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sabato 9 gennaio 2010

Il bene comune dell'amicizia nell'esperienza politica

«Quale casa è così stabile, quale città è così salda da non poter essere sconvolta dalle fondamenta a causa degli odi e delle discordie? Da ciò si può giudicare quanto di buono ci sia nell’amicizia».

Sono parole di Marco Tullio Cicerone, tratte da una delle sue ultime opere, “Laelius de amicitia”. Con l’uccisone di Cesare, fatto per il quale Cicerone impropriamente era additato come mandante diretto, la vita di Roma e quella personale del retore latino ebbero conseguenze disastrose. Le stesse fondamenta della convivenza civile avevano ceduto. Nulla fu più come prima.

Su cosa rifondare la società, la politica? Cicerone ha un’intuizione che, nonostante la semplicità, cambierà il corso della storia di Roma. Egli vede alla base della nuova società civile un nuovo fattore di aggregazione, che nella storia non si era mai affacciato prima: l’amicizia. L’affetto, inteso come “benevolentia” e “caritas”, sarà per lui il fondamento della civiltà che sorgerà dalle ceneri della guerra civile.
La profezia ciceroniana si verificherà pienamente, tanto da adattarsi bene a ciò che Roma sarà sia nella realizzazione augustea, sia in quella, del tutto imprevedibile, del cristianesimo.

«Ma poiché le umane cose sono fragili e caduche, dobbiamo sempre ricercare qualcuno da amare e da cui essere amati».

È sorprendente che Cicerone non si attardi a ricercare nuove formule di ingegneria istituzionale, nuove regole per la convivenza civile. Egli si rivolge direttamente al cuore dell’uomo. E lo fa nella consapevolezza che ogni cosa – il diritto, le istituzioni – è caduca. Soltanto il cuore dell’uomo è capace di costruire. La “caritas” ciceroniana è, appunto, questa grande capacità che ha il cuore dell’uomo di unirsi a ogni altro uomo, tendenzialmente al mondo intero. Soltanto la benevolenza e la carità, dunque, possono generare una società.

«Ricercare qualcuno da amare e da cui essere amati» è per lui la ragione che spinge l’uomo a stabilire una rete di rapporti ordinata. Ogni altro principio è causa di disordine, di divisione e soprattutto di disagio per l’uomo. Ogni progetto di ricostruzione della società non potrà trascurare questa esigenza imposta dal cuore stesso dell’uomo.
Per quanto sinistro sia il rumore della nostra epoca e raccapricciante l’urlo dell’uomo contemporaneo, la strada, lastricata di positività, che era indicata per la prima volta dal retore latino, è ancora molto attuale.

«E pur racchiudendo l’amicizia molti ed enormi vantaggi, tuttavia essa certamente è superiore a tutte le cose, poiché ci fa brillare innanzi una lieta speranza per l’avvenire e non permette che gli animi si scoraggino o si abbattano».
E non si tratta di sentimentalismo. I romani alla parola amicizia seppero dare un contenuto concreto e giuridicamente rilevante. Scrive Emanuele Narducci: «L’amicitia (come l’inimicitia) è, nella società romana, non un rapporto privato, ma una situazione codificata e quasi istituzionale; non a caso trova una sua precisa sfera di applicazione anche nel campo del diritto internazionale: si parla di “amicus populi Romanii” per definire un popolo che ha scelto di collocarsi sotto l’ala protettrice dell’Impero».

«Dunque è vero, se non sbaglio» sostiene Cicerone, «ciò che ho sentito che i nostri vecchi ricordavano, avendolo sentito da altri vecchi, vale a dire ciò che era solito esser ripetuto da Archita di Taranto: “Se qualcuno fosse asceso al cielo e avesse osservato la struttura del mondo e la bellezza degli astri, quella contemplazione, non sarebbe stata così piacevole se egli non avesse avuto qualcuno cui raccontarla". Così la natura non ama nulla di solitario e sempre si appoggia, per così dire, a qualche sostegno, cosa che è tanto più dolce quanto più caro è l'amico».

È la natura stessa dell’uomo, dunque, a esigere il sostegno dell’amicizia e un sistema politico che voglia essere equo – e di conseguenza stabile – deve essere rispettoso della natura dell’uomo.

Non è possibile una convivenza senza benevolenza e carità.

Cicerone, per la prima volta nella storia, rappresenta la res publica non soltanto come una cosa necessaria alla convivenza fra gli uomini – necessaria limitazione dell’arbitrio – ma come una realtà carica di positività. La res publica può, non soltanto regolare la vita degli uomini, ma anche garantire all’uomo un’umanità più piena. Può, dunque, rappresentare un bene per l’uomo.

Sant’Agostino riprende questa idea, riproponendo il celebre esempio, riportato nel “De Repubblica” di Cicerone, del dialogo tra Alessandro il Grande ed il pirata che infestava i mari. Agostino scrive nel “De civitate Dei”: «Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con franca spavalderia: “La stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta”.»
Nella sua spavalderia, il pirata non considera l’idea del bene comune; per lui il bene non è altro che un vantaggio personale. Il suo “piccolo naviglio” non arreca che danno, proprio perché si pone in contrasto con un bene superiore.

Il bene, per Agostino, è destinato tendenzialmente a tutti gli uomini. E questo perché, per lui, sommo bene è Dio stesso il quale, con la sua paternità, ama tutti gli uomini. Se a una parte di questi uomini, o magari a un solo uomo, fosse volutamente precluso il bene, l’azione politica sarebbe inevitabilmente orientata al male; l’uomo politico sarebbe come il “pirata” di cui parla Cicerone; un mafioso – diremmo oggi. Tra bene comune e mafia, la linea di demarcazione è, dunque, sottilissima; se cioè, il bene è censurato nella sua naturale totalità, non è più tale. Questo bene censurato nella sua naturale totalità è il “piccolo naviglio” denunciato da Agostino; è il vero pericolo che “infesta il mare” della società.

L’amicizia è, perciò, il necessario presupposto per garantire il bene comune, per costruire una res publica ordinata. L’azione politica deve essere animata dall’affetto ciceroniano, inteso come “benevolentia” e “caritas”. Cosa sia però il bene comune, non è facile stabilirlo. E non vi è argomento più controverso di questo nel dibattito pubblico. Perché sono misteriose sia la verità sia la strada per giungere al bene. Nonostante ciò, si può affermare con sicurezza che il bene è ciò che maggiormente corrisponde alle esigenze del cuore umano. Dunque, per individuare qual è il “bene per tutti”, dobbiamo tentare di comprendere quale sia la natura dell’uomo. Se l’amicizia è un bene, dice Cicerone, lo è perché l’uomo per natura tende all’amicizia.
Studiare la natura degli uomini può, indirettamente, aiutare ad individuare il bene comune. È molto interessante il contributo ideale fornito, a questo proposito, da Niccolò Machiavelli. La riflessione politica del Segretario fiorentino, come sappiamo, è tutta concentrata sulla complessità della natura umana ed in particolare sul suo stato corrotto.

Questo aspetto particolare del pensiero machiavelliano, è stato visto, a torto, in una luce sinistra. In realtà, la genialità di Machiavelli consiste proprio nell’aver saputo proporre una positività della politica partendo, paradossalmente, dalla inevitabile corruzione della natura umana.
Secondo Giulio Ferroni, per il Segretario fiorentino «La civiltà si organizza prendendo avvio da una violenza originaria, da un iniziale stato “ferino”, e ne sospende e razionalizza i caratteri, convincendo gli esseri umani a raccogliersi attorno a qualcuno “più robusto e di maggiore cuore”.»

Paradossalmente, non vi sarebbe civiltà se non vi fosse stata questa violenza, questa “felix culpa”, di fronte alla quale nell’uomo scatta la coscienza del valore della propria esperienza umana e scatta la decisione di difendere questo valore, questo bene. Per Machiavelli, nemmeno la violenza, o addirittura la guerra, possono pregiudicare il cammino di ricerca della pienezza dell’umanità.
Le istanze pacifiste che percorrono la società contemporanea, rendono ancora meno accessibile e condivisibile la profondità del pensiero machiavelliano. Ma non è possibile chiudere gli occhi sulla sua stringente razionalità.

Per Machiavelli, il mondo è permanentemente in stato di guerra ed «è impossibile che a una repubblica riesca lo stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi confini, perché se lei non molesterà altrui, sarà molestata ella».

Costantemente minacciato, il bene – come benessere, libertà e pace – deve essere altrettanto costantemente difeso. È questo impegno, sempre attivo, la garanzia della stabilità sociale. Dalla presa di coscienza del bene comune da tutelare, scaturisce quel legame indissolubile tra gli uomini che Cicerone chiama amicizia. Machiavelli ammonisce che la desistenza dalla violenza non è sufficiente, di per sé, a garantire la pace. Gli uomini devono, piuttosto, «riguardare infra loro quello che fosse più robusto e di maggiore cuore». Devono ricreare un’unità di popolo forte e capace di guardare con magnanimità alla condizione purtroppo corrotta della natura umana.

Questo fattore di aggregazione, l’amicizia, per poter assicurare stabilità alla convivenza sociale esige un atto di gratuità. I rapporti umani e la stessa economia non hanno altro fondamento che un gesto di gratuita affermazione dell’altro.
Il fondamento dell’economia è la gratuità.

Questo lo si vede nella vita dei giovani. Difficilmente un giovane può mettere su casa, o un’iniziale attività economica, senza il sostegno gratuito degli adulti. Ciò risolve, tra l’altro, il problema che maggiormente affligge l’economia dei paesi occidentali: il blocco generazionale della ricchezza. La causa principale della crisi delle economie evolute, infatti, è l’incapacità di riuscire a trasferire la ricchezza alle generazioni successive.

Senza un atto di gratuità, non c’è bene personale, non c’è bene comune, non c’è economia.

Fonte: Paolo Tritto

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