Michel Foucalt.Genealogia del sé come soggetto morale
"Perché il comportamento sessuale, le attività e i piaceri che ne dipendono, costituiscono l'oggetto di una preoccupazione morale?" Come mai l'uomo si è pensato come "soggetto di desiderio"? 1
Per rispondere a questo interrogativo, Foucault propone di risalire al modo in cui, prima di concepirsi come soggetto di desiderio, l'uomo occidentale aveva problematizzato il proprio rapporto con l'attività sessuale nella cultura greca classica del IV secolo a.C. e in quella greca e romana dei primi due secoli della nostra era. Quello che prende in considerazione, però, non sono direttamente le abitudini o i comportamenti sessuali, ma i testi medici e filosofici che suggerivano regole di condotta o permettevano agli individui di interrogarsi su di essa: un insieme composito nel quale rientrano da un lato le opere di Platone, Aristotele, Senofonte, Plutarco, Epitteto, Seneca, dall'altro i trattati di Ippocrate, Galeno, Cornelio Celsio, ma anche una vastissima letteratura che va dai Ricordi di Marco Aurelio al Libro dei sogni di Artemidoro, agli scritti dei Padri della Chiesa. Dall'insieme di queste fonti, scrive Foucault, emerge come, nell'antichità, "l'attività e i piaceri sessuali siano stati problematizzati attraverso delle pratiche del sé" che non conducono all'elaborazione di un codice morale, bensì a una "estetica dell'esistenza"2.
Il margine che differenzia il rapporto dell'individuo con se stesso nell'età cristiana, in quella moderna e nel mondo antico, è dato dalle diverse esperienze che lo costituiscono come soggetto morale. Per la cristianità esiste una morale codificata, prescrittiva, che traccia una linea di separazione fra il lecito e l'illecito, e riconduce ad una carne (termine cristiano che verrà, solo in epoca moderna, sostituito dalla nozione di sessualità) le sensazioni, le passioni e i comportamenti umani.
Nel mondo antico, invece, tanto presso i Greci quanto presso i Latini, la moralità dei comportamenti non è regolata da un codice di prescrizioni, ma si può valutare solo a posteriori, cioè in rapporto al tipo di soggettività che produce. Il tema dell'austerità sessuale, per esempio, elemento apparentemente comune alla riflessione cristiana e a quella antica, risponde in realtà a due logiche diametralmente opposte: da una parte c'è il tracciato dei grandi divieti sociali, religiosi e civili, dall'altra c'è una modalità del comportamento che cerca di massimizzare l'autorità e la libertà del soggetto nell'uso che egli fa dei suoi piaceri.
Così, se la questione dell'austerità sessuale rappresentava già un problema per l'antichità, questo avveniva in un contesto del tutto diverso da quello emerso con la cultura cristiana: l'esigenza di austerità rispondeva infatti a preoccupazioni relative alla salute del corpo, al timore dell'atto sessuale come fonte di dispersione della propria energia, ed era oggetto perciò di una Dietetica, fondalmentalmente diversa dalla "terapeutica" moderna 3.
Allo stesso modo, la famiglia, quale centro delle relazioni sociali ed economiche, era oggetto di una Economica che valorizzava la fedeltà coniugale senza riportarla ad obblighi di castità. Vi era poi un'attenzione per la condizione di autonomia che ciascun individuo adulto (e maschio), se libero, doveva poter acquisire, e questo dava luogo ad una Erotica nella quale le relazioni con i ragazzi erano problematizzate in vista di una pratica pedagogica che doveva trasformarli da "oggetti di piacere" in "soggetti padroni dei propri piaceri"4. Infine si poneva un'istanza di Verità, definita in termini di saggezza, che richiedeva perciò una liberazione dai turbamenti esterni raggiungibile tramite l'astinenza.
In ciascuno di questi campi, i comportamenti sessuali non venivano mai sottoposti a una "legge universale" valida per tutti. Vi erano delle leggi comuni che gli uomini dovevano a rispettare e che riguardano, ad esempio, i doveri civici legati alla polis o i comportamenti religiosi. Ma è come se queste limitazioni tracciassero "un cerchio molto largo" all'interno del quale il pensiero antico vuole che ogni individuo valuti la convenienza delle proprie azioni affinché i piaceri non conducano all'eccesso, allo spreco dell'energia e al dispendio dell'autorevolezza.
Gli aphrodisia (ossia le opere, gli atti, tutto quanto riguarda l'amore e il sesso) sono perciò sottoposti a un regime che indica nella temperanza, nella moderazione, nella padronanza (enkrateia) di se stessi e nella scelta del momento opportuno (kairos) il campo di un uso dei piaceri da cui dipende le realizzazione stessa dell'individuo come sostanza etica.
A marcare più in profondità la distanza fra un'etica della legge universale e quella che Plutarco definiva la funzione ethopoietica del comportamento, è proprio l'esperienza degli aphrodisia, nozione incompatibile con quelle cristiane della carne e del desiderio. Gli aphrodisia non rimandano all'idea di una colpa originaria, ma solo alla consapevolezza di una forza che la natura ha immesso nell'uomo e che bisogna saper amministrare. Non si pone, dunque un criterio di integrità o di "purezza" che dovrebbe preservare l'individuo dal pericolo dei piaceri, ma solo il problema di un dominio di sé non molto diverso dal potere che si esercita quando si amministra la propria casa o quando si assumono le responsabilità del proprio ruolo sociale.
In questo senso l'etica, presso i Greci e i Romani, era un fatto prettamente politico. La libertà, in quanto condizione di non-schiavitù (da un'altra città, da coloro che ci circondano o ci governano, dalle proprie passioni) era un tema fondamentale: "la cura della libertà è stato un problema essenziale, permanente, durante gli otto grandi secoli della cultura antica. Troviamo qui un'etica incentrata intorno alla cura di sé e che dà all'etica antica la sua forma così particolare. Non dico che l'etica sia la cura di sé, ma che, nell'Antichità, l'etica, in quanto pratica riflessa della libertà ha ruotato intorno all'imperativo fondamentale 'abbi cura di te stesso'"5. Non essere schiavi delle proprie passioni implicava la capacità di stabilire con se stessi un certo rapporto di dominio, di padronanza (in greco arché, potere, comando).
La ricognizione di Foucault nelle pratiche di sé dell'Antichità mostra come il fulcro della riflessione morale circa i piaceri (e, in primis, i piaceri sessuali) fosse la temperanza, intesa come esercizio di una libertà che si attua nella padronanza di sé, nell'atteggiamento cioè con cui il soggetto entra in rapporto con sé e con gli altri: si tratta di morali dominate dal problema dell'askêsis, delle tecniche di sé, più che da quello della codificazione e della definizione di ciò che è lecito e di ciò che non lo è.
Può questa problematica essere il fondamento di un nuovo pensiero del politico, di una politica diversa per la nostra epoca?
Non deve stupire che Foucault non potesse dare una risposta positiva a questo quesito. Ammetteva candidamente di non aver ancora esaminato il problema, pur considerandolo di estremo interesse. Era certamente lontanissima da lui l'idea che questo o quel principio della filosofia antica fosse il principio da cui ripartire, un fondamento indispensabile che era stato dimenticato. Tuttavia non negava che "il contatto con questo o quel filosofo non possa produrre qualcosa, ma bisognerà allora sottolineare che questa cosa è nuova"6.
E' stata la morte a impedirgli di riesaminare in chiave moderna le questioni che aveva affrontato attraverso la cultura antica? Oppure ci troviamo di fronte ad un limite intrinseco di una metodologia di indagine che, procedendo archeologicamente e genealogicamente "resta ferma" alla descrizione e alla problematizzazione degli eventi storici, senza delineare poi una teoria alternativa per il presente? Se così fosse, senza dubbio si tratterebbe di un percorso assolutamente coerente per un filosofo che ha sempre rifiutato il ruolo dell'intellettuale che dà magiche ricette per il futuro. Ciò che è riuscito a fare Foucault è stato di "aprire la problematicità del presente, di praticare una critica che però deve prescindere da un quadro teorico-politico di riferimento"7, se vuol conservare tutta la sua forza problematizzante.
Se il soggetto non è una sostanza, ma è una forma mai identica a se stessa, e se gli antichi sono l'esempio di come si possano costruire soggettività diverse da quelle cui siamo abituati a pensare, allora è davvero possibile, sembra dirci Foucault, reperire elementi e modalità da cui possano emergere soggettività capaci di darsi liberamente uno stile di vita. Una modalità di esistenza con le sue regole di condotta e la possibilità che ciascuno determini la propria sostanza etica scegliendo quale parte di sé debba entrare a costituire la materia della propria condotta morale. Questo non indica però una situazione di anarchia di valori: costituirsi in quanto soggetti morali non vuol dire solo essere capaci di condursi conformemente a delle regole ma anche essere pronti sempre a trasformare se stessi in soggetti responsabili della propria condotta.
Un lavoro etico che rimanda ad un impegno mai concluso di costruzione di sé, un'azione plasmatrice di noi stessi che anzitutto ci permette di conoscerci, di autocontrollarci, di metterci in ogni istante alla prova e quindi di trasformarci. L'epimelèia eautù dei greci indica infatti un'attività, il porre attenzione a qualcosa, il lavorare su qualcosa, un'attività che implica nello stesso tempo un sapere e una tecnica, una riflessione e un'azione.
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