Cosa cambia in Iraq dal 1° settembre 2010? Niente, a parte una novità che vedremo alla fine. In politica interna non cambia nulla: il governo non c’era prima e non c’è adesso. Cinque mesi dopo le elezioni, le posizioni dei vari blocchi restano inconciliabili. Il blocco sciita moderato del premier Nuri Al-Maliki dispone di 89 seggi su un totale di 325, quasi altrettanti (91, ma non abbastanza) ne ha il blocco sunnita di Iyad Allawi ma i due avversari non solo si guardano in cagnesco, ma non si parlano neppure. E così Al-Maliki non sa con chi allearsi: il blocco curdo ha un numero di seggi insufficiente a formare una maggioranza e il partito sciita di Muqtada Al-Sadr disprezza quello di Al-Maliki.
Sul fronte dell’ordine pubblico non cambia alcunché, se non in peggio: gli attentati terroristici, che erano diminuiti del 90% rispetto al 2007, ora sono in costante aumento, favoriti anche dal disimpegno americano. A fine agosto un’ondata di attentati ha lasciato sul terreno una cinquantina di vittime. Dal punto di vista della qualità della vita i risultati sono controversi. E’ ben vero che il numero delle connessioni internet è aumentato negli ultimi sette anni da 4.500 a 1 milione e 600.000 e che i telefoni cellulari sono passati da ottantamila a 20 milioni, ma due milioni di irakeni hanno lasciato il paese e 150.000 hanno perso la vita, insieme a quasi 5.000 soldati della coalizione. I contribuenti americani hanno pagato 700 miliardi di dollari, eppure la corrente elettrica appare solo per poche ore al giorno, l’acqua potabile scarseggia, i sistemi scolastico e sanitario sono inadeguati e la disoccupazione resta altissima. Sotto il profilo militare la “rivoluzione” del 31 agosto in realtà lascia le cose come stavano prima. La tanto propagandata partenza dell’ultima “unità da combattimento” americana in realtà è avvenuta all’italiana. Cosa si fa in Italia quando risulta evidente che le auto blu sono troppe? Si lascia invariato il numero (o lo si aumenta) ma si cambia il colore delle macchine. Cosa si fa in Italia quando un referendum pubblico decide di abrogare la legge istitutiva di un certo ministero? Si lascia quel ministero al suo posto ma gli si cambia nome. E’ esattamente ciò che hanno fatto gli statunitensi, perché in Iraq rimangono ancora undici brigate armate fino ai denti, di cui sette dell’esercito, due della guardia nazionale e due di “combat aviation”. La differenza sta nel fatto che le brigate dell’US Army non manterranno il nome di prima (Infantry, Stryker o Heavy) ma assumeranno la bonaria denominazione di brigate “Advise and Assist” pur restando tali e quali. In totale si tratta di 50.000 soldati, più altri 10.000 nel vicino Kuwait, pronti ad ogni evenienza. Il futuro del paese mesopotamico sta scritto in un accordo firmato fra i governi USA e irakeno, in base al quale entro il 31 dicembre 2011 l’ultimo soldato americano lascerà l’Iraq. Sarà proprio così? Non esattamente. Dal 1° gennaio 2012 in avanti (e non si sa per quanti anni ancora, a meno che il 12 dicembre di quell’anno non accada davvero la fine del mondo) le responsabilità che prima erano del Pentagono saranno assunte dal Dipartimento di Stato USA, che sovrintenderà all’addestramento della polizia irakena. Le basi militari verranno sostituite da uffici consolari e i militari americani verranno rimpiazzati da compagnie private di sicurezza. Questi armigeri gireranno per l’Iraq a bordo di veicoli corazzati e di elicotteri armati, ma risponderanno (ed è questa la principale novità) non a Robert Gates bensì a Hillary Clinton. Speriamo bene.
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