoritari e, usando a vantaggio di questi ultimi la facoltà di operare per decreti-legge, egli potè di fatto fare a meno del Parlamento preparando la via alla dittatura hitleriana.
Nelle nuove democrazie parlamentari dell’Europa orientale gli esempi di tale deformazione si potrebbero moltiplicare, ma il più delle volte l’aumento di importanza del Capo dello Stato coincideva con un’aperta violazione delle norme costituzionali ovvero con la fine del regime parlamentare. Solo in Cecoslovacchia il Presidente seppe esercitare un’influenza reale e profonda sulla vita politica senza attentare al parlamentarismo. Lo sviluppo dei poteri del Capo dello Stato è del resto in contrasto con i presupposti del regime parlamentare e rischia perciò di aggravarne la crisi: storicamente il dualismo Capo dello Stato-Governo è una sopravvivenza monarchica, mentre il Capo dello Stato, oggi, è e deve essere solo un simbolo, come bene mostra la trasformazione dei sovrani scandinavi a partire dal 1914. Si potrebbe persino concepire un sistema parlamentare senza un Capo dello Stato distinto dal capo del governo, come accadde in Francia nel 1945-46. Inserito e premuto tra Parlamento e Capo dello Stato, il Governo finisce per diventare ancora più debole, instabile e impotente, a meno che il Presidente non domini il parlamento riducendolo all’impotenza come accadde in Germania a partire dal 1930, ma a questo punto non si può più parlare di regime parlamentare.
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