Ad oggi quindici milioni di litri di carburante si sono riversati in quello che rappresenta uno degli ecosistemi più importanti del continente americano e stanno distruggendo flora e fauna delle coste rendendole un immenso deserto di catrame che rimarrà, per chissà quanto tempo, prima che la vita possa riprendersi, forse, è bene precisare.
I fatti sono allucinanti come finalmente l’opinione pubblica sta scoprendo in queste ore e tali da oscurare l’enorme catastrofe ecologica dell’affondamento della nave Exxon Valdez nel 1989 che ha inquinato seriamente le coste dell’Alaska. Stiamo ai fatti per arrivare a comprendere quello che è successo e, soprattutto, le responsabilità visto che le pagheranno i contribuenti, e non solo quelli americani.
Oggi si scopre che alcuni giorni prima dello scoppio che ha provocato il disastro, si era già verificato un problema serio sulla piattaforma, un tubo adduttore del petrolio e del gas, a 1500 metri sott’acqua si era rotto provocando una prima uscita di pericoloso materiale. Con un’incoscienza da meritare la galera a vita, la società ed i responsabili della piattaforma avevano tenuto il problema nascosto alle autorità di vigilanza tentando, molto maldestramente ed in maniera inefficace, di riparare la condotta danneggiata in maniera affrettata ed artigianale.
Da questo fatto si è prodotto l’accumulo di materiale pericoloso che ha poi determinato lo scoppio e l’esplosione dell’intero sistema di pompaggio del pozzo Deepwater Horizon. Se un incidente può sempre accadere in ogni attività umana, il grave è se i responsabili non hanno approntato “a monte” dell’inizio delle attività di perforazione, una procedura validata di misure immediate di contenimento del danno e della successiva e rapida soluzione del problema.
Siamo tutti d’accordo che il rischio zero non esiste né puo’ esistere in nessuna attività umana, ma da qui a farsi trovare impreparati di fronte ad un caso che è per definizione il più palesemente e potenzialmente probabile in una piattaforma petrolifera estrattiva ce ne corre; sarebbe come, in sedicesimo, non prevedere paraurti, cinture di sicurezza ed airbags in una vettura particolarmente potente e veloce.
A tutto questo si aggiunge la colpevole disonestà del tentativo iniziale di sminuire l’entità del danno salvo poi cercare di rimediare con penose pezze a colore e soluzioni tecniche da operetta come quello dell’uso di solventi che al più, e solo su dimensioni ridotte delle aree coperte dal greggio, altro non fanno che sciogliere quanto c’è in superficie facendolo sprofondare sul fondo dove va a soffocare perennemente ogni forma di vita. Sulla proposta poi delle balle galleggianti di capelli raccolti da una catena di Sant’Antonio mondiale per assorbire il petrolio è meglio stendere un pietoso velo.
Ma le responsabilità non sono solo da una parte; anche le autorità statunitensi hanno fatto e stanno facendo, male, la loro parte: in primis lo scarso o nullo controllo sui livelli di sicurezza della piattaforma e sulla qualità della tenuta tecnica della struttura estrattiva non possono essere taciuti. Ancora meno qualificante è, poi, la capacità di intervento efficace da parte delle Agenzie federali preposte istituzionalmente a questo scopo.
L’impressione che emerge da quello che si vede e si legge è il fatto che si sono apparse impreparate ad affrontare questo tipo di problema e, soprattutto, che non dimostrano di possedere una capacità tecnica ed organizzativa adeguata a rispondere a catastrofi di queste dimensioni. Il dramma e la sconfitta subita in occasione del tifone Kathrina avrebbero dovuto essere di una qualche utilità per rivedere procedure, tecniche e preparazione del personale: New Orleans sommersa dalle acque avrebbe dovuto rappresentare il punto di non ritorno per una revisione profonda del sistema di difesa e pronto intervento. I fatti dimostrano il contrario: evidentemente l’amministrazione USA ha, purtroppo, bisogno ancora di fronteggiare altri eventi catastrofici prima di potersi strutturare in maniera adeguata per affrontare, nei tempi dovuti e con le necessarie capacità tecniche, disastri naturali imponenti, e vincere: oggi non è ancora così. Lo scacco della richiesta di aiuto urbi et orbi, anche su internet, alla ricerca di idee conferma il pragmatismo anglosassone ma depone male sulle capacità di chi ha il compito di affrontare e risolvere i problemi.
L’insuccesso del tentativo della copertura della falla con una prima enorme campana di cemento non promette nulla di buono ma aspettiamo tutti con ansia, e speriamo che funzioni, il tentativo della campana più piccola in acciaio che sta scendendo sul fondo in queste ore.
Unica nota positiva, anche se cinica, di tutto questo disastro è il tentativo immediatamente lanciato da Obama di fare approvare la sua legge sulla green economy, proposta bipartizan ma forse un po’ troppo complessa e farraginosa se, come sembra, il testo completo è di circa mille pagine. Al peggio la coscienza ambientale degli USA sarà stimolata e rafforzata costringendo tutti ad una vita meno energivora, spesso immotivatamente energivora.
Funzionerà? Staremo a vedere quello che accadrà nei prossimi giorni. Una cosa lascia perplessi: BP sarà forzata a ripagare i costi sostenuti nel tentativo di bloccare la falla, e questo è un bene; i danni che sono stati fatti all’ambiente, però, non saranno mai quantificabili né probabilmente reversibili, almeno per molti anni, forse per sempre.
Nessun commento:
Posta un commento