Michel Foucault. La giustificazione teorica del metodo archeologico: l'Archeologia del Sapere
Con l'Archeologia del sapere (1969) Foucault cerca di portare a compimento "il progetto" abbozzato da la Storia della Follia, la Nascita della clinica e Le Parole e le cose. Concentrandosi unicamente sulle pratiche discorsive, Foucault definisce questa impresa come il tentativo "di calcolare le mutazioni che in generale si operano nel campo della storia"; di mettere in questione "i metodi, i limiti, i temi propri alla storia delle idee", con l'obiettivo di "troncare le ultime soggezioni antropologiche, mostrando nel contempo come esse si siano potute formare"1.
E' quindi il discorso il nuovo concetto-chiave, che ci viene proposto da Foucault nell'intervallo tra Le Parole e le Cose e la ripresa degli affreschi storici alla metà degli anni settanta. Fare una descrizione pura degli avvenimenti discorsivi.
In tutto il libro il termine avvenimento è preminente: L'autore mantiene la vecchia animosità verso le continuità di ogni tipo, ma sembra anche desideroso di sottolineare il concetto di eventi irruttivi, intersecantisi, malgrado ogni tentazione di individuare strutture stabili al di sotto di una superficie discorsiva 2. Benché i discorsi sciamino insieme agli avvenimenti, l'archeologo potrà trarne "regolarità" discorsive e "condizioni di esistenza"3. Nonostante nella prima parte dell'Archeologia vi sia una lunga ed accurata descrizione di queste quasi-strutture, egli sottolinea più volte che l'analisi da lui prescritta non ha nulla in comune con le ricerche ispirate dalla linguistica strutturale in quanto "si tratta di sospendere, nell'esame del linguaggio, non soltanto il punto di vista del significato[...] ma quello del significante. Troppo trascendentale rimane per lui il discorso strutturalista, che ha utilizzato soltanto, semmai, "come un punto d'appoggio e di conferma di qualcosa di molto più radicale: la rimessa in questione della teoria del soggetto".4
Ma il vero obiettivo polemico è la storia delle idee, sempre alla ricerca di una continuità e di un progresso, mentre la storia effettiva è, secondo Foucault, discontinuità e conflitto . Ecco il significato dell'invito foucaultiano ad accogliere in noi stessi la "morte dell'uomo", dell'uomo in quanto "essere della partenza e del ritorno e del tempo, l'animale che perde la sua verità e la ritrova illuminata, l'estraneo a sé che è ridiventato familiare"5, il soggetto signore ed il servo oggetto di tutti i discorsi sull'uomo.
Questa è la frode messa in atto da un umanesimo e da un'antropologia che ancora resistono, criticando prima e travisando poi l'operazione di decentramento del soggetto sollecitata nel pensiero dall'analisi marxiana dei rapporti di produzione, dalla genealogia di Nietzsche e dalla psicoanalisi di Freud. Una frode che perpetua così la funzione conservatrice di una cultura e di un pensiero totalitari: "quella che si piange tanto non è la scomparsa della storia, è l'eclissi di quella forma di storia che era segretamente, ma completamente, riferita all'attività sintetica del soggetto; quel che si piange è quel divenire che doveva fornire alla sovranità della coscienza un riparo sicuro [...], quel che si piange è quell'uso ideologico della storia mediante il quale si tenta di restituire all'uomo tutto ciò che, da più di un secolo, gli è sempre sfuggito"6.
La storia è per Foucault viva e continua e per questo essa deve rappresentare per noi il banco di prova su cui misurare i metodi del conoscere e i limiti del pensiero, divenendo così lo spazio in cui è possibile, anzi necessario, rompere con qualsiasi soggezione antropologica; questo progetto, abbozzato nei precedenti libri "con un certo disordine", come ammette lo stesso Foucault, non viene qui sistematizzato in maniera statica e definitiva. Al contrario, anche entrando nel campo dell'analisi delle prassi discorsive, egli non rinuncia alla sua "passione per il labirinto", a porre la sua riflessione in uno spazio rizomatico, nomadico, uno spazio topologico in cui mille percorsi si intrecciano e si snodano, rendendo ogni volta di nuovo precario ciò che si è detto, preparando così un percorso diverso, una nuova possibilità per il pensiero.7
L'Archeologia del sapere è allora un testo "dall'andamento cauto, zoppicante" che tratta i discorsi "non partendo dalla dolce, muta e intima coscienza che vi si esprime, ma da un oscuro insieme di regole anonime"8. Le diverse modalità enunciative non vengono mai considerate in relazione ad un soggetto, sintetico o unificatore, ma a partire invece dalla sua dispersione nella discontinuità di piani e livelli da cui parla.
Lo strumento principale per sottolineare l'impersonalità, l'irregolarità e le discontinuità nel discorso è il concetto di enunciato. Le formazioni discorsive sono costituite da enunciati. Foucault definisce l'enunciato prevalentemente in negativo, dicendoci che cosa non è. Gli enunciati, in quanto nuclei del discorso, non sono né proposizioni logiche, né frasi grammaticali o atti verbali. Foucault illustra questo punto affermando che una tavola tassonomica in un libro di botanica, oppure un albero genealogico, o un'equazione, sono costituiti da enunciati, ma ovviamente non da frasi. Egli è molto meno preciso quando si tratta di dire che cosa questi enunciati sono. Sembra considerarli "funzioni" piuttosto che "cose"; "un discorso è costituito da un insieme di enunciati per i quali si può definire un insieme di condizioni di esistenza"9. Nella misura in cui è composta di enunciati, una "pratica discorsiva" è un insieme che "si svolge nella dimensione di una storia generale"; e l'analisi archeologica " cerca di scoprire tutto quel campo delle istituzioni, dei processi economici, dei rapporti sociali su cui si può articolare una formazione discorsiva"10.
L'idea generale è, quindi, che ci siano tutto un insieme di regole "nella dimensione di una storia generale", che governano il discorso. Lo stesso concetto riappare quando Foucault utilizza quello che, insieme a "discorso", "enunciato" e "avvenimento" è il quarto termine-chiave de L'Archeologia del sapere: l'archivio. Infatti l' "archivio" è "innanzitutto la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l'apparizione degli enunciati come elementi singoli"11. Esso non è né il sistema linguistico né la tradizione, il pesante corpus di discorsi in una data civiltà. Corrisponde piuttosto al gioco delle regole che determinano in una cultura la comparsa e la scomparsa degli enunciati; l'archivio "è il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati"12.
L'"archivio" allora è una macchina che genera significato sociale. Infatti, se la sua descrizione è possibile lo è solo "a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere i nostri; la sua soglia di esistenza è instaurata dalla frattura che ci separa da ciò che non possiamo più dire, e da ciò che cade fuori dalla nostra pratica discorsiva; incomincia con l'esterno del nostro linguaggio e il suo luogo è lo scarto delle nostre pratiche discorsive"13. Una descrizione che è diagnosi del nostro presente, nella misura in cui ci mette nella possibilità di operare una distanziazione critica dalle nostre certezze e dalla nostra fede in una continuità temporale.14 L'archivio è un a priori storico, "non di verità che potrebbero non venire mai dette, ma di una storia che è data, perché è quella delle cose effettivamente dette"; un a priori che non sfugge alla storicità in quanto "non costituisce una struttura intemporale al di sopra degli avvenimenti; si definisce come l'insieme delle regole che caratterizzano una pratica discorsiva": non come regole che si impongono dall'esterno, ma come "implicate proprio in ciò che collegano".15
Di fronte agli a priori formali (quelli dello strutturalismo) la cui giurisdizione si estende senza contingenza, l'archivio è una figura puramente empirica; ma, d'altra parte, poiché permette di cogliere i discorsi nel loro effettivo divenire, deve poter spiegare perché quel determinato discorso, in un dato momento, accoglie o invece esclude quella determinata struttura formale. L'analisi archeologica mira quindi a far emergere l'enunciato come il c'è del linguaggio, l'essere del linguaggio, la condizione del suo darsi ed essere, condizione a priori ma anche storica, nella misura in cui il "c'è" varia e questo variare non è separabile da determinate formazioni storiche ciascuna delle quali riunisce il linguaggio secondo modalità che le sono proprie. Ne L'Archeologia del sapere Foucault descrive le condizioni di possibilità di un enunciato, la successioni delle epistemi, a prescindere sia dalla modalità di azione di un soggetto empirico, di un individuo che nella storia vive e pensa, sia da un soggetto trascendentale costituente, per andare solo alla presenza di un anonimo "si" che vive il momento problematico del trapasso da un episteme all'altra organizzando/variando il suo sapere. Questo può certamente apparire un limite dell'indagine foucaultiana, ma lo si può considerare un limite positivo dal momento che si inserisce nel progetto archeologico che, fin dall'inizio, punta a mettere "in evidenza l'inconsistenza dell'immagine classica dell'uomo, il suo non essere esclusivamente soggetto ma soggetto assoggettato, essere fragile, disperso in un linguaggio che non gli appartiene"16. Non si tratta qui di negare la libertà e l'azione dell'uomo poiché, come spesso ricorda Foucault, parlare significa sempre fare qualche cosa, significa resistere e trasformare una qualche pratica, cambiare il discorso nella possibilità di costituire forme di soggettività non assoggettate, ed è proprio in questa direzione che le sue analisi si indirizzano più specificamente verso il potere e i suoi rapporti col sapere.17
Ne L'ordine del discorso, la lezione inaugurale tenuta al Collège de France il 2 dicembre del 1970, Foucault enumererà, più chiaramente e forse meno severamente, le nozioni che devono servire ad una nuova analisi del discorso. Così, proponendo l'evento, la serie, la regolarità e la condizione di possibilità, se ne servirà per opporli, parola per parola, ai principi che, secondo lui, hanno dominato la storia tradizionale delle idee. Opporrà così l'evento alla creazione, la serie all'unità, la regolarità all'originarietà e la condizione di possibilità alla significazione, al terreno sotterraneo dei significati riposti. Mostrando come in ogni società con metodi differenti la produzione del discorso sia controllata, organizzata, selezionata e distribuita mediante un certo numero di procedure (esterne, interne e di controllo), Foucault vuole spiegare che "il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi"18.
Tutto questo, nell'Archeologia, viene soltanto tenuto in sospeso, perché il lavoro dell'archeologo è descrivere il discorso come sistema autonomo, delineare le regole delle pratiche discorsive di per sé, accantonando temporaneamente l'analisi istituzionale. E sarà proprio l'interesse sempre più impellente - tuttavia presente anche nei primi scritti - per le pratiche sociali che spingerà Foucault ad accantonare o meglio, ad utilizzare solo come strumento e non più come fine, il metodo archeologico per eleborare, a partire dalla genealogia di Nietzsche, un nuovo metodo che gli consenta di sottoporre ad esame e di problematizzare le relazioni che intercorrono fra verità, teoria, valori, istituzioni sociali e pratiche all'interno delle quali i discorsi emergono.
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