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martedì 15 novembre 2011

Max Weber:“ La politica come professione”


Nei primi del Novecento aleggiava una convinzione profonda, prima sconosciuta nel campo delle scienze, e cioè la specializzazione. Un tarlo che arrovellava chiunque approdasse allo studio scientifico si poneva in modo improcrastinabile, l’arduo compito di una produzione scientifica: uno specialismo più legato al destino della propria anima, in un vissuto di esperienza scientifica, come premessa ad una dimostrazione. L’ispirazione rappresentava l’aspetto trainante della passione scientifica, l’idea giusta per produrre qualcosa, anche in assenza di scopo e di verifica scientifica; un tormento dell’esperienza (scientifica) come vissuto della vita, quasi un modo di vivere più attinente alla personalità, piuttosto che al duro lavoro della ricerca scientifica. E tutto questo può significare “personalità scientifica?” si chiedeva Max Weber nel suo illuminante testo “Scienza come Professione e Politica come Professione,” in uno degli ultimi interventi-saggio di un certo rilievo, un testamento (poco prima della sua morte, nel 1920) in forma di sintesi di una lunga elaborazione e ricerca espressa nella sua opera maggiore “ Economia e Società,” con particolare riguardo alla scienza della politica, con un piglio evocativo di uno scienziato sociale che sta descrivendo una degenerazione partitica-politica, prossima a venire.
Uno legame unisce i due saggi “Scienza come professione” e “Politica come professione,” nell’intima vocazione del lavoro intellettuale come professione, e nel considerare la ricerca scientifica rivolta all’atteggiamento ed al “culto scientifico,” nient’altro che una disperata ricerca di dimostrare qualcosa, in non già detto da qualcuno altro specialista. Ma, in tutti i campi, compreso quello scientifico, “solo chi serve puramente il proprio oggetto (Sache)” ha una sua personalità; l’unica differenza della scienza rispetto all’arte è che la prima (scienza) è inserita nel progresso, mentre la seconda (arte) può dirsi “interamente compiuta” in quanto non invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente diverso valore, ed un opera d’arte in quanto tale, non può essere superata da nessun altra; al contrario, nel destino delle opere scientifiche sta inscritto un suo superamento, non ci può essere progresso senza “sperare che altri si spingeranno più avanti di noi,” e con ciò giungere al significato più profondo della scienza.
Un significato che può orientare l’atteggiamento pratico (azione) dell’uomo di scienza nell’idea che “ il progresso scientifico è una frazione, e senza dubbio la più importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale andiamo soggetti da secoli... L’attività scientifica è inserita nel corso del progresso, e viceversa, nessun progresso si attua nel corso dell’arte” Quindi lo scopo dell’attività scientifica è quello di invecchiare, di essere superata nel progresso e con ciò, orientare l’attività pratica mediante previsioni fornite dall’esperienza (scientifica) nell’opera di razionalizzazione (intellettualistica) che diventa un processo di “disincantamento” dalle potenze della magia, che dominano il mondo. Il “Progresso” in quanto tale ha un significato transeunte e mai definitivo, ed è posto al di là della “tecnica” per approdare alla “scienza come professione,” nel significato più profondo, in chi si dedica alla scienza come “vocazione;” un percorso che si è potuto realizzare partendo dalla formazione del “concetto” di Socrate (mezzo della conoscenza), per arrivare “all’esperimento razionale”dell’Uomo del Rinascimento, prima di approdare alla “scienza” di Galilei; e da qui ripartire, dall’idea che il “presupposto di qualsiasi lavoro scientifico sta sempre nella validità delle regole della logica, e del metodo.” Fare la scienza come professione significa fornire alla “professione” un valore oggettivo, rendersi conto del significato ultimo del suo operare al di fuori degli afflati mistici e dei sensi profetici che possono alimentare talvolta in modo impetuoso, in certi periodi storici, le grandi comunità.
Con questa premessa, l’impressione che si ricava dalla lettura del testo, nella seconda parte del saggio sul politico come professione, è a tinte forti, sembrerebbe un affresco d’epoca esteso fino ai giorni nostri; tutto quello che viene descritto è calzante e stringente come un presagio su quello che può succedere (l’avvento del nazismo) fin dal momento della costituzione della Repubblica di Weimar; Weber contribuì alla stesura della sua Costituzione, dissociandosi subito dopo dal partito Democratico e di cui disapprovava le concessioni fatte al programma di “Socializzazione” (da leggere Statalizzazione) dei socialdemocratici ( nel 1920). Il saggio è una lezione di Scienza della politica, senza tuttavia entrare direttamente sui programmi politici della nascente repubblica di Weimar; anche se il contesto storico che si descrive, sulla incipiente degenerazione democrazia parlamentare Occidentale nella sua conformazione statalista, è di uno spessore tale che non può non richiamare alla memoria, le condizioni delle democrazie occidentali dei giorni nostri. La “Politica come Professione” è una sintesi del lavoro di ricerca dell’autore sulle associazioni politiche, nel loro lungo percorso iniziato nel secolo Diciannovesimo, e concluso (già dal primo Ventennio del secolo scorso) nelle forme più compiute di Associazioni-Partitico-Stataliste, in quanto rapporto storico di un moderno dominio sociale dello Stato, nella nuova legalità (politica) dei partiti nei moderni Stati-Costituzionali. L’autore nella sua esposizione si richiama a cause suggestive, anche se in realtà fondative, sulla costituzione dello Stato Moderno, derivanti da motivazioni “intrinseche” e da “mezzi esteriori; “ le “motivazioni intrinseche;” oltre all’autorità data dalla “tradizione,” due soprattutto sono gli elementi su cui poggia la predetta dominazione; anzitutto il carisma, nella natura straordinaria del capo, con la dedizione assoluta personale, “dal condottiero eletto in guerra o dal sovrano plebiscitario, dal grande demagogo e dal capo di un partito politico;” su tale carisma si incardina a sua volta quale “mezzo esteriore,” la forza della legalità nella dominazione esercitata dal “moderno funzionario statale o da tutti i titolari (del poter statale) che si rassomigliano.” Il funzionario statale rappresenta la forma storica assunta nella professione, impersonata (dapprima) nel capo politico “ nel libero < demagogo > sorto sul terreno dello “Stato cittadino” (italiano) proprio soltanto dell’Occidente e soprattutto della civiltà < Mediterranea >, ed in seguito, luogo del < Capopartito > parlamentare, cresciuto sul terreno dello Stato Costituzionale che solo in Occidente ha messo saldi radici;” tale dominio può essere esercitato soltanto in continuità del controllo, nell’attuazione fisica del potere, similmente ad una combinazione di amministratori e di mezzi materiali (organizzazione) per l’amministrazione di una azienda (impresa). Lo sviluppo dello stato moderno ebbe una lunga gestazione; venne promosso dapprima dal principe, attraverso “ l’espropriazione di quei privati (ceti aristocratici) che si trovano accanto a lui investiti di un potere di amministrazione indipendente, e cioè di coloro che posseggono per proprio diritto i mezzi per condurre l’amministrazione, la guerra e la finanza, o per conseguire comunque un fine politico;” successivamente, alla fine di tale processo, troviamo lo Stato Moderno dove tutto il complesso amministrativo è riunito in un unico complesso centrale, amministrato dal funzionario statale e separato (espropriato) dall’esercizio politico; i ceti aristocratici in appoggio del principe, espropriati dal loro potere di controllo dei loro mezzi amministrativi-politici, vengono sostituiti, “mediante usurpazione o elezione, da capi politici (collocandosi in una prima fase a fianco del principe, prima di essere quest’ultimo detronizzato) i quali si arrogano il potere di disporre delle persone investite di funzioni politiche in tutto l’apparato dei mezzi materiali, facendo derivare la loro legittimità direttamente dalla volontà dei sudditi delle democrazie parlamentari. Nel corso di questo processo di espropriazione (dei ceti al servizio del principe) comparvero le prime categorie di “politici di professione” che formarono il potere effettivo dello Stato Moderno sia democratico che monarchico nei funzionari statali, militari e civili. La democrazia, al pari dello stato assoluto, esclude una amministrazione “affidata a notabili feudali o patrimoniali o patrizi o d’altro genere per sostituirla con funzionari nominati;” quest’ultimo aspetto rappresenta il passaggio decisivo allo stato moderno nel senso che attraverso la nomina, l’ufficiale in quanto detentore del potere militare, non si differenzia più dal funzionario dell’amministrazione civile; l’esercito di massa è un esercito burocratico similmente alla Chiesa Cattolica la cui decisione più importante al Concilio Vaticano del 1870 non fu il problema dell’infallibilità (del Papa) ma nel far diventare il vescovo o il parroco, semplici funzionari del potere centrale. Lo Stato Moderno dal punto di vista organizzativo “è un impresa al pari di una fabbrica.” Tale identità sta alla base di ogni fondamento economico, tra chi lavora separato dai mezzi materiali dell’impresa, o dall’interno dell’organizzazione amministrativa dello Stato: l’operaio, l’impiegato, insieme al funzionario statale dipendono entrambi, dal potere di disposizione dell’imprenditore insieme al detentore del potere politico; la separazione dei mezzi di produzione del lavoratore nell’impresa privata viene associata alla caratteristica comune della separazione dei mezzi materiali dell’impresa statale moderna orientata però, verso “scopi di potenza e di politica culturale e verso scopi militari, e all’economia capitalistica privata” Lo stato maggiore amministrativo opera secondo una gestione autonoma della propria amministrazione, anche se in piena dipendenza al potere politico, similmente ad un consiglio di amministrazione di una società per azioni, che viene nominato dall’assemblea dei soci e deve rispondere soltanto a quest’ultimo; l’obbedienza al detentore del potere politico viene osservata non in virtù di una legalità in astratto, ma in ragione di un dominio sociale, dove la forza legale esercitata dal potere amministrativo statale, può essere cercata soltanto nell’interesse personale che può essere compendiato nella remunerazione personale e nella “onorabilità sociale.” Le prebende dei funzionari statali nella forma di stipendi come compenso allo sfruttamento dei dominati nella gestione del monopolio degli uffici, o lo spoils system nella appropriazione delle cariche e dei posti di potere da parte del partito risultato vincente in un confronto elettorale ed a tutto vantaggio per i seguaci del moderno demagogo, non sono per nulla dissimili dall’onore cavalleresco di uno stato feudale, o dal privilegio dei ceti con cui il sovrano dominava con l’appoggio di una aristocrazia indipendente, e con i quali esercitare il dominio come capo carismatico condividendo gloria bellica e bottino per i guerrieri. L’impostazione veberiana del funzionario statale è al centro di un’analisi che ha come oggetto, lo studio dello snodo nella compartecipazione assistita ed intercambiabile tra gestione amministrativa statale e gruppi politici parlamentari; un coacervo di interessi di parte (partiti) che si occultano nella gestione statalistica, con apparente salvaguardia, nella ideologia, di interessi più generali (della collettività). Del resto il vero funzionario statale deve ufficialmente amministrare al di fuori degli interessi dei partiti almeno fino a quando “non è in gioco la ragione di stato”, che più propriamente significa: l’interesse fondamentale dell’ordinamento dominante. E proprio per garantire la mischia tra interessi politici di parte (partiti) sempre in lotta tra di loro, il funzionario amministra in campo neutro (in finzione giuridica) ed in zona periferia del sistema; è praticamente un gioco delle parti tra chi amministra secondo le ferree regole formali dell’ordinamento vigente, il complesso ordine amministrativo del sistema politico, e le parti (partiti) che si affrontano come in campo di battaglia circoscritto dal perimetro istituzionale delle regole statali del funzionario. Da questo punto di vista il ruolo svolto dal funzionario (statale) è precipuamente politico nel significato più genuino del termine, e non dissimile nello stesso ruolo dal funzionario di partito; del resto, già con l’avvento dei partiti di massa delle democrazie parlamentari occidentali di fine Ottocento, troviamo apparati mastodontici che fanno vivere migliaia di persone organizzate (stipendiate) che eleggono in modo plebiscitario, al di fuori del palamento, il capo carismatico; il sistema politico italiano è composto, si dice, da un milione di persone che vivono sul costo della politica, dai Comuni, ai Municipi, al parlamento, oltre a qualche altro milione di dipendenti del pubblico impiego assunti dal sistema partitico-sindacale.
Un caso emblematico è l’apparato della democrazia plebiscitario in Usa; i partiti (in Usa) sin dalla prima metà dell’Ottocento sono conformati in vista della lotta elettorale più importante per l’elezione del Presidente dell’Unione e dei Governatori nei singoli stati. Programmi e candidati vengono prestabiliti nelle < convenzioni nazionali > dei partiti, senza l’intervento dei parlamentari.
Il Presidente dell’Unione (Usa) fin dall’Ottocento poteva disporre per la nomina da 300 mila a 400 mila funzionari statali, previo accordo con i Governatori. Allo spoil sistems del vincitore derivante da un apparato plebiscitario del partito si accompagnò la comparsa del “boss,” una figura di imprenditore capitalistico della politica,.. il quale fornisce voti a proprio rischio e pericolo…Il boss non ha principi politici ben determinati, non si propone alcuna finalità, ma si domanda solamente: che cosa serve ad attirare voti?” A questo punto se non avete capito abbastanza vi rimando a un'altra interpretazione del testo dal sito filosofico.net

Max Weber, nella conferenza "La politica come professione" (1919), chiedendosi cosa possa significare la politica come professione, fornisce alcune categorie importanti per la definizione del politico. Il titolo della conferenza, in tedesco, è "Politik als Beruf": Weber gioca qui (ma anche altrove) col termine Beruf, che significa tanto "professione" quanto "vocazione", cosicchè l'opera può intendersi tanto come "la politica come professione" quanto come "la politica come vocazione".

Tre qualità possono dirsi sommamente decisive per l'uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit: dedizione appassionata a una "causa" (Sache), al dio o al diavolo che la dirige. [...] Essa non crea l'uomo politico se non mettendolo al servizio di una "causa" e quindi facendo della responsabilità, nei confronti appunto di questa causa, la guida determinante dell'azione. Donde la necessità della lungimiranza - attitudine psichica decisiva per l'uomo politico - ossia della capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore: come dire, cioè, la distanza tra le cose e gli uomini. La "mancanza di distacco" (Distanzlosigkeit), semplicemente come tale, è uno dei peccati mortali di qualsiasi uomo politico e una di quelle qualità che, coltivate nella giovane generazione dei nostri intellettuali, li condannerà all'inettitudine politica. E il problema è appunto questo: come possono coabitare in un medesimo animo l'ardente passione e la fredda lungimiranza? La politica si fa col cervello e non con altre parti del corpo o con altre facoltà dell'animo. E tuttavia la dedizione alla politica, se questa non dev'essere un frivolo gioco intellettuale ma azione schiettamente umana, può nascere ed essere alimentata soltanto dalla passione. Ma quel fermo controllo del proprio animo che caratterizza il politico appassionato e lo distingue dai dilettanti della politica che semplicemente "si agitano a vuoto", è solo possibile attraverso l'abitudine alla distanza in tutti i sensi della parola. La "forza" di una "personalità" politica dipende in primissimo luogo dal possesso di doti siffatte. L'uomo politico deve perciò soverchiare dentro di sé, giorno per giorno e ora per ora, un nemico assai frequente e ben troppo umano: la vanità comune a tutti, nemica mortale di ogni effettiva dedizione e di ogni "distanza", e, in questo caso, del distacco rispetto a se medesimi. La vanità è un difetto assai diffuso, e forse nessuno ne va del tutto esente. Negli ambienti accademici e universitari è una specie di malattia professionale. [...] Giacché si danno in definitiva due sole specie di peccati mortali sul terreno della politica: mancanza di una "causa" giustificatrice (Unsachlichkeit) e mancanza di responsabilità (spesso, ma non sempre, coincidente con la prima). La vanità, ossia il bisogno di porre in primo piano con la massima evidenza la propria persona, induce l'uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di quei peccati o anche tutti e due. Tanto più, in quanto il demagogo è costretto a contare "sull'efficacia", ed è perciò continuamente in pericolo di divenire un istrione, come pure di prendere alla leggera la propria responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi soltanto "dell'impressione" che egli riesce a fare. Egli rischia, per mancanza di una causa, di scambiare nelle sue aspirazioni la prestigiosa apparenza del potere per il potere reale e, per mancanza di responsabilità, di godere del potere semplicemente per amor della potenza, senza dargli uno scopo per contenuto. [...] Il mero "politico della potenza" (Machtpolitiker), quale cerca di glorificarlo un culto ardentemente professato anche da noi, può esercitare una forte influenza, ma opera di fatto nel vuoto e nell'assurdo. In ciò i critici della "politica di potenza" hanno pienamente ragione. Dall'improvviso intimo disfacimento di alcuni tipici rappresentanti di quell'indirizzo, abbiamo potuto apprendere per esperienza quale intrinseca debolezza e impotenza si nasconda dietro questo atteggiamento borioso ma del tutto vuoto. [...] E' perfettamente vero, ed è uno degli elementi fondamentali di tutta la storia (sul quale non possiamo qui soffermarci in dettaglio), che il risultato finale dell'azione politica è spesso, dico meglio, è di regola in un rapporto assolutamente inadeguato è sovente addirittura paradossale col suo significato originario. Ma appunto perciò non deve mancare all'azione politica questo suo significato di servire a una causa, ove essa debba avere una sua intima consistenza. Quale debba essere la causa per i cui fini l'uomo politico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede. Egli può servire la nazione o l'umanità, può dar la sua opera per fini sociali, etici o culturali, mondani o religiosi, può essere sostenuto da una ferma fede nel "progresso" non importa in qual senso - oppure può freddamente respingere questa forma di fede, può inoltre pretendere di mettersi al servizio di una "idea", oppure, rifiutando in linea di principio siffatta pretesa, può voler servire i fini esteriori della vita quotidiana - sempre però deve avere una fede. Altrimenti la maledizione della nullità delle creature incombe effettivamente - ciò è assolutamente esatto - anche sui successi politici esteriormente più solidi.

(Max Weber, La politica come professione)


Sintesi de "il principio responsabilità" di Hans Jonas.


1. LA MUTATA NATURA DELL’AGIRE UMANO

1 – L’antichità

- Le premesse oggi non più valide dell’etica tradizionale: 1) la condizione umana, definita dalla natura dell’uomo e dalla natura delle cose, è data una volta per tutte nei suoi tratti fondamentali; 2) su questa base si può determinare senza difficoltà quale sia il bene umano; 3) la portata dell’agire umano e quindi della responsabilità è strettamente circoscritta.

- Oggi i nuovi poteri della tecnica moderna hanno cambiato la natura dell’agire umano, e ciò esige anche un mutamento dell’etica.

- Per quanto il potere dell’uomo sulla natura sia sempre stato maggiore di quello degli altri animali, finora non era mai stato capace di scalfire la sostanziale immutabilità del tutto, la natura e gli elementi erano l’assoluto e il permanente di fronte ai quali l’uomo era il relativo e il mutevole. Il limite che l’uomo, in quanto essere “infinitamente piccolo”, si autoponeva di fronte a Dio o alla natura è oggi, con il dominio delle basi biologiche della natura, del tutto scomparso ed inattuale. L’uomo non aveva motivo di sentire alcuna responsabilità nei confronti della natura e del mondo in cui viveva.

2 – Caratteristiche dell’etica tradizionale

- A) ogni rapporto con il mondo extraumano non costituiva un ambito di rilevanza etica, era neutrale eticamente in relazione all’oggetto ed al soggetto. B) ogni etica tradizionale è antropocentrica. C) l’entità uomo è stata sempre considerata essenza del soggetto agente, mai (come è ora) anch’essa è stata oggetto della techne umana. D) Il bene o il male di una azione si manifestava nella prassi stessa, esistevano dei criteri morali immediati per cui giudicare un’azione. L’etica aveva a che fare con il qui e l’ora.

- Oggi non può valere quel detto di Kant per cui “non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare per essere onesti e buoni”, oggi il potere umano può avere delle conseguenze a lungo termine inimmaginabili anche dallo scienziato o dal filosofo. Il sapere deve oggi corrispondere in ordine di grandezza alle nuove dimensioni causali del nostro agire.

3 – Nuove dimensioni della responsabilità

- Il nuovo carattere vulnerabile della natura sottoposta all’azione dell’uomo ci impone una responsabilità verso di essa. Dobbiamo chiederci oggi se la natura abbia o meno dei diritti, dovremmo renderci conto che la scienza naturale non esaurisce l’intera verità della natura, in quanto noi (che siamo parte di essa) possiamo agire in modo da manipolarla.

4 – La tecnologia come “vocazione” dell’umanità

- Carattere antientropico della scienza

- L’homo sapiens diventa oggetto dell’homo faber

- Oggi la presenza dell’uomo nel mondo non è più un dato indiscutibile, ma deve diventare oggetto della obbligazione. Un’ obbligazione fondata dal punto di vista giuridico che assicuri la sopravvivenza dell’uomo nel mondo.

5 – Vecchi e nuovi imperativi

- L’imperativo categorico kantiano affermava “Agisci in modo che anche tu possa volere che la tua massima diventi legge universale”; oggi l’imperativo adeguato dovrebbe essere “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”.

- Ciò che si vuole dire è che mentre siamo liberi di mettere a repentaglio e di essere irresponsabili verso la nostra vita, non possiamo esserlo verso la vita dell’umanità, non possiamo in alcun modo rischiare il non-essere delle generazioni future.

- Il nuovo imperativo pretende la coerenza non dell’atto con sé stesso, ma dell’atto con i suoi effetti reali ed ultimi, pretende una universalizzazione dei principi dell’agire umano non ipotetica ma fattuale, un’universalizzazione che si estende ad un futuro reale e calcolabile.

7 – L’uomo in quanto oggetto delle tecnica

- L’homo faber rivolge a sé stesso la propria arte diventandone oggetto come homo materia

- La morte non appare più come una necessità insita nella natura di ciò che è vivo, ma come una prestazione organica disfunzionale a cui si può porre rimedio. Ma, come afferma Hannah Arendt, la mortalità è soltanto l’altra necessaria faccia della fonte perenne della “natalità”. Ed è probabile che ciò che oggi appare come la realizzazione di un sogno umano ed un dono filantropico della scienza all’uomo, potrebbe rivelarsi come un danno per l’umanità.

- Il moderno controllo del comportamento, per cui si può dare sollievo ai pazienti malati di mente da sintomi tormentosi ed inibenti, può tramutarsi in un “liberare la società” dalla molestia di un comportamento problematico. E’ un trapasso dalla sfera medica a quella sociale, per cui eludiamo la via umana di affrontare i problemi umani applicando un meccanismo impersonale e togliendo dignità di sé alla persona.

- Per non parlare del futuro più che prossimo della manipolazione genetica.

8 – La dinamica “utopica” del progresso tecnico e l’eccesso di responsabilità

- Se la novità del nostro agire esige un’etica nuova di estesa responsabilità, proporzionata alla portata del nostro sapere, essa richiede anche un nuovo genere di umiltà: un’umiltà indotta non dalla limitatezza ma dalla grandezza abnorme del nostro potere.

9 – Il vuoto etico

- Ciò che oggi è temibile è la nascita di un nichilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi. In nome del progresso della scienza sono stati aboliti o non posti certi limiti con la conseguenza che il senso stesso del limite diventa sempre più precario.

2. QUESTIONI RELATIVE AI FONDAMENTI ED AL METODO

1 – Sapere ideale e sapere reale nell’ “etica del futuro”

- Un possibile criterio per la nuova etica può essere la cosiddetta “euristica della paura”: soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a cogliere il concetto di umanità che va preservato da quel pericolo. E’ naturale che la percezione del malum, per il turbamento emotivo che porta, ci riesca infinitamente più facile della percezione del bonum. Per questo la paura è la coscienza che l’uomo ha del limite, ma prima ancora è la coscienza che l’illimite porta in sé un pericolo per l’uomo.

- Il primo dovere dell’etica del futuro è l’acquisizione anticipata dell’idea degli effetti a lungo termine che la nostra azione può recare: il malum immaginato dovrà assumere il ruolo del malum esperito.

- Il secondo dovere sarebbe allora la mobilitazione del sentimento adeguato a ciò che viene immaginato: il timore del malum immaginato è di tipo nuovo poiché si rivolge non ad un male per me ma per gli altri (d'altronde la responsabilità è responsabilità verso gli altri), ma non per questo deve essere meno spontaneo del malum esperito.

2 – Priorità della previsione cattiva su quella buona

- Un altro precetto della nuova etica dovrebbe essere: si deve prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella si salvezza. Infatti l’uomo non può permettersi di agire per seguire una probabile promessa quando in gioco ci sia anche una probabile minaccia per l’umanità o, comunque, per qualcun altro che non sia sé stesso. Il motivo principale è che, per quanto minima sia la probabilità di incombere nella minaccia, se essa è rivolta all’uomo in generale ed alla sua sopravvivenza nel mondo, avrà quasi sicuramente un carattere irreversibile che non ci si può permettere.

3 – L’elemento della scommessa nell’agire

- Esiste inoltre un incondizionato dovere dell’umanità all’esserci (e di conseguenza un obbligo di evitare sempre il non-esserci), un divieto di suicidio dell’umanità, che non va confuso però con il dovere condizionato di esistere del singolo individuo.

- E’ un altro principio etico quindi quello che afferma: non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso (anche dei posteri) una posta in gioco nelle scommesse dell’agire.

- Siamo di fronte al capovolgimento del procedimento cartesiano del dubbio: Cartesio diceva che, per stabilire ciò che è indubitabilmente vero, dobbiamo considerare falso ciò che è suscettibile di dubbio. Nel nostro caso, invece, dobbiamo trattare come certezza e possibilità reale anche (e soprattutto) ciò che è dubbio ma possibile.

- Vi è anche una differenza sostanziale con la “scommessa” di Pascal: mentre egli affermava di scommettere per un possibile bene infinito (la vita eterna) rinunciando ad un guadagno privo di valore (la vita terrena). Nel nostro caso, invece, bisogna scegliere un guadagno già in nostro possesso (la sopravvivenza dell’uomo nel mondo) piuttosto che scommettere su un’azione che, nel caso fallisse, potrebbe rivelarsi come un male infinito.

4 – Il dovere verso il futuro

- Ogni rapporto di diritti-doveri si fonda sulla reciprocità e sull’essere dell’altro: il mio dovere è l’inverso del diritto altrui e viceversa, può pretendere un diritto solo ciò che è. Il nostro caso è diverso, poiché i posteri verso cui siamo responsabili non possono pretendere un diritto, quindi il nostro dovere verso loro si deve fondare solo su una nostra scelta e, al massimo, sull’ipotetico diritto che i posteri potrebbero rivendicare a sé stessi.

- L’unico esempio offerto dalla natura di comportamento del tutto altruistico e di non-reciproca responsabilità ed obbligazione è la cura parentale verso i figli. E’ questo l’archetipo di ogni agire responsabile, che non necessità alcuna deduzione da principi ma ci è in possesso per natura, ed a cui dobbiamo far riferimento anche se (apparentemente) il dovere verso i figli non è lo stesso del dovere verso le generazioni future.

- Il dovere verso i figli necessità degli stessi presupposti del dovere verso le generazioni future: è un dovere verso l’esserci dell’umanità futura (indipendentemente dalla discendenza diretta) ed un dovere vero il suo essere-così. Noi infatti non dobbiamo vigilare sul diritto degli uomini futuri (sui loro desideri) ma sul loro dovere, ossia sul loro dovere di esserci come umanità e di essere-così come autentica umanità.

- Il primo imperativo sarà allora: deve esserci un’umanità. Secondo tale imperativo noi non siamo responsabili verso gli uomini ma verso l’idea ontologica di uomo. Tale principio dell’etica della responsabilità verso il futuro non è insito nell’etica stessa come dottrina di azione, ma nella metafisica in quanto dottrina dell’essere.

- La nuova etica vuole confutare i due dogmi secondo cui “non vi è nessuna verità metafisica” e “non vi è nessuna via dall’essere al dover essere”. Anzi i suo presupposto è, insieme all’anti-antropocentrismo, la necessità della metafisica, intesa non come essenza nascosta del suo sapere, bensì come punto di partenza esposto dei suoi principi.

3. SUGLI SCOPI E LA LORO POSIZIONE NELL’ESSERE

- La distinzione tra valori e scopi o fini: uno scopo è ciò per cui una cosa esiste e per la sua realizzazione o conservazione si svolge un processo o si intraprende un’azione. Esso risponde alla domanda “per che cosa?”. Gli scopi o fini operano e vengono riconosciuti indipendentemente dalla loro condizione di valori o dalla approvazione di qualcuno.

- L’essere, oppure la natura, è unitario e fornisce testimonianza di sé in quel che fa scaturire da sé. Ciò che è l’essere può essere desunto dalla sua testimonianza e naturalmente da ciò che maggiormente dice.

- Tale testimonianza del nostro essere viene ignorata dalla scienza naturale: essa si è specializzata nello studio di organi e di organismi minori agendo come se non sapesse che esistono gli organismi e gli organismi maggiori, studia gli organismi maggiori ed il cervello come se non sapesse che è in verità il pensiero a determinarne l’essere. Tutto ciò è giusto metodologicamente, sbagliato quando si passa da tale piano della finzione a quello ontologico dell’essere.

- Ciò che vogliamo dire è che la scienza naturale non ci dice tutto sulla natura, né è capace di spiegare le modalità del sentire o la coscienza umana. E’ una incapacità costruttiva poiché la stessa scienza è una componente di un universo ancora da comprendere.

- Ciò che resta da chiedersi è se la questione sugli scopi, sull’essere, implica la questione sui valori, sul dover essere. Se esiste un rapporto tra universalità e validità.

4. IL BENE, IL DOVER ESSERE E L’ESSERE: LA TEORIA DELLA RESPONSABILITA’

1 – Essere e dover essere

- Fondare il “bene” o il “valore” dell’essere significa colmare il presunto divario tra essere e dover essere.

- La natura, prefiggendosi degli scopi, pone anche dei valori. Riguardo a quest’ultimi possiamo dire che sia meglio e bene perseguirli, peggio e male non perseguirli; ma possiamo dire che siano anche dei “beni in sé”?

- Ciò che vale per lo scopo non vale però per la “finalità”, quest’ ultima, in quanto rappresenta ciò che l’essere vale per lo scopo specifico, il suo carattere ontologico, rappresenta di per sé un “bene in sé” nella sua differenza con il non avere uno scopo.

- La proprietà generale dell’ avere una finalità (prescindendo dal suo contenuto) è ciò che fonda e dà valore all’essere nella sua profonda differenza col non-essere, col nulla, con ciò che non ha finalità.

- La finalità dell’essere è innanzitutto il suo sì alla vita radicalizzato in un profondo no alla morte. Questo è il vero senso del “vivere per la morte” che fonda il valore dell’essere: un no attivo alla morte, una negazione del non-essere per il sì alla vita, per l’affermazione dell’essere.

- La difficoltà è: come può essere un “dovere” per l’essere ciò che è da sempre insito nella sua volontà, ossia il suo lottare contro il non-essere?

- Finora il “bene” è stato contrapposto alla “volontà”: infatti l’essere buoni ha sempre significato il conseguire un bene (assoluto o meno) che sta al di fuori di noi, un bene altruistico che non trovava riscontro nel nostro sentire.

- Il nostro caso è, però, profondamente diverso: il bene che noi cerchiamo deve a tutti i costi trovare un riscontro soprattutto nel sentire di ognuno; è infatti la sfera del sentimento, della volontà che può stimolare un senso di responsabilità così ampio (per il presente e per il futuro, per i miei discendenti e per i posteri).

- Come ogni teoria etica, anche la teoria della responsabilità deve tenere presenti entrambe le cose: il fondamento razionale dell’obbligo, ossia il principio di legittimazione che sta dietro alla pretesa di un “dover essere” vincolante, e il fondamento psicologico della sua capacità di mettere in moto la volontà, ossia di diventare per il soggetto la causa che determina il suo agire. Ciò significa che l’etica possiede un aspetto oggettivo ed uno soggettivo, uno che ha a che vedere con la ragione e l’altro con il sentimento. Entrambi sono fra di loro complementari: la ricettività emotiva senza una convalida del suo diritto sarebbe alla merce di predilezioni casuali e sprovvista di ogni giustificazione; il richiamo al dovere che escluda la sfera del sentire non troverebbe alcuna forza motivante all’interno della soggettività dell’essere

- Il ruolo del sentimento nell’etica tradizionale ha sempre avuto per oggetto il “sommo bene” che aveva come condizione ontologica la “atemporalità”, mettendo a confronto la nostra condizione mortale con la seduzione dell’eternità. Oggi l’oggetto del sentire deve essere ciò che è più transeunte per definizione, ben lontano dalla perfezione e dalla immortalità, tutt’altro che trascendente e necessario: la responsabilità verso gli altri. Quest’oggetto, l’alterità, ben diverso dal summum bonum, deve avere la forza di indurmi al senso di responsabilità nei suoi confronti solamente per la sua esistenza.

- L’alternativa nei suoi punti fondamentali è questa: quel che conta sono anzitutto gli obiettivi e non gli stati della mia volontà: impegnando la volontà diventeranno poi scopi per me. La legge in quanto tale non può essere né causa né oggetto del rispetto; ma l’essere, riconosciuto nella sua totalità e continuità, può ben generare il rispetto grazie all’affezione del nostro sentire. Ma il rispetto è insufficiente all’operare per l’altro, ciò che deve subentrare per agire di conseguenza è il senso di responsabilità, che vincola questo soggetto a quell’oggetto.

2 – Teoria della responsabilità: prime distinzioni.

- In primo luogo viene il “dover essere” dell’oggetto, in secondo luogo il “dover fare” del soggetto chiamato ad averne cura. Esigenza dell’oggetto e coscienza morale del potere-fare si fondono nel senso affermativo di responsabilità del soggetto attivo. Questo è il tipo di responsabilità che intendiamo portare avanti, non la vuota “responsabilità” formale di un agente per la sua azione.

- Ci si può avvicinare ulteriormente al concetto di responsabilità se ci si chiede il significato dell’ “essere irresponsabili”: innanzitutto è fondamentale dire che solo chi detiene una responsabilità può essere irresponsabile. La nostra idea è che chiunque abbia un qualsiasi “potere” verso gli altri debba avere anche un “dovere” verso gli altri, quindi sarà irresponsabile chi usufruirà dell’esercizio del potere senza adempiere il dovere.

- Avendo limitato il cerchio delle vere responsabilità, avendola cioè circoscritta ai detentori di un potere fattuale verso gli altri, i maggiori detentori di responsabilità risulteranno: i genitori (verso i figli) e gli uomini di stato (verso i cittadini).

3 – Teoria della responsabilità: genitori e uomini di stato.

- L’elemento comune ai due paradigmi dei genitori e degli uomini di stato può essere sintetizzato in: “totalità”, “continuità” e “futuro” come obiettivi della responsabilità per la felicità degli altri.

- Essere soggetto dotato di responsabilità implica il dovere essere responsabile verso i suoi simili, esseri dotati a loro volta di responsabilità: la capacità di avere responsabilità è la condizione sufficiente per il dovere verso la sua attualizzazione.

- Inoltre la responsabilità consiste principalmente nel dare agli altri la possibilità di essere responsabili in quanto umanità esistente: il comandamento dell’esistenza dell’umanità implica il comandamento della possibilità della responsabilità.

- La totalità delle responsabilità: le responsabilità abbracciano l’essere totale dei loro oggetti, ossia ogni loro aspetto, dalla nuda esistenza ai più elevati interessi, dal puro essere in quanto tale al ben-essere. (Questo è più evidente per i genitori).

- Inoltre non bisogna dimenticare che l’oggetto delle responsabilità dei genitori è lo stesso oggetto delle responsabilità dello Stato: come i genitori educano i propri figli “per lo Stato”, lo Stato si assume a sua volta una responsabilità per l’educazione dei ragazzi; il privato si apre sostanzialmente al pubblico e lo include nella propria integralità.

- La continuità: essa consegue dalla natura totale della responsabilità che, per definizione e per sua essenza, è un esercizio che non può cessare: né i genitori né lo Stato possono prendersi “vacanze” dalla propria responsabilità. Inoltre, ed ancora più importante, la responsabilità totale deve sempre agire chiedendosi “che cosa verrà dopo? A cosa condurrà ciò? Che cosa si è verificato prima? Come si concilia ciò che accade ora con la totalità dell’essere-divenuto di questa esistenza?. In sintesi: la responsabilità totale e continua deve procedere “storicamente”, abbracciare il proprio oggetto nella sua storicità, preservando nel tempo una certa identità che è parte integrante della responsabilità collettiva. (Questo è più evidente nello Stato).

4 – Teoria della responsabilità: l’orizzonte del futuro.

- Nel loro relazionarsi al futuro, responsabilità politica e genitoriale differiscono profondamente.

- I genitori hanno a che fare con un educazione che ha un fine ben determinato: l’autonomia e la maturità dell’individuo, il conseguire l’obiettivo fa cessare la responsabilità come compito doveroso. Tale responsabilità deve tener conto dello sviluppo organico e delle varie fasi di crescita dell’individuo.

- Lo stato si occupa invece di un’evoluzione storica per niente paragonabile allo sviluppo organico. La storia non ha un fine predeterminato verso il quale tende o deve essere guidata. Il divenire della storia e dell’umanità ha un senso completamente diverso dal divenire dell’individuo da embrione ad adulto. L’umanità, da quando esiste, è qualcosa che sussiste già e non deve essere prodotto o portato verso un fine, dell’umanità non si può dire quel che non è ancora, tutt’al più si può dire retrospettivamente quel che non era ancora in un determinato periodo storico.

- La responsabilità politica nel suo guardare al futuro ha un compito ben preciso: il rendere sempre possibile l’esistenza di una politica futura alla propria. Ogni responsabilità totale, al di là dei suoi singoli compiti, è sempre anche responsabile della preservazione della futura possibilità di un agire responsabile.

6 – La responsabilità e l’etica tradizionale.

- Kant diceva: “puoi, dunque devi”, oggi noi siamo costretti a dire “devi, dunque fai, dunque puoi”, ossia il tuo esorbitante potere è già all’opera, è sempre all’opera. In Kant l’inclinazione è subordinata al dovere e questo potere interno, non causale, va generalmente presupposto nell’individuo al quale soltanto si rivolge il dovere. Nel nostro contro-enunciato “potere” significa invece scaricare nel mondo gli effetti causali con cui dovrà poi confrontarsi il dover essere della nostra responsabilità.

- Il punto critico della questione morale, ossia come si possa passare dal volere al dovere essere, trova così una soluzione dalla mediazione del “potere” nella sua specifica manifestazione umana, nella quale il potere causale riunisce al sapere ed alla libertà. Il potere dell’uomo è il suo destino, ciò che può farlo agire responsabilmente o non. Il dover essere scaturisce dalla volontà in quanto autocontrollo del suo potere operante in modo consapevole.

7 – Il bambino, l’oggetto originario della responsabilità.

- L’essere di un ente, sul semplice piano ontico (l’ “è” del bambino quando viene al mondo), postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri. L’ “è” semplice e fattuale coincide con un dover essere.

- Inoltre il bambino include, all’interno del suo già-esserci, un impotente non-essere-ancora ed una negativa possibilità di non-essere-più che aumenta a dismisura il potere del genitore e, quindi, la sua responsabilità. La responsabilità deve considerare le cose non sub specie aeternitatis, ma sub specie temporis, potendo perdere tutto in un momento.




A cura di Giovanni Polimeni

Diritto penale.



DIRITTO PENALE

Il primo Codice penale (Zanardelli, fine ‘800) esprimeva i valori di uno Stato liberale. Molti degli elementi contenuti in esso, sono ancora presenti nel codice Rocco.
  • Legalità certezza delle norme: limite di discrezionalità giuridica;
  • Garanzia dei diritti fondamentali;
  • Limite della discrezionalità del giudice;
  • Reato ≠ peccato laicità;
  • Pena non più corporale, ma funzionale, deterrente.
Il secondo Codice (Rocco, anni ’30) descrive i principi generali, i singoli reati e le conseguenze. È diviso in due parti: nome dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia
  1. Parte generale sanzioni + definizione di reato, dolo, colpa, […].
  2. Parte speciale singoli reati (delitti e contravvenzioni) e singole norme che descrivono i reati che sanzionano.
Vi è una sorta di gerarchia in forma discendente che va dallo Stato alla persona: in primis vi è il delitto contro lo Stato e interessi pubblicistici, poiché in epoca fascista era più importante la tutela dello Stato e della collettività rispetto al singolo. Per ultimi venivano presi in considerazione i delitti contro il patrimonio e contro la persona.
La Costituzione (1948) è successiva al Codice Rocco, dopo la sua approvazione ha modificato e invertito l’ordine della gerarchia: al primo posto ora c’è la persona, la libertà.
La parte speciale descrive le fattispecie di reato.
Norme giuridiche che si compongono di due parti:
  • Precetto descrizione di un reato;
  • Sanzione punizione (penale)per un determinato reato.
NON può esserci uno senza l’altro!!
Il diritto penale non può, in alcun modo, permettersi il lusso di perseguire comportamenti che in qualche modo siano eticamente riprovevoli, anche se sono eticamente riprovevoli per la stragrande maggioranza della società!
Non si può confondere la morale, il peccato con il diritto penale! Poiché il diritto penale, in un ordinamento laico-democratico come il nostro, è un diritto non confessionale che può -certo- in molti comportamenti far coincidere la violazione della morale comune con la violazione di un interesse penalmente rilevante. Esempio: l’omicidio offende la morale di etica comune ed è anche un precetto della Bibbia e comune a tutte le religioni.
Esistono dei reati che non corrispondono a comportamenti eticamente riprovevoli. Esempio: un soggetto che riceve da un vecchio zio una collezione di fucili da caccia come eredità, li va a prendere, li carica in macchina per poi metterli in vetrina sottochiave scarichi e dopo tre mesi arrivano i carabinieri a notificare l’avviso di garanzia per la violazione di una norma che impone la denuncia del possesso di armi, soprattutto del luogo in cui esse si trovano. Il vecchio zio, all’epoca, le aveva denunciate, ma il nuovo proprietario non era a conoscenza di questa norma. Questo non è un fatto eticamente riprovevole.
Ci sono reati che puniscono, con la sanzione più severa del nostro ordinamento, cioè la sanzione penale, fatti che hanno solo un disvalore morale, cioè che in realtà non offendono alcun interesse, alcun bene.
Può essere reato un fatto, un comportamento descritto dal legislatore che offenda un interesse tangibile, chiaro, non un’idea, un modo di pensare → deve essere ben chiaro quale sia l’interesse protetto da quella norma incriminatrice principio di offensività.
La sanzione penale deve essere l’estrema ratio di un ordinamento.
Art. 25 Cost. “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”;
Art. 1 c.p. la disposizione penale afferma che “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.
Il principio di legalità (legalità: perché un fatto diventi reato è necessario che sia previsto in una legge) si scompone in quattro sottoprincipi:
  1. Riserva di legge vieta di sanzionare penalmente un fatto in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato.
Il riservare esclusivamente al legislatore la potestà normativa in materia penale, risponde ad esigenze di garanzia sia formali che sostanziali e tutela i diritti delle minoranze e delle forze politiche dell’opposizione.
La r.d.l. deve intendersi come riserva assoluta, qualora solo un atto avente forza di legge può prevedere una norma incriminatrice, tuttavia esistono delle divergenze relativamente alla sua portata e ai suoi limiti.
La r.d.l. è relativa qualora sia consentito delegare a fonti inferiori alla legge la specificazione di alcuni elementi costitutivi dell’incriminazione, lasciando al Parlamento il potere di fissare le linee fondamentali.
In forza di tale principio le fonti del diritto penale sono limitate alla legge ed agli atti aventi forza di legge.
RATIO → necessità di attribuire in via esclusiva il potere di creare norme incriminatrici al Parlamento.
  1. Principio di tassatività o di determinatezza tecnica di formulazione delle norme che mira a salvaguardare i cittadini dagli abusi del potere giudiziario, imponendo che le norme siano formulate in modo chiaro, preciso, sintetico e comprensivo in modo che il cittadino possa distinguere, senza possibilità di errore, ciò che è lecito da ciò che non lo è.
Assicura la certezza della legge per evitare l’arbitrio dei giudici
  1. Principio di irretroattività ha rilievo costituzionale solo riguardo la materia penalistica.
Vieta di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore.
  1. Divieto di analogia vieta l’applicazione analogica di sanzioni penali relativamente a fattispecie non espressamente previste e disciplinate dal legislatore, tuttavia è un principio avente valenza relativa, in quanto è ammessa -in materia penale- l’analogia in bonam partem.

venerdì 4 novembre 2011

Giovani Jatini il nostro sogno nel cuore.

Tratto da uno dai miei commenti sulla pagina facebook dei Giovani Jatini (di San Giuseppe Jato e San Cipirello) inerente al progetto di "cambiamento" proposto solo in prospettiva delle elezioni del 2012 dopo tanti attacchi alla politica giovanile, quella vera, e dopo un prendi e porta via di iniziative quasi simili ad una campagna elettorale, e quasi inutili; alla realizzazione quasi per magia di pagine di facebook ed eventi mirati allo "sviluppo" della cultura mi ero espresso così nei confronti di chi vuole manipolare il nostro sogno puro, vero e sincero.

Comprendere il mondo della politica costa fatica e sacrificio. Attuare una strategia programmatica non è facile, però c'è chi ci riesce poichè insegue i propri fini e questo è un loro problema, punto. E' vero che in ambito locale la collaborazione deve farla da padrone. Questo è fare politica. Poi andando per esempi: "congetture nel senso buono e sproloqui dialettali sempre nel senso buono secondo me entrerebbero più forte nella mente di coloro i quali non afferrano e, anche in queste conversazioni, darebbero quell'aroma in più. Iniziamo dal nostro dialetto per esempio che è la politica più vicina a noi. Poi c'è il Servizio alla comunità il quale inizia e continua anche dopo le elezioni! ESCLAMATIVO!, questo è il punto su cui un pò tutti si soffermano, perchè è di questo che si parla sottovoce. In questi discorsi sento l'eco di quei M..... CHISSU UN CAPISCI NENTI... ecc...ecc... In queste conversazioni annuso un forte astio, un sentore acerbo, amerezza - SI AVISSIMO U TASTO RA LUPARA, CIOE' "SPARA" AL POSTO DI "MI PIACE" SAREMO TUTTI MORTI . Qui mi fermo perchè sprecare ancora parole sarebbe inutile alle coscienze di tutti noi a noi giovani jatini, di s.g. jato e di san cipirello, quelli più sensibili per dirla breve. Qui è vero che si parla di proporre idee che sul lato della cultura "muovono i giovani" ma è anche vero che si urta contro un muro di "Ipocrisia" CA NNI MANCIA LI VUREDDA. Intendo quello riferito O TRAVAGLIO CA UN C'E'. E qui sembriamo lupi quando in realtà dobbiamo essere agnelli "fratelli". E la collaborazione dovrebbe farla da padrone. E' vero che sappiamo muoverci nel nostro piccolo, con il nostro lavoro, QUANNU C'E', con i nostri studi, con le nostre conoscenze. Anche questo è fare politica. Muoviamoci uniti NON NCUCCHIATI, qui leggo Giovani Jatini e si deve eludere ogni sorta di accanimento contro ogni altro. In pratica dobbiamo vincere i "falsi politici" quelli che MODELLANO LA PALLA PRIMA DI ESSERE SPARATA E AL MOMENTO IN CUI SALGONO SUL CARRO DEL VINCITORE ABBANDONANO LE "PALLE" LONTANO DAL LORO TRAGITTO. Scusate la breve narrazione ma questa mi è venuta fresca fresca. La politica è cosa seria diceva Della Croce. La politica è anche fare la differenziata per esempio, cioè separare la plastica dalla carta, o il vetro dalla lattine, anche questo è fare politica. Sensibilizzare l'amministrazione sugli aspetti locali del tema, di temi antimafia ecc... ecc..., raggiungendo l'accordo che se l'immondizia si raccoglie differenziata se poi A COGLINO TUTTA INSEMMULA UNNAMU FATTO NENTI. Facciamo il nostro per il bene anche degli altri, costruiamo e non ci accontentiamo di sopravvivere nel nostro piccolo, nella nostra tana, PASCEMUNE CA E' MEGGLIO RAMMAZZARINI anche questa è fare politica e anche questo è sentire "UN PO' PUZZA" DI cambiamento.


Un giorno saremo uniti nelle nostre idee fratelli e sorelle di San Giuseppe Jato e San Cipirello, ci uniranno gli stessi principi gli stessi ideali le stesse emozioni, i due paesi si fonderanno e si chiameranno insieme Valle dello Jato e tutti noi giovani ci racconteremo in futuro di questi passi fatti per raggiungere questo sogno. Faremo del nostro paese un simbolo e con la sua bellezza culturale e archeologica la nostra attrazione principale.

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