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giovedì 16 giugno 2011

Costituzione per internet di Stefano Rodotà


La primigenia democrazia elettronica è scomparsa prima ancora d'essere nata. Nessuno, oggi, proporrebbe la sostituzione del parlamento con un "congresso virtuale", come fece nel 1994 un politico americano, Newt Gingrich, in quel "Contratto con l'America" che fece scuola anche dalle nostre parti, e che annunciava appunto che sarebbero stati direttamente i cittadini, con votazioni rese possibili dalle tecnologie elettroniche, a prendere le decisioni fino ad allora di competenza del Senato e della Camera dei rappresentanti. Oggi, quando si discute di democrazia elettronica, l'attenzione non è rivolta verso consultazioni continue dei cittadini, non si esaurisce nel prospettare referendum elettronici, nel progettare una democrazia "casalinga", dove ciascuno interviene premendo un bottone collocato accanto ad un televisore.

Ma non sono scomparse le prospettive e le promesse di una democrazia rinnovata, o comunque trasformata, dalle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Si moltiplicano, anzi, i riferimenti ad una società e ad una democrazia in rete, ad una cyberdemocrazia, ad una democrazia "estrema", alle "primarie modello Pericle" di cui ha parlato questo giornale (10 giugno) riferendo della sperimentazione in Grecia dei cosiddetti "sondaggi deliberativi", messi a punto da uno scienziato politico americano, James Fishkin, con la collaborazione del giurista Bruce Ackerman.

Che cosa è cambiato nel decennio passato? Ci si è resi conto del fatto che non stavamo passando, con una discontinuità radicale, dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, ma vivevamo l'insinuarsi nelle nostre società di una vera e propria democrazia "continua", che si manifesta con il ricorso ai sondaggi e alle mobilitazioni via Internet, con la diffusione delle informazioni e l'accesso planetario alla conoscenza, con la progressiva trasformazione dei rapporti tra politica e cittadini. Quello che sta nascendo è un nuovo spazio pubblico, anzi il più grande spazio pubblico che l'umanità abbia conosciuto. E qui globale e locale trovano forme nuove di manifestazione e d'incontro.

Proprio per reagire al rischio del trasformarsi della democrazia elettronica nella forma politica congeniale al populismo ed alla logica plebiscitaria, si era progressivamente spostata l'attenzione sulla dimensione locale. La "democrazia di prossimità" si presentava come il miglior antidoto alla riduzione della partecipazione dei cittadini ad un simulacro di potere e di sovranità, con le loro voci chiamate a manifestarsi solo per dire un sì o un no a soluzioni messe a punto da altri, in un contesto troppo spesso segnato da appelli plebiscitari che fanno precipitare la politica nella "democrazia delle emozioni". Lì, nella dimensione locale, tutto questo appariva impossibile, o almeno più difficile. La conoscenza diretta dei problemi e la maggior vicinanza con gli amministratori pongono le premesse per una partecipazione critica e consapevole, e per questo più esigente.

Via via che le esperienze locali maturavano, ci si avvedeva quanto fosse inadeguata una interpretazione difensiva e minimalista delle reti civiche, della democrazia municipale. Non v'era la riduzione su scala minore di un modello di più ampie dimensioni. Si è progressivamente costruita una realtà variegata, con caratteri di crescente originalità, tendente alla diffusione di un potere che dà evidenza ad una presenza diretta dei cittadini qualitativamente diversa da quella descritta con la contrapposizione della democrazia diretta a quella rappresentativa. Al tempo stesso, però, è mutata pure la dimensione generale, non più luogo da esorcizzare per le tentazioni populiste che evocava.

Si è descritto questa situazione parlando di un passaggio dalla teledemocrazia alla cyberdemocrazia, mettendo così in evidenza la rilevanza della tecnologia adoperata nel definire i caratteri dello spazio pubblico che contribuisce a definire. È chiaro che assai diverse sono le situazioni a seconda che ci si riferisca ad una realtà che non conosce ancora la diffusione di massa dei personal computers o ad una caratterizzata da una maturità della rete, dalle opportunità crescenti offerti dalla telefonia cellulare. La dimensione della democrazia è proiettata al di là delle procedure di deliberazione, anche se descritte con il suggestivo riferimento all'agorà.

La democrazia elettronica si coglie nel modo stesso in cui la rete si sviluppa e si struttura, in primo luogo come luogo di produzione e diffusione di conoscenza, di una conversazione continua e senza frontiere, di una testimonianza immediatamente percepibile di diversità, e per ciò di quella continua esposizione alle opinioni degli altri nella quale si coglie la radice della moderna laicità e, in questo senso, della stessa democrazia. Ad esempio, i blogs e i video blogs determinano un decentramento della produzione di contenuti e immagini che non costruisce però una sfera diversa e separata, appunto la "blogsfera", ma ridefinisce il modo di stare in rete, contribuendo alla sua complessiva democratizzazione.

Così il cittadino della democrazia locale non è più un essere protetto dai vizi di quella globale. La logica locale non si risolve tutta nel pur importantissimo potere acquisito dai cittadini di conoscere e controllare quel che accade in un determinato ambito territoriale. Si presenta anche come la porta per accedere alla dimensione globale, dove esercitare ulteriormente le opportunità di partecipazione. Il "diritto ad Internet" interroga le amministrazioni locali e si presenta come un aspetto essenziale della cittadinanza elettronica.

Non può esservi una e-democracy che non sia fondata su una e-inclusion. Considerate dal punto di vista del cittadino, le tecnologie elettroniche propongono una diversa misura del mondo. Ma non perché propongano rotture e discontinuità radicali. Si manifestano, invece, soprattutto attraverso l'integrazione tra diversi mezzi e tra diverse dimensioni dell'agire sociale e politico.
Lo sguardo, tuttavia, non può essere rivolto solo a questi promettenti sviluppi. Spesso ai cittadini viene promesso un futuro pieno di efficienza amministrativa e occultato un presente in cui si moltiplicano gli strumenti di un controllo sempre più invasivo e capillare. Sembra quasi che si stiano costruendo due mondi non comunicanti, e che l'e-government, l'amministrazione elettronica, possa evolversi senza tener conto della contemporanea compressione di diritti individuali e collettivi, motivata con esigenze di efficienza o di sicurezza.

La "resa democratica" delle tecnologie dev'essere misurata considerando l'insieme dei loro effetti sociali. Altrimenti pure l'efficienza può essere vittima della schizofrenia istituzionale. La presenza del cittadino nei processi di e-government, utilizzando per via elettronica servizi offerti dal comune o intervenendo in procedure pubbliche, è sempre accompagnata da registrazioni dei suoi dati. Ma questi come saranno utilizzati? Verranno cancellati, serviranno per costruire profili di cittadini attivi o liste di "attivisti" da tenere sotto controllo? Senza certezze su questo punto, si rischia di disincentivare la partecipazione, perché il cittadino potrebbe astenersi dal cogliere le nuove opportunità proprio per allontanarne da sé le possibili conseguenze indesiderate. Non si può costruire una partecipazione separata da un rigoroso rispetto di tutti i diritti dei partecipanti. Non è possibile separare la questione dell'e-government da quella dell'e-democracy.

Una democrazia a due velocità può divenire una tragica caricatura della democrazia. Non si può accettare, allo stesso tempo, il rafforzamento del cittadino nella dimensione locale e la trasformazione della persona in una entità perennemente controllata, fino a mutare il suo corpo in funzione dei tipi di controllo ai quali si vuole sottoporlo. Non si può, in nome dell'efficienza, modellare il rapporto tra le amministrazioni e i loro cittadini adottando il solo criterio della "soddisfazione del consumatore" o seguendo la via pericolosa di grandi collegamento tra le banche dati in mano pubblica. Non si possono far prevalere in Internet le logiche puramente di mercato, deprimendo appunto le utilizzazioni "civiche" e facendo nascere vecchie e nuove forme di censura. Non si può recintare la conoscenza, attribuendo un primato a superate logiche proprietarie. Non si può, in definitiva, far sì che le tecnologie del controllo oscurino quelle della libertà.

È tempo che su questo si sviluppi un vero dibattito pubblico, al quale proprio le esperienze locali possono offrire un eccellente nutrimento, orientate come sono verso la produzione di un "social software", di un insieme di strumenti e di opportunità di intervento utilizzabili dai cittadini, che trovano significative conferme nelle iniziative che hanno accompagnato, tra l'altro, l'ultima campagna per le elezioni presidenziali americane. Ma l'occhio sulla ricchezza delle azioni locali non può trasformarsi in un esplicito o implicito argomento a favore di chi volge la propria attenzione verso un "neo-medievalismo istituzionale", inteso non come uno strumento analitico per comprendere l'attuale frammentazione dei poteri, bensì come il modello da adottare. La traccia da seguire non è certo quella delle impossibili restaurazioni della sovranità nazionali. Ma un mondo senza centro non equivale a un mondo senza regole, che vanno invece costruite pazientemente per approdare ad una "Costituzione per Internet". Un traguardo difficile, ma una utopia necessaria in un mondo nel quale l'apparenza della distribuzione e della dispersione dei poteri non può farci ignorare le leggi ferree che grandi poteri politici ed economici continuano ad imporre a tutti.

di STEFANO RODOTÀ

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