Storia della guerra contro l'Iraq condotta nel 1991 da una coalizione internazionale guidata dagli USA sotto le bandiere dell'ONU: gli avvenimenti, i protagonisti e le ragioni profonde che la causarono.
Il 2 agosto 1990 l'esercito iracheno varca il confine con il Kuwait e procede a occupare il piccolo emirato. Non vi è praticamente resistenza. L'emiro, la sua famiglia e tutta la classe dirigente kuwaitiana si rifugiano all'estero. Il Kuwait rimane sotto occupazione irachena circa sette mesi, durante i quali vengono giustiziate alcune centinaia di persone.La reazione internazionale è immediata. Due giorni dopo l'invasione del Kuwait Washington decide di inviare delle truppe in Arabia Saudita, e il 6 agosto il Consiglio di Sicurezza dell'ONU decreta l'embargo nei confronti dell'Iraq. A fine agosto il Consiglio di Sicurezza autorizza l'uso della forza per imporre l'embargo. Da settembre inizia a formarsi l'alleanza politica e militare attorno agli Stati Uniti, a partire dall'Unione Sovietica sotto la direzione Gorbacev. Il 29 novembre il Consiglio di Sicurezza autorizza l'uso della forza per obbligare l'Iraq a lasciare il Kuwait, e fissa un ultimatum per il 15 gennaio 1991: le truppe schierate in Arabia Saudita raggiungono a gennaio il numero di 670.000 persone, di cui mezzo milione statunitensi. Il ritiro dell'Iraq dal Kuwait per l'alleanza costruita sotto l'egida degli Usa deve essere incondizionato, e per questo motivo vengono respinte tra agosto e gennaio numerose proposte di mediazione provenienti da Baghdad.
Il 16 gennaio iniziano i bombardamenti su Iraq e Kuwait: è il più pesante raid aereo della storia, senza paragoni sia con la guerra vietnamita, sia con i successivi bombardamenti su Serbia e Kosovo nel 1999 e sull'Afghanistan nel 2001. Il 24 febbraio, dopo cinque settimane di bombardamenti, inizia l'offensiva terrestre della coalizione in Kuwait e Iraq: il giorno successivo Baghdad ordina il ritiro delle proprie truppe dal Kuwait, che vengono massacrate dall'aviazione statunitense sull'autostrada che collega Kuwait City a Bassora. Il 28 febbraio Baghdad capitola, accettando tutte le condizioni. Viene firmato il cessate il fuoco.
Secondo fonti statunitensi l'esercito iracheno avrebbe sofferto 100.000 morti, mentre secondo fonti irachene i civili iracheni uccisi sarebbero stati 35.000. Gli Stati Uniti hanno contato 300 vittime nelle proprio esercito (di cui però la metà lontano dai teatri di guerra, per incidenti di ogni genere e specie). Nel corso di questi ultimi dodici anni sono morti 7.800 ex soldati statunitensi, per malattie contratte durante la guerra del Golfo (la cosiddetta sindrome del Golfo), a causa dell'uso di munizioni all'uranio, dei bombardamenti alleati dei pozzi petroliferi e di fabbriche chimiche, e così via.
Fin dal 27 febbraio il sud dell'Iraq insorge contro Baghdad, e molti soldati iracheni in fuga dal Kuwait si uniscono alla popolazione sciita che si rivolta contro Saddam Hussein. Nel giro di due settimane tutto il sud iracheno Ë controllato dai ribelli, ma Baghdad con il consenso degli Stati Uniti riesce a organizzare un'offensiva e a riprendere il controllo del territorio. La repressione è feroce e centinaia di migliaia di persone si rifugiano in Iran o si nascondono nelle paludi. Alcune sporadiche rivolte si registrano nel cuore dell'Iraq, ma è nel Kurdistan iracheno, a nord, che scoppia una insurrezione di massa contro Saddam Hussein, a partire dal 7 marzo. Le truppe irachene dopo aver schiacciato la rivolta a sud riescono a reprimere anche quella kurda a nord, sempre con il benevolo consenso di Washington: tra fine marzo e i primi di aprile del 1991 più di due milioni di kurdi si rifugiano in condizioni umanitarie terribili in Turchia e in Iran. Solo dopo molti tentennamenti il Consiglio di Sicurezza dell'Onu adotta una risoluzione in aprile perché si crei una zona nell'Iraq del nord dove i kurdi possano essere rimpatriati al riparo dalla repressione di Baghdad: su questa base inizia il rientro dei profughi kurdi, e l'avvio, il 19 aprile, di negoziati tra Saddam Hussein e i leader kurdi. A giugno viene formata una zona autonoma kurda nel nord dell'Iraq, e a ottobre, dopo il fallimento dei negoziati, Baghdad ordina come rappresaglia il ritiro di tutto il proprio personale dal Kurdistan iracheno (ad eccezione del territorio di Kirkuk, ricco in petrolio, che rimane sotto il controllo di Baghdad) e un embargo totale. Da allora esiste un territorio autonomo, di fatto indipendente, del Kurdistan iracheno, con proprie istituzioni.
L'emiro del Kuwait rientra nel suo paese il 14 marzo 1991. Provvede all'espulsione degli immigrati palestinesi (400.000 persone) e fa giustiziare alcune centinaia di persone. L'unico giornale vagamente critico del suo operato viene immediatamente fatto chiudere.
I motivi dell'invasione del Kuwait.
Saddam Hussein era salito al potere in Iraq nel 1968, con un colpo di stato il cui primo obiettivo era di schiacciare un fuoco guerrigliero di ispirazione guevarista nel sud del paese, a cui si stava unendo una scissione di sinistra del Partito Comunista iracheno. Nel corso dei successivi dieci anni Saddam Hussein ha represso in modo feroce qualsiasi tipo di opposizione alla sua dittatura personale: la ribellione kurda del 1974, i comunisti di tutte le tendenze, anche frazioni del proprio stesso partito (il Partito della resurrezione araba socialista - Baath), sono stati tutti annegati nel sangue. Ogni gruppo o ogni individuo recalcitrante Ë stato liquidato o neutralizzato. L'irresistibile ascesa di Saddam Hussein Ë culminata nel 1980, con la concentrazione di tutti i poteri nelle sue mani, e da allora è iniziato un grottesco culto ufficiale della sua personalità. La dittatura di Saddam Hussein si basa su una burocrazia borghese civile, militare e poliziesca, a cerchi concentrici, largamente determinati dall'appartenenza alla famiglia, al clan o alla provincia (Takrit) del tiranno. I privilegi di questa burocrazia sono assicurati dalla rendita petrolifera dello stato iracheno.
Nel settembre 1980 l'Iraq attacca l'Iran, dove l'anno precedente una vittoriosa rivoluzione era riuscita a cacciare il regime dello Scià: l'obiettivo iracheno era di appropriarsi dei campi petroliferi dell'Arabistan iraniano (la principale regione petrolifera iraniana) ed affermarsi cosÏ come potenza regionale dominante. La guerra dura piš di otto anni, e dalla sola parte irachena i morti sono 300.000. A queste vittime devono essere aggiunti almeno 100.000 kurdi (alcune fonti kurde arrivano alla cifra di 180.000 vittime) massacrati dall'esercito nel nord dell'Iraq dal 1987 al 1989, con l'operazione denominata Anfali, con largo uso di armi chimiche, che portò alla distruzione della maggioranza dei villaggi del kurdistan iracheno (il caso-simbolo di questa repressione, grazie alla disponibilità di documenti fotografici, Ë stato lo sterminio il 16 marzo 1988 di tutti gli abitanti del villaggio di Halabdja, circa 5.000 persone, con iprite e gas sarin, mentre i sopravvissuti vennero spianati con i bulldozer). Il cessate il fuoco con l'Iran venne firmato nel 1988, senza che la frontiera esistente prima del conflitto fosse modificata.
Le distruzioni materiali provocate dalla guerra con l'Iran furono enormi (stimate a 150 miliardi di dollari), e Baghdad uscì dalla guerra con un indebitamento di 60 miliardi di dollari, oltre a ritrovarsi con un esercito totalmente sproporzionato rispetto alle dimensioni (un milione di persone mobilitate) che può mantenere. La crisi finanziaria del Paese dopo la guerra del Golfo del 1980-1988 non fece che aumentare, e i vari paesi arabi ed emirati che avevano sostenuto l'Iraq nella guerra contro l'Iran non accettavano di continuare a sovvenzionarlo. E in questa situazione che matura la decisione di occupare il Kuwait (uno stato artificiale creato dall'imperialismo britannico delineando un confine attorno ai pozzi petroliferi, proprietà personale dell'emiro e della sua famiglia, dove nessun minimo diritto democratico era garantito): un'occupazione permanente e l'annessione del Kuwait all'Iraq avrebbe risolto tutti i suoi problemi finanziari grazie alla rendita petrolifera aggiuntiva, mentre un accordo di mediazione (in cambio del ritiro dal Kuwait) avrebbe comunque portato risorse aggiuntive.
Baghdad non si aspettava una reazione statunitense e internazionale così determinata e inflessibile (numerosi altri casi simili nel passato non avevano provocato reazioni significative a livello internazionale, per Israele, per l'Iran, il Marocco, la Turchia, l'Indonesia, ecc.) contando piuttosto che la fine della guerra fredda avrebbe consentito un maggior margine di manovra rispetto al passato per un paese come il suo, lasciando comunque spazi per mediazioni vantaggiose. Una volta resosi conto che così non era, il regime di Saddam Hussein non poté ritirarsi senza passare attraverso la guerra del 16 gennaio 28 febbraio 1991 (il cui esito, vista la sproporzione nel numero delle vittime, era scontato), in quanto la legittimazione del suo regime ne sarebbe uscita a pezzi.
I motivi della guerra del Golfo: la sindrome vietnamita.
Gli Stati Uniti erano rimasti profondamente segnati dalla sporca guerra che avevano condotto in Vietnam, con una delegittimazione interna ed internazionale in materia di operazioni militari all'estero che doveva accompagnarli per decenni. Il tentativo (timido) di effettuare un intervento militare all'estero da parte del falco Reagan era terminato in modo catastrofico: nel 1983 gli Usa si ritiravano dal Libano dopo aver subito in due attentati 305 perdite. L'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein offrì un'occasione ideale a Bush per tentare di superare l'inibizione statunitense in fatto di guerra ritornare ad una situazione di normalità in base alla quale la maggior potenza militare del mondo potesse essere in grado di sfruttare la propria superiorità. Nel 1990-1991 l'argomentazione-chiave fu il rispetto del diritto internazionale, mentre successivamente venne invocata la difesa della democrazia (Haiti), la guerra umanitaria (Somalia, Bosnia e Serbia), ed oggi la guerra al terrorismo (Afghanistan). La grande variabilità delle argomentazioni ideologiche per dare legittimità alle guerre e alle offensive militari scatenate in varie parti del mondo traducono la debolezza intrinseca di ciascuna di queste argomentazioni (riassumibili tutte nel fatto che i buoni motivi sono sempre selettivi) e la difficoltà persistente a ritrovare una legittimità in primo luogo interna alle azioni dell'imperialismo statunitense. Da questo punto di vista la situazione odierna Ë ancora ben lungi dall'essere paragonabile a quella dei 25-30 anni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, passati sotto il segno della lotta al comunismo (e di un miglioramento nelle condizioni di vita grazie al boom economico). Un segnale inequivocabile fu la poco gloriosa ritirata statunitense dalla Somalia nel 1994.
Oggi Bush il piccolo riprende tutta la retorica degli stati canaglia inaugurata da suo padre all'inizio degli anni í90, ma come questa retorica aveva mostrato tutti i suoi limiti nel corso degli anni í90 (i continui bombardamenti condotti sull'Iraq da Usa e Gran Bretagna sono sempre stati condotti nel piš totale isolamento internazionale, e sottoposti a critiche sempre piš ampie all'interno degli stessi Stati Uniti; l'isolamento dell'Iran Ë fallito proprio grazie ai piš fedeli alleati degli Usa, in primo luogo l'Arabia Saudita; e cosÏ via), cosÏ costituisce oggi una argomentazione ben piš debole, visto che i cosiddetti stati canaglia non fanno nulla per essere considerati tali. La guerra del Golfo di dodici anni fa fece credere ai dirigenti di Washington di aver girato definitivamente pagina dopo i giorni bui del 1974 (quando gli Usa furono costretti a ridurre in modo decisivo la propria presenza in Indocina, con la conseguente caduta l'anno successivo dello stato fantoccio del Vietnam del Sud) ma ancora oggi questi dirigenti si ritrovano con lo stesso problema: il fantasma sempre presente della contestazione di massa contro il bellicismo Usa che fece affondare l'impresa vietnamita. Il consenso interno per ogni azione militare deve essere conquistato volta per volta e non può essere mai considerato definitivamente acquisito: per questo l'insistenza odierna sulle guerre lampo, su un numero di (proprie) vittime limitato e sullo sviluppo tecnologico in materia di armamenti (i tre quarti delle spese mondiali per ricerca e sviluppo in campo militare sono effettuati negli Usa), in grado di compensare la debolezza del fattore umano.
I motivi della guerra del Golfo: assicurare i flussi di capitali.
La motivazione fondamentale che spinse gli Stati Uniti alla guerra del Golfo fu quella di garantirsi un flusso di capitali in entrata. Nel 1990 (e molto piš oggi) il capitalismo statunitense Ë dipendente dal fatto che un flusso costante di capitali provenienti da tutto il mondo entri in patria. Uno di questi flussi, non quantificabile ma estremamente importante, era ed Ë quello proveniente dai vari paesi che godono di una rendita petrolifera, che viene investita da questi paesi nelle azioni e nei titoli di stato Usa, o viene spesa per l'acquisto (sovrapprezzo!) di armamenti sempre provenienti dagli Usa. Nel 1990 gli Stati Uniti conoscevano una recessione economica (come oggi) che rendeva il capitale ancora piš sensibile a questo fattore: una modificazione degli equilibri nel golfo persico, dove sono concentrati questi stati rentieri (la banda dei quattro: Kuwait, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti) metteva pericolosamente in discussione questi vitali flussi di capitali, e richiedeva un intervento per ristabilire lo status quo ante. La creazione di un regime in Iraq, al posto di quello di Saddam Hussein, che garantisse un flusso aggiuntivo di questi capitali era certamente un obiettivo ben gradito a Washington, ma gli Stati Uniti si scontrarono con l'assenza di una carta di ricambio che cercarono inutilmente nei piš alti vertici dell'esercito iracheno. Lo scoppio di rivolte e insurrezioni contro il regime di Baghdad nel marzo 1991 venne visto come un grave pericolo poiché poteva portare esattamente all'opposto di quello che veniva ricercato: un Iraq democratico, federale, concentrato sulla propria ricostruzione. Sarebbe stato l'evento piš distruttivo per tutta la regione, dove esistono solo regimi autocratici terrorizzati dalla possibilità di movimenti rivoluzionari al proprio interno. Per questo concesse tutto quanto era necessario al regime di Saddam Hussein per poter schiacciare queste rivolte.
In questo groviglio di interessi Washington non poteva permettersi di marciare su Baghdad nel febbraio 1991. Come ironicamente raccontava il buon soldato Scívéik più di ottanta anni or sono, non è mica una cosa così semplice penetrare in questo o quel paese! Ognuno Ë capace di farlo, ma poi, venirne fuori, questa sÏ che Ë vera arte militare! Quando uno entra in un posto, deve sapere tutto quello che succede intorno, per non doversi trovare tutt'a un tratto dinnanzi a qualche difficoltà, vale a dire dinnanzi a una catastrofe. Ad esempio una volta a casa nostra, ancora nel vecchio edificio, acchiapparono nel solaio un ladro; quel mariuolo aveva notato, quando era entrato dentro, che c'erano certi muratori i quali stavano proprio allora riparando un abbaino, e dunque riuscì a svincolarsi, freddo la portinaia e scese giš per le scale fino a raggiungere il lucernario, ma poi di lÏ non poté più uscir fuori. Il nostro vecchio Radetzky, invece, conosceva ogni strada, non riuscivano mai a pizzicarlo.
Nel 1990-1991 (e così è ancora oggi) il controllo del petrolio in quanto tale da parte degli Usa non fu una delle motivazioni per la guerra. Dalla prima metà degli anni í70 il mercato del petrolio Ë un mercato perfettamente internazionalizzato, dove i vari produttori di petrolio nel mondo si fanno direttamente concorrenza l'uno con l'altro. In questo modo il prezzo del petrolio Ë fissato dal funzionamento del mercato stesso, secondo un meccanismo conosciuto in economia come quello della rendita marginale, e non da accordi tra vari stati produttori che decidono di aumentare o diminuire la produzione, accordi che tutt'al piš possono influire sul prezzo mondiale in modo marginale e temporaneo. Il prezzo del petrolio sulla base di questo mercato non viene fissato nel golfo persico, ma dall'industria petrolifera statunitense, la meno produttiva esistente oggi sul pianeta, e garantisce una cospicua rendita a tutti i paesi con una produttività maggiore nell'estrazione del petrolio. Che il petrolio in sé non fosse la questione chiave venne dimostrato proprio dal biennio 1990-1991, quando si ebbe contemporaneamente il crollo della produzione di petrolio in URSS, e il blocco della produzione ed esportazione di quello iracheno e kuwaitiano: il mercato internazionale non soffrì di mancanza nell'offerta di petrolio e i prezzi dopo una breve e limitata impennata tornarono ad essere quelli esistenti prima della crisi internazionale.
Un bilancio.
Gli Stati Uniti sono riusciti, nello scorso decennio, a mantenere stabile la situazione del golfo persico, assicurandosi il flusso costante dei capitali di cui abbisognavano.
Tuttavia il costo umano, anche dopo la fine della guerra del golfo, Ë terribile. La popolazione irachena Ë sottoposta da dodici anni a sanzioni economiche che, secondo la prestigiosa rivista Foreign Affairs, sono delle sanzioni di distruzione di massaî, con circa 90.000 decessi all'anno. In un articolo nel 1999, i due professori americani John e Karl Mueller dopo aver stimato a 400.000 il numero totale dei morti provocati nella storia da armi di distruzione di massa (nucleare, chimiche e biologiche, ad esclusione delle camere a gas naziste) concludevano, usando il condizionale per attenuare l'impatto delle loro affermazioni: Se le stime dell'Onu delle perdite umane in Iraq sono corrette, anche solo approssimativamente, appare dunque che le sanzioni economiche costituirebbero la causa della morte in Iraq di piš persone di quante ne siano mai state massacrate nella storia da tutte le armi cosiddette di distruzione di massaî.
Tuttavia non solo il regime di Saddam Hussein Ë ancora al suo posto, e la carta di ricambio militare ricercata nel 1990-1991 pare non ci sia ancora oggi, ma anche il regime iraniano sorto dal crollo del pilastro statunitense nel Medio oriente (il regime dello Sci‡) non Ë stato affatto intaccato dalla politica di contenimento attuata dagli Usa. Al contrario gli Usa si sono scontrati con numerosi loro alleati (ed addirittura proprie multinazionali) che hanno stretto rapporti via via piš stretti sia con l'Iraq, sia soprattutto con l'Iran.
Riuscirà Bush il piccolo a ritrovare questa egemonia sempre piš messa in discussione con la sola forza delle sue supersofisticate armi. Quest'ultimo anno e soprattutto questi ultimi mesi testimonierebbero il contrario: che la corsa in avanti bellicista degli Stati Uniti accentua, anzichÈ risolvere, i problemi di egemonia di cui Ë afflitta la superpotenza Usa. Il capitale francese e tedesco esprime interessi divergenti da quelli americani per quanto riguarda la nuova guerra all'Iraq. Kuwait e Arabia Saudita si azzardano a criticare Washington come mai in passato Ë avvenuto (in un certo momento sono addirittura circolate voci su un ritiro dei capitali sauditi dagli Stati Uniti!!!). E soprattutto il movimento antiguerra Ë gi‡ da ora fortissimo in Europa, e gli Stati Uniti hanno visto in aprile una manifestazione (nonostante fosse malissimo organizzata) di 100.000 persone a sostegno dei palestinesi, e a settembre decine di migliaia di persone manifestare contro la guerra. Il fantasma del movimento antiguerra statunitense della fine anni '60 inizio anni '70, che riuscì ad essere per estensione e radicalità la causa prima della sconfitta dell'imperialismo statunitense in Indocina, continua a provocare notti agitate ai dirigenti di Washington.
Secondo le parole di Dickens, in apertura a una storia tra due città, erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un'epoca di saggezza, era un'epoca di follia, era un tempo di fede, era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l'inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo In ultima analisi, sta a noi scegliere.
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