La prestazione lavorativa altro non è che la messa a disposizione del proprio lavoro intellettuale o manuale al servizio di un’attività d’impresa o comunque quale contributo per la realizzazione di qualcosa. Nella prestazione di lavoro subordinato, questa messa a disposizione viene fatta alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore; il lavoratore in questa obbligazione che scaturisce dal suo contratto di lavoro è chiamato a svolgere determinati compiti e porre in essere delle specifiche attività che prendono il nome di “mansioni”.
Questo viene affermato a chiare lettere nell’art. 2103 c.c. nel quale si legge: “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto”; se ci soffermiamo a leggere quest’articolo, però, vediamo che la norma prevede anche una mobilità del lavoratore rispetto a quanto pattuito al momento dell’assunzione.
“Jus variandi” e mobilità del lavoratore
Poiché il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ogni successiva modifica nel corso del rapporto di lavoro, incontra determinati limiti imposti dalla legge o dai contratti collettivi. Secondo l’art. 2103 c.c., infatti, il datore di lavoro può esercitare il c.d. ius variandi, può cioè sottoporre ad una certa mobilità il lavoratore, rispetto a quanto pattuito al momento dell’assunzione. Questa mobilità è legittima quando il lavoratore viene adibito a mansioni diverse ma corrispondenti alla categoria di appartenenza e comprese nel suo livello di inquadramento, e allora si parlerà di mobilità orizzontale;
oppure può essere adibito a mansioni corrispondenti alla categoria superiore (perché magari ne ha acquisito le capacità) e in tal caso si parla di mobilità verticale.
Ancora, il cambio di mansioni è legittimo quando viene adibito a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
Riassumendo:
Nella sua attuale formulazione, frutto delle modifiche apportate dal D.Lgs. 81/2015, l’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
Elemento di novità è, dunque, che non si fa più riferimento al requisito dell’equivalenza tra le ultime mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione: al datore di lavoro è attribuita la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale.
Ciò significa che, se in base al contratto collettivo il mutamento di mansioni non comporta alcuna variazione di livello e categoria, non sussiste alcun limite nell’assegnazione di nuove mansioni ad eccezione della non discriminazione.
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