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mercoledì 23 giugno 2010

"Hanno ammazzato Saviano"

Roberto Saviano steso su un tavolino di quelli dell’obitorio, avvolto in un telo verde, con dei ferri a sostenergli la testa e con appeso al piede un cartellino identificativo. Si presenta così la finta foto shock della morte dello scrittore. Un’immagine che sembra presa da un episodio di CSI o del Commissario Manara ma è (fortunatamente), soltanto un fotomontaggio pubblicato dal mensile Max, in edicola il prossimo 25 giugno.

IL FOTOMONTAGGIO - Il «Saviano morto» occupa le prime due pagine del mensile, una posizione forte, di gran rilievo, che sembra assumere la valenza di un editoriale. L’immagine reca anche il titolo in neretto «Hanno ammazzato Saviano» ed un piccolo testo esplicativo, in un ensemble che ricorda tante morti tristemente celebri, non ultima quella di Pier Paolo Pasolini sul litorale di Ostia. La rielaborazione è frutto di un ricco lavoro di Photoshop di Gian Paolo Tomasi, uno specialista nel settore e vuole essere in tutto e per tutto una provocazione, come dichiara il direttore di Max, Andrea Rossi. Il periodico ha una certa esperienza in fatto di provocazioni: nello scorso inverno pubblicò infatti l’intervista che costò a Morgan la partecipazione al Festival di Sanremo.

UN'IDEA PER DIFENDERE SAVIANO - L’idea del fotomontaggio è nata dai continui attacchi subiti dallo scrittore napoletano, spiega Rossi: «Non ce l’abbiamo fatta più a sentir gente attaccare Saviano. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le dichiarazioni di Marco Borriello. A quel punto ci siamo detti basta». L’attaccante del Milan aveva dichiarato lo scorso giugno al mensile GQ che Saviano aveva lucrato sulla città di Napoli, esaltandone esclusivamente il lato negativo. Dopo qualche giorno, però, Borriello aveva corretto il tiro, tentando di smussare la durezza di quanto ave va detto.

IL PROBLEMA E’ LA CAMORRA O SAVIANO? - Ma non sono solo i commenti del calciatore ad aver mosso la sensibilità della redazione di Max, come spiega ancora Rossi: «In questi mesi è stato un continuo: Emilio Fede, Berlusconi, che di Saviano è anche l’editore. Ma insomma, qual è il problema, la camorra o Saviano che la combatte? Mi pare che il gioco che si profila sia quello della delegittimazione: svalutate ciò che dice per isolarlo, poi se arriva quello che lo fa fuori».Saviano, però, non è stato avvertito della particolare immagine che lo vede protagonista, anche se, come aggiunge Rossi, probabilmente è già al corrente della loro idea: «Abbiamo preparato l’immagine senza parlargliene. Dopo l’ha sicuramente saputo, tramite il quotidiano per cui scrive e il suo agente. Finora, comunque, non mi ha telefonato. Davvero non so come l’abbia presa». L’unica cosa che manca, in questa terribile ipotetica fotografia, sono i nomi dei mandanti, anche se Andrea Rossi non ha dubbi nemmeno su quest’argomento «Possono immaginarseli tutti».

LO SCRITTORE: «FOTO DI CATTIVO GUSTO» - Al corrente della notizia, Roberto saviano non l'ha presa proprio bene: «Trovo il fotomontaggio che mi rappresenta morto in obitorio di cattivo gusto. Un'immagine - ha detto lo scrittore - utilizzata per speculare cinicamente sulla condizione di chi come me in Italia e all'estero vive protetto. Un'immagine profondamente irrispettosa per tutti coloro che per diversi motivi, spesso lontano dai riflettori, rischiano la vita. Tutta questa pressione sulla mia morte, poi, lascia sgomento me e la mia famiglia. Ad ogni modo rassicuro tutti: non ho alcuna intenzione di morire». Il prossimo numero di Max pubblica in apertura una grande immagine di Roberto Saviano cadavere, steso su una barella da obitorio, con tanto di cartellino di identificazione legato all'alluce, ripreso di scorcio dai piedi. La figura evoca il Cristo morto del Mantegna e il celebre scatto sul Che Guevara ucciso. Un titolo a caratteri cubitali recita: "Hanno ammazzato Saviano". Una piccola didascalia spiega: "Lo vorrebbero così senza vita, ridotto al silenzio. Ha molti nemici: i camorristi, Berlusconi, Fede, Borriello, Daniele Sepe... Ma la sua vita è già una condanna... La sua libertà e la nostra sono le sue parole".

Ma è un'immagine che non avrei voluto vedere. Osceno è, letteralmente, ciò che è, e deve rimanere, fuori scena, lontano dallo sguardo. Come i corpi dei morti, appunto: pietosamente coperti da lenzuoli, quando morti violente occorrono nella pubblica via. Conflitti drammatici intorno alla possibilità di dare una degna sepoltura ai corpi hanno animato tra le pagine più sublimi della letteratura greca: dall'Antigone di Sofocle, al supplice Priamo che si reca da Achille a reclamare il corpo dell'amato figlio Ettore. Il fatto che sempre più i media usino e abusino di immagini violente, non deve farci perdere di vista quello che dovrebbe ancora essere il senso comune della pietas. Tutto questo, sulla pelle di un vivo.

Max rappresenta Roberto Saviano - un uomo di trent'anni, vivo, ma che da quattro vive penosamente sotto scorta, dunque assillato e accompagnato da un'ombra di morte - come se fosse già cadavere.
E qui, davvero, ogni limite, non solo di pietas, ma anche di buonsenso, è andato in pezzi. Questa provocazione diventa un termometro per misurare la febbre dei tempi. Mi vengono in mente le immagini scioccanti di uno dei film più ferocemente provocatòri sui mostri generati dalla società dello spettacolo: il musical All that jazz. Il protagonista, artista celebratissimo - alter ego del regista, Bob Fosse - è in punto di morte, steso sul lettino della camera operatoria mentre cercano di salvargli la vita con un'operazione a cuore aperto, e in montaggio parallelo scorrono le immagini di una asettica riunione di pescecani della produzione teatrale, che calcolano quanto potrebbero guadagnare se la superstar morisse... It's showtime folks! È la sinistra battuta con cui il protagonista, sempre più estenuato, si dà il buongiorno allo specchio.

"L'abbiamo fatto per Roberto", dicono. Per rispondere a chi cerca visibilità attaccandolo, a chi lo delegittima accusandolo di diffamare il Paese. Per ricordare che è prima di tutto un uomo sotto scorta. Minacciato. Privato della libertà e della serenità. Che meriterebbe rispetto. È una provocazione a fin di bene. Per ricordare che si tratta di un uomo in pericolo, ogni giorno.

Ma non basta vedere lo sciame di carabinieri che circonda Saviano ad ogni passo? Le lunghe e complesse operazioni di controllo e bonifica dei teatri, degli auditorium, delle piazze dove può incontrare il pubblico dei suoi lettori? Non bastano le dichiarazioni che Saviano stesso ha consegnato a numerosi articoli, interviste, da ultimo, a un documentario confessione? No, non basta. Il Moloch della comunicazione si abitua a tutto, anche alle reiterate minacce di morte: allora chi è più spregiudicato gioca al rialzo.

Ma in questo gioco - perverso - non si rende affatto un servizio a Roberto Saviano, uomo e scrittore. Si contribuisce infatti a schiacciarlo in un'immagine bidimensionale, un simbolo, un'icona. Si collude con chi lo tratta come un oggetto di marketing o di chiacchiere da salotto. Con chi snatura il senso del suo impegno cercando di trascinarlo nel ruolo di leader in pectore di una sinistra in crisi, a dispetto delle sue reiterate dichiarazioni. Lo si riduce a un ricettacolo di proiezioni, insomma - da adorare, o da abbattere, a seconda. Così, oltre che della libertà, Roberto Saviano viene privato della sua umanità e normalità, un pezzetto per volta. L'immagine, che simula la morte, consuma l'ultimo oltraggio, perché svuota la carne della carne. Lo svuotamento del simulacro è completo. Voilà, il martire è servito.

È un pessimo scherzo all'autore che si muove con fatica per un sentiero sottile e impervio: cercare di utilizzare la sua enorme popolarità e il suo indubbio carisma, per veicolare i contenuti di Gomorra e dei suoi contributi successivi. Iniziare il grande pubblico agli spietati meccanismi di dominio economico della criminalità organizzata, renderlo avvertito sui limiti di un contrasto solo militare alle mafie, o portare in prima pagina la vergogna del voto di scambio nelle regioni del sud, temi d'emergenza, solo per far qualche esempio.
L'immagine del giovane scrittore morto toglierà spazio a ciò che Saviano dice, scrive, ripete, a quelle parole pericolose a cui ha già sacrificato moltissimo. Sarebbe il caso di non renderglielo ancora più difficile.

(di Benedetta Tobagi, tratto da Repubblica)

Lo “Scontro di civiltà”. Il vicino Oriente nel sistema mondo.

Lo “Scontro di civiltà”. Il vicino Oriente nel sistema mondo: differenza culturale e asimmetria politica. Adel Jabbar sociologo - Università Ca’ Foscari di Venezia


Buonasera a tutti, grazie per l’invito e grazie per questo confronto.

Vorrei introdurre il tema con un cosa che ci faccia anche sorridere perché non si può parlare sempre delle cose problematiche in modo eccessivamente “serio”.

Però questa introduzione serve a sviluppare il mio ragionamento intorno al concetto dell’”asimmetria”.

Come sapete la Francia e l’Europa nella loro visione occidentale hanno il vanto di portare avanti gli slogan della rivoluzione francese; liberté, fraternitè, legalitè

A questo proposito quello che diceva la Guazzone su libertà supremazia e prosperità: e quindi una vecchia cosa questa è quello di portare avanti di legittimare il proprio espansionismo legittimando ed autorizzando visioni magari etiche che possono certamente influenzare la propria opinione pubblica.

Quindi la Francia che ha colonizzato buona parte della terra e quindi nella popolazione locale ha trovato anche dei sostenitori. Perché poi i potenti possono far funzionare le loro operazioni perché ci sono anche dei collaborazionisti, colui che è disponibile a collaborare. Uno di questi, un intellettuale di aerea africana si è sempre vantato di definirsi “io sono francese” in ogni occasione.

Un giorno ha svelato questo segreto del perché si definiva come tale in un momento: Un giorno all’arrivo di un esponente dell’autorità francese e confrontandosi con questo dirigente dello Stato francese con i rappresentanti della società e delle istituzioni e c’era presente anche questo intellettuale che partecipava, si alza e chiede al ministro Francese: Signor ministro io mi sono sempre definito francese. I miei connazionali spesso non lo comprendevano questo fatto, qualcuno mi criticava, molti hanno preso le distanze da questo mio desiderio. E io certamente ci ho ripensato però gli dico chiaramente che io mi sono sempre definito francese perché ci ho creduto nei valori della rivoluzione francese, liberté, egalité, fraternité però dopo decenni del vostro operato nel mondo, sinceramente ho cambiato idea. Come mai, caro Ministro non avete applicato in giro queste cose?

Il Ministro risponde: Caro signore questi sono prodotti non per la esportazione.

Detto questo il prodotto non per la esportazione democrazia legalità e prosperità rimangono ancora di fatto sotto il monopolio dell’elite dominante. L’elite che esercita l’egemonia sul mondo, certamente vorrebbe includere gli altri però in un modo subalterno.

A proposito di scontro di civiltà (vedi il saggio pubblicato da Huntington nel 1993 e pubblicato in Italia nel 1997 che parla di scontro di civiltà) tende fondamentalmente a fare dimenticare la storia reale, concreta degli esseri umani che è fatta di intrecci e di compenetrazioni e anche di invasioni.

Allora il mondo di oggi dove si è affermato questo modello dominante che si chiama occidente di fatto possiamo trovare così, schematicamente parlando, un momento storico importante nel viaggio di Colombo del 1492. Il mondo che conosciamo è un prodotto di quella data lì dove si è affermata la potenza europea nel dettare leggi, regole e nel determinare gli assetti economici, sociali, culturali altrui.

E di questo sono stati prodotti diversi dell’assimilazione dell’America Latina, che è diventata buona parte cristiana di lingua francese, spagnolo però guardate il caso questo non ha salvato l’America Latina da una realtà disastrosa sul piano politico, economico e di subalternità.

Il caso delle Africa nera in parte somiglia all’America Latina nell’assoggettarsi e nell’assimilare, incorporare i modelli dominanti.

Un’altra area, nell’Asia in particolar modo, c’è stata più resistenza, Cina, India, gli arabi, che hanno per storia, sono in qualche modo riusciti a resistere al dominio europeo.

Non a caso il pericolo oggi per gli Stati Uniti deriva dalla Cina e dall’India come potenza economica, e poi certamente la resistenza culturale che esprime il mondo arabo mussulmano nei confronti di questa egemonia sul piano culturale.

E quindi lo scontro di civiltà dimentica che il mondo di oggi non è fatto di contenitori geografici dentro i quali ci sono delle confezioni culturali, questo non lo è, questo è un mondo oggi è un sistema dove c’è un centro e dove c’è una vasta periferia.

(Vedi un bellissimo articolo di Eduardo Galeano “Il governo della monarchia universale” capeggiata dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, dove si siedono proprio quelli che conducono le regole del gioco 7-8 paesi del capitalismo maturo o post moderno, chiamatelo come volete ma che comunque rimane egemonia, sfruttamento e di repressione nei confronti di molti altri popoli).

Allora una monarchia universale dentro a questo c’è il centro, centro che gode del privilegio di poter governare e una vasta periferia, America Latina, Africa, il mondo arabo, Asia, l’Est europeo sono popoli subalterni, divisi e trattati secondo tre categorie.

La subalternità, filantropia occidentale (il re del Belgio quando nell’800 il suo esercito massacrava la gente del Congo fondava nello stesso momento una associazione per l’amicizia con l’africa.)

Quindi l’Occidente bombaroli e pompieri, e ha conquistato il mondo, anche oggi. Nello stesso aereo ci sono i venditori di armi, i generali ed i crocerossini e altri che vogliono fare del bene.

Più il centro del sistema è aggressivo e stranamente viene accompagnata da una grande propaganda filantropica: più aggressivo e più forte è l’aspetto solidaristico Oggi i privilegiati di questa solidarietà sono fondamentalmente i popoli dell’Africa nera, l’America Latina.

Solidarietà cosa vuol dire? Comunque una relazione asimmetrica tra donatori e riceventi, chi riceve certamente non può incidere su quale solidarietà su quale tipologia di solidarietà, su quali tempi e su quali obiettivi.

Seconda: la realtà è da ristrutturare, l’economia dell’est, del Sud Asiatico sono tutte economie da ristrutturare. Sembra una parola neutra, ma chi va a ristrutturare l’economia? Chi la rende compatibile? In base a quali criteri?

Anche qui è un altro tipo di relazione di asimmetria.

Terzo tipo di relazione gli stati canaglia e i disobbedienti, che si chiamano Cuba, Corea, Iran, l’Iraq non lo è più, e quindi gli stati canaglia nei confronti dei quali certamente ci vuole la guerra preventiva per ripristinare l’ordine.

Oggi il ragionamento per confutare lo scontro di civiltà ha bisogno di avere un altro immaginario di mondo.

C’è un sistema dove c’è un centro e una periferia e ci sono popoli e paesi subalterni a queste logiche,

Quindi le problematiche fra centro e periferie non, come vogliono i teorici dello scontro di civiltà, è uno scontro c’è certamente tra avvantaggiati e svantaggiati sul piano economico, sul piano politico, sul piano ecologico, sul piano quale cultura del lavoro, quale cultura della giustizia, ma anche quale democrazia.

Quindi i temi sono questi

Però i temi letti così diventano in qualche modo confutanti di quanti vogliono lo scontro di civiltà. Quindi il tentativo di Huntington e di chi oggi si definiscono cristiani, atei o atei cristiani o cristiani di cultura è invece la questione non solo di natura economica, di natura sociale, di natura politica o di lotta fra vantaggio e svantaggio, ma è una questione culturale. Quindi tutto il tentativo di Huntington nel suo libro è quello di confezionare aree geografiche per mettere dentro pseudo elementi culturali che si vuole, secondo queste teorie, siano incompatibili e quindi di conseguenza, proprio perché questa incompatibilità mette a rischio la sopravivenza del modello democratico, liberale occidentale degli stati uniti, gli USA devono difendersi e portare avanti una repressione ed una guerra preventiva.

Un passaggio di questo libro dice che i confini dell’islam grondano a sangue perché il sanguinario sono quelli che vivono al loro interno.

Questa è una definizione che Huntington con molta faciloneria e anche determinazione mette insieme.

Quindi se noi andiamo a vedere questo mondo islamico all’interno del sistema mondo certamente la sua sorte è stata uguale a tanti altri popoli colonizzati.

Il mondo arabo, il mondo mussulmano ed il vicino oriente sono prodotti tipici dell’opera coloniale.

Lo possiamo anche vedere in un racconto di Italo Svevo “La tribù” che descrive già all’inizio del 900 i cambiamenti che avvenivano in quell’area del mondo arabo: la trasformazione della tribù l’introduzioni di nuovi meccanismi capitalistici quali proprietà privata, nuovi regole per lo studio all’estero perché la tribù opta di inviare all’estero per imparare lì ecc.

Tutto questo per dire che negli anni 30 Ungaretti torna a visitare l’Egitto dove è nato e scrive un bel libro di memorie “Il deserto” pubblicato da Mondadori dove descrive i cambiamenti che sono già avvenuti negli anni 30 in Egitto.

Mi è capitato non molto tempo fa, un libro degli anni 50 curato da un italiano, descrive un convegno a Venezia dove sono stati messi intellettuali arabi e italiani per discutere di temi su cui ancora stiamo discutendo.

Fra quegli intellettuali arabi, mussulmani c’è un tipo molto interessante un bengalese o inglese che, come molti intellettuali, deluso da questo capitalismo e dal materialismo dilagante, voleva trovare rifugi mistici in qualche altra esperienza religiosa e culturale. Si converte all’Islam e va in Arabia Saudita, però quando arriva in Arabia Saudita scopre che già l’occidente è arrivato prima di lui, vedeva i cambiamenti. Quindi questo “bengalese –inglese” in questo convegno degli anni 50, polemizzava con i mussulmani:

“ma voi che mussulmani siete? Siete degli occidentali, subalterni, ma occidentali, nella vostra cultura, nella categoria del pensiero, il vostro guardare il mondo, i vostri traguardi. Siete occidentali… Quindi con quale legittimità e autorità vi presentate qua come mussulmani.?”

Quindi questa realtà di mondo mussulmano che viene letto come fosse una realtà effettivamente esistente con i suoi connotati e la sua specificità e questa specificità a qualcuno piace definire incompatibili con la nostra definizione di democrazia e di laicità e tante altre cose è di fatto un prodotto ibrido che è stato attraversato ha vissuto trasformazioni radicali sul piano politico sociale ed economico. Il suo prodotto è questi stati che vengono chiamati mussulmani.

Questi stati cosiddetti mussulmani fondamentalmente sono il prodotto della opera coloniale. Vengono chiamati mussulmani ma il pensiero mussulmano non ha contribuito alla nascita di questi Stati qui sono stati determinati dai francesi e dagli inglesi e l’elite che li ha governati è una elite che ha avuto i suoi percorsi, i suoi studi nell’occidente.

Quindi sono stati sul piano istituzionale un prodotto occidentale, un diretto prodotto dell’elite occidentale più precisamente dell’elite occidentale moderna.

Però questo sistema da un pezzo giustamente e Spataro sottolineava il fatto sono regimi e che questi sono regimi oggi più che mai impopolari, non reggo più il confronto con le sfide esterne, e con le sfide interne.

Quindi per comprendere il vicino oriente (uso appositamente questa parola è geografia, anche l’uso dei nomi fa nascere una asimmetria perché usare medio oriente è di nuovo asimmetria, chi ha deciso di usare Medio Oriente e si utilizza? Questa area geografica è chiamata storicamente vicino oriente e si dice che la definizione medio oriente è nata nella prima guerra mondiale la sede, il quartiere generale dell’esercito inglese che si occupava delle operazioni militari inglesi in India aveva la sede il Cairo: quindi il riferimento è l’azione la sede era nel vicino oriente e così si è arrivati al grande Medio Oriente) ma il bello e che oggi pensate che ci sono giornali arabi il cui nome è il Medio Oriente.

Allora comprendere il mondo arabo è necessario un approccio finalizzato alla ricostruzione di un immaginario, oggi per comprendere quella realtà è necessario sospendere un attimo le varie categorie con cui leggiamo la storia.

Quindi ricostruzione che significa leggere la complessità degli altri che non è quella che pensiamo non a caso Abel Samad nella prima parte del suo intervento quali sono le problematiche della società araba ha messo: l’ingerenza straniera, militare ecc, due la dittatura e tre lo sviluppo, invece per gli occidentali è il fondamentalismo islamico e su questo abbiamo un centinaio di libri sempre con immagini di donne con un occhio fuori, un barbuto, un coltello….tutte immagini che servono alla commercializzazione a prescindere dal contenuto e della conoscenza…

Leggere questi popoli all’interno delle logiche del sistema mondo: centro e periferia. Questi popoli del vicino oriente appartengono alla periferia quindi il loro rapporto con il centro sono rapporti asimmetrici

2) questo che cosa ha significato? Che questi sono stati dei contenitori statuali che noi chiamiamo Stati che ancora oggi nascono con limitata sovranità e su questi paesi che noi chiamiamo arabi mussulmani (ho portato anche delle cartine geografiche), quasi la totalità di questi paesi ospitano basi americani ed inglesi. Molti di questi paesi hanno relazioni di associazione con la NATO dal Marocco all’Algeria, alla Tunisia, alla Turchia, all’ Egitto se non hanno direttamente voglio dire delle basi militari hanno la NATO. Però si parla di scontro di civiltà, ma con chi è lo scontro di civiltà?

L’avversario a mio parere non esiste: stati subalterni, stati senza sovranità, paesi occupati, economia subalterna. Chi porta lo scontro?

Un volta c’era il blocco comunista, socialista c’erano missili una ideologia differente dagli altri e realtà territoriali e geografiche ben precise. Nel mondo mussulmano non ci sono queste realtà.

Quindi i paesi senza sovranità, subalterni sul piano economico, politico e culturale e quindi paesi governati di vassalli che le loro legittimità o meglio la loro presenza e permanenza al potere, l’hanno avuta grazie al sostegno della democrazia. E’ paradossale ma è così.

Molti di questi vassalli non reggono nemmeno una settimana al potere senza l’appoggio della potenza statunitense o l’appoggio inglese o francese.

Molti di questi paesi, i loro eserciti, i loro servizi segreti, i loro aeroporti ci sono persone assolutamente non del luogo, esperti europei spesso europei.

Allora non ci sono gli ingredienti per questo scontro di civiltà.

La questione che si presenta è quindi che il mondo arabo andrebbe preso nella sua storia di trasformazione all’interno di un processo storico, concependo le trasformazioni che sono avvenute e quindi, vado alla conclusione, nei processi di modernizzazioni che non hanno prodotto, ad esempio, distruggendo le società tradizionali ed i meccanismi anche se vogliamo di partecipazione perché queste elite moderniste ed europeiste ha concepito lo stato moderno, questo contenitore, come fosse un appannaggio, un privilegio escludendo la massa popolare dal partecipazione nella costruzione nello sviluppo di queste nuove realtà statuali. Questo è il grande problema, che quindi l’elite modernista secolarizzate non è riuscito a far partecipare la massa popolare all’interno dei meccanismi di queste nuove entità statuali. Si è creata una frattura che di fatto non ha fatto altro che incrementare le ostilità da parte delle masse popolari nei confronti dell’elite moderniste. Per questo viene presentato come feroce dittatura. Questo vuole dire che si parla di Saddam come modernista. Il governante della Algeria o della Tunisia o Gheddafi, della Siria o l’Iraq di Saddam o l’Egitto è questa elite modernista secolarizzata però dittatura. E così l’esperienza di Ataturk prima, lo scia dell’Iran.

Quindi questo spesso all’osservatore occidentale finge di non sapere questo, per fare una lettura diversa.

E quindi oggi speriamo di definire, non per trovare un capro espiatorio, ma la responsabilità del venire meno di una dialettica sociale, di una dialettica politica all’interno di una società araba certamente i processi di modernizzazione di occidentalizzazione portata avanti dalle elite moderniste e che hanno goduto di appoggi esterni sicuramente questa la prima responsabilità, anche perché l’islam politico nell’arco di cento anni ha avuto poca influenza all’interno della gestione di questi stati, all’interno della società. E’ stata una realtà marginale e per la prima volta l’islam politico viene ripristinato, sapete quando? nel 1964 in Indonesia con il colpo di stato di Suharto, contro Sucarno. Nel 1964 milioni di persone sono state ammazzate quando le milizie islamiste venivano foraggiate dagli stati uniti e dalla CIA per abbattere in quel momento l’eventuale espansione del comunismo in Indonesia.

Questo è il primo utilizzo politico dell’islam.

Il secondo è stato in Afganistan. Rompe questa alleanza fra islamismo politico alleato con gli stati uniti in funzione anticomunista, l’evento di Koumeini. Koumeini rende un filone dell’islam militante lontano dall’egemonia statunitense, anzi in contrapposizione.

A quel punto si comincia a parlare di fondamentalismo islamico, di pericolo, di ritorno al Medio Evo, nel momento in cui settori dell’islamismo politico si sono orientati diversamente rispetto alla politica statunitense. Certamente non dimentichiamo poi la base di questi movimenti è sempre stata la Arabia Saudita.

Allora l’elite modernista assume oggi la totale responsabilità nel non riuscire a creare condizioni per la partecipazione e giustamente A. Samad diceva la distruzione di qualsiasi elemento vitale all’interno della società civile.

Che cosa è rimasto della società civile del mondo arabo mussulmano e del vicino oriente? Rimangono i luoghi di culto: la moschea. Le moschee rimangono gli unici luoghi dove la civiltà civile poteva proteggersi ed esercitare una certa autonomia rispetto alla volontà del despote di turno. Non a caso A. Samad diceva che arrivati gli americani la società civile in Iraq trova i primi riferimenti intorno alla moschea e dentro la moschea, perché è quello che è rimasto.

Forse anche nella situazione irakena fortunatamente sono rimaste le moschee che sono riuscite a ripristinare un controllo sociale, io parlo da sociologo ed il mio interesse è come ripristinare una coesione sociale,

Quindi le moschee hanno certamente avuto una funzione ed ha evitata un situazione più drammatica della attuale.

Quindi la distruzione della società civile lascia spazi di autonomia della società civile nella moschea e nella formazioni familiari e tribali.

In Iraq oggi c’è il ritorno alla tribù.

Allora società civile e soprattutto la società civile più dinamica nella classe media, classe media che dagli anni 6° in poi è cresciuta in termini numerici ma anche di istruzione e quindi anche nel desiderio di partecipare nelle questione sociali e politiche. Però le logiche politiche hanno impedito a questa classe di essere partecipe creando quindi una classe media di frustati dove non possono incidere, non possono partecipare e non possono far parte delle dinamiche reali.

Spataro diceva che la caduta del pensiero progressista, del pensiero di sinistra, certamente lascia un vuoto, questo vuoto viene riempito da chi può offrire un prodotto. Sul piano spirituale l’individuo ha bisogno di spiritualità, sul piano politico ha bisogno di un attore che interpreti le loro esigenze.

In questa fase mondiale e questa quindi non è una realtà solo mussulmana ci si chiede che cosa è il fondamentalismo, come lo dobbiamo chiamare o..? Io semplicemente li chiamo movimenti comunitaristi, identitari (sul piano sociologico sono questi) che caratterizzano oggi molti dei nostri paesaggi sociali e varie parti del mondo. Gli Stati Uniti oggi sono governati da movimenti comunitaristi.

In Italia un componente del governo è una componente comunitarista: la Lega.

In molti paesi dell’Europa la componente comunitarista è forte oggi e quindi voglio dire è il vento di oggi che attraversa questo mondo globalizzato quindi la rivendicazione militare è comunitarista, attraversa anche la società mussulmana le ideologie egualitarie e universalistiche sono in crisi e quindi reinventare la tradizione dei livelli identitari ed il ripristino di alcuni miti intorno alla quale creare una coesione sociale quindi la comunità.

Sono quindi movimenti comunitaristi che hanno tentato di dare risposte al disagio, alle frustrazioni manche alle problematiche reali. Ma guardate se uno legge un volantino del movimento islamista e lo confrontiamo con uno degli anni 50 e 60 fatto dai movimenti comunisti, sinceramente se non ci fosse la parola “nel nome di dio…sia fatta la volontà di Dio” le cose non si discostano molto sulla ingerenza straniera come ad esempio “per un maggiore ruolo della comunità per la difesa delle proprie risorse, per la propria indipendenza...ecc” Quindi sono queste parole chiave che possono accarezzare la sensibilità di persone che possono essere magari lontane per ideologia e cultura dai movimenti islamisti.

E non a caso, quindi, nei movimenti islamisti non è strano trovare persone che hanno militato nei movimenti marxisti-leninisti, trotskysti, maoisti o altro anzi alcuni dei movimenti islamismi più se vogliamo chiamarli dottrinali, integralisti, radicali, estremisti dove hanno avuto questa contaminazione con il pensiero radicale di sinistra degli anni 50 e 60.

Allora, finisco, quindi la questione oggi della società civile ha pochi margini di manovra in questa situazione arabo, mussulmana, del vicino oriente.

C’è il triangolo delle bermuda, l’immagine del triangolo delle Bermuda: l’ingerenza straniera, la dittatura modernista e certamente c’è la componente comunitarista islamista. Questi tre tengono in ostaggio la società civile.

Quindi non è vero che il fondamentalismo islamico oggi è il pericolo per la società, e il pericolo se fosse questo sarebbe più facile trovare un rimedio. La questione che è molto più grossa per un riformismo, per il pensiero progressista moderno, moderno vero non quello dell’elite è l’ingerenza straniera, è la dittatura moderna secolarizzata che ha governato sino ad oggi e questi movimenti comunitaristi islamisti sono in competizione per esercitare l’egemonia sulla società civile però tutti quanti impediscono alla società civile di essere partecipe. Di fatto nessuno di questi attori politici e sociali interessa avere seguito popolare

Questo è il dilemma: ognuno cerca di affermare la propria egemonia tramite l’esercizio della forza e della violenza. Quanto posso terrorizzare? Quanto posso spaventare? Quindi l’egemonia oggi è contesa tra questi attori politici e sociali con questo meccanismo.

Allora quale è la “porta”?

Ho letto con molto interesse il documento che sarà presentato da Alberti domani ed ho riscontrato cose condivisibile quale quella di come riuscire ad individuare degli interlocutori che abbiano una certa autenticità che sono impegnati sui temi dell’uguaglianza, Spataro faceva il discorso dell’eguaglianza dei cittadini, dei diritti della persona, dell’individuo, della questione della giustizia sociale, dell’ecologia e dell’ambiente e quindi questi interlocutori oggi hanno bisogno di essere sostenuti, resi visibili ed anche potenziare il loro agire in quella società.

Quindi è una alleanza di attori che oggi vivono l’ urbanizzazione individuando un linguaggio comune sui temi trasversali. Temi trasversali sono oggi: quale distribuzione del redditi a livello mondiale quindi come ridurre le asimmetrie tra centro e periferia, come impostare rapporti dialettici tra gli stati, quale salvaguardia dell’ambiente, la difesa del patrimonio di tutti.

Quindi a mio parere questi sono i temi però il pericolo che troviamo intorno a questi temi è la propaganda che lavora sul tema dello scontro della civiltà.

Giorni fa mi sono trovato in un dibattito dove si parlava dell’insediamento della Turchia nella Comunità europea e dove venivano fuori i soliti problemi avuti con la Turchia dalla battaglia di Lepanto del 1570. Questo mi ha fatto intervenire chiedendo come mai ci si ricorda della battaglia del 1570 e non quella mondiale del 1914 dove l’impero mussulmano è stato alleato dell’impero austro-ungarico di maggioranza cristiana prendendo dalla storia solamente quell’elemento che utilizziamo per affermare l’ideologia dello scontro di civiltà e si dimenticano poi i momenti di alleanze tra le parti. A questo punto l’interlocutore mi parla dei diritti umani che assediavano Vienna e come è intervenuto il re polacco dimenticando che il re polacco, il suo esercito era forte soprattutto con i reparti dei cavalieri mussulmani.

Gli intellettuali trovano questi elementi per sostenere con linearità che lo scontro di civiltà è sempre esistito, mentre la storia è assolutamente diversa.

Il discorso di cui oggi la società civile araba che si trova all’interno del triangolo delle bermuda ha bisogno di essere resa visibile e sostenuta da parte di quella soggettività presente all’interno del “centro” e quindi movimenti come Un ponte per…, l’ARCI Emergency, Amnesty, ecc che hanno un certo ruolo nelle realtà culturali e politiche.

Ultima cosa, volevo chiedere scusa all’on.le Spataro perché l’ho interrotto quando ha parlato del Presidente ma solo per precisare perché vivo in occidente da molti anni ed ho potuto osservare che spesso l’occidentale ha un immaginario di sé che non corrisponde alla realtà, con affermazioni del tipo “noi abbiamo lavorato per i diritti umani” dimentico che qui la realtà dove hanno lavorato ci sono state le teorie razziste, si dimentica che qui ci sono stati campi di concentramento, le forme totalitarie, il colonialismo. Oggi i paesi che producono l’85% delle armi e degli strumenti di violenza sono in occidente. Voglio dire che qui che per la ricostruzione è necessario rapportarsi agli altri. Oggi si da’ per scontato che noi siamo qualcosa che non siamo.

Quindi leggere la propria identità per cui in una fase comunitarista oggi è importante andare a coniugare al plurale la propria identità.

Ad esempio, chi di noi mette in discussione la civiltà e la democrazia in Norvegia? Qualcuno ha il coraggio di dire che la Norvegia non è un paese democratico? Però in Norvegia per legge il re deve essere Luterano, la metà dei ministri devono essere luterani, l’insegnamento della religione nella scuola è il luterano e tutti lo devono fare anche chi non lo è. Voglio dire però che la Norvegia

Voglio dire ce vanno trovati dei meccanismi che permettono alle persone di essere effettivamente uguali. E la questione della uguaglianza non è una questione che interessa il mondo mussulmano. Lo siamo qua uguali? Siamo sicuri che abbiamo le stesse capacità di negoziazione con il sistema politico, dimentichiamo la nostra classe sociale, le nostre collocazioni, i poteri che ci rappresentano?

La questione oggi è nel dialogare con la gente araba, mussulmana, del vicino oriente o di quello che si vuole. E’ importante partire dall’idea che i temi dell’uguaglianza, della discriminazione delle donne, della costruzione della pace, della distruzione della violenza, non sono stati risolti da nessuna parte.

Oggi è necessario trovare un linguaggio per affrontare questa sfida, io vi ringrazio.

Scontro di civiltà? Intervista a Giovanni Carpinelli

Giovanni Carpinelli, ricercatore universitario, è docente di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Torino.

Professor Carpinelli, nei suoi studi lei si è occupato di Samuel P. Huntington, politologo che ha sostenuto la tesi dello scontro di civiltà. Vorremmo sapere da lei che cosa si intende per scontro di civiltà, e quale è il ruolo che in esso la religione ricopre.
Vorrei innanzitutto tracciare un quadro della situazione nella quale Huntington elabora la sua teoria sullo scontro di civiltà, ragionando sul modo in cui si sono venute manifestando fuori dell’Occidente due grandi tendenze: la modernizzazione e la secolarizzazione. Nessuna delle due ha proceduto a senso unico, entrambe hanno comportato, a volte, delle battute d’arresto e dei passi indietro. Osservando il mondo di oggi, notiamo che le Chiese non hanno certo il ruolo di un tempo, ma all’inizio degli anni’80 alcuni fatti, come l’arrivo di Giovanni Paolo II in Vaticano e Khomeini in Iran, hanno giustamente portato a parlare di un risveglio del sacro; in questo quadro si colloca anche il preteso ritorno alla tradizione, ossia quel fenomeno che va sotto il nome di fondamentalismo. Etichetta abusiva: come è noto, il fondamentalismo nasce in ambito protestante nell’Ottocento, come ritorno alle origini, e quando un fenomeno simile è comparso nel mondo islamico viene designato con quella stessa etichetta. Quindi, il fenomeno genericamente inteso non è una specialità orientale; inoltre, il ritorno alla tradizione è un’operazione discutibile, o in ogni caso niente affatto neutra: con la scusa del ritorno alle origini viene in realtà diffusa una versione particolarmente orientata e stravolta del messaggio originario. Ciò che viene presentato come il ‘vero islamismo’ o il ‘vero Islam’, è in realtà un Islam speciale, costruito in tempi recenti, un Islam che non sempre ha a che vedere con quello originario.
Ai testi non si può far dire qualsiasi cosa, c’è un limite al gioco delle interpretazioni, ma il fondamentalismo dà per evidenti letture assai forzate della tradizione. Certo nell’Islam delle origini vi sono aspetti che possiamo percepire come anti-moderni, ma questa idea dell’Islam come un’enorme macchina pronta a scagliarsi contro la modernità è un’invenzione di quelli che noi chiamiamo fondamentalisti.
Nel medesimo contesto storico, che comincia a prendere forma a metà degli anni Settanta, oltre al risveglio del sacro, troviamo anche il fallimento della modernizzazione. Nel mondo islamico c’è stata una tendenza laica molto forte associata anche ai nazionalismi di matrice militare – penso a Nasser, Gheddafi e altri, o anche allo stesso partito Baath in Iraq e in Siria – che avevano promosso qualcosa che poteva essere visto anche come un tentativo di procedere verso una maggiore laicità, in termini islamici. Da noi la modernizzazione è associata troppo spesso all’immagine di un cambiamento positivo. In realtà essa non è né positiva né negativa in sé. E’ come il mondo nel pensiero di C.G. Jung: è neutra. Huntington sembra partire da una visione positiva della modernizzazione; un sociologo come Bauman non sarebbe d’accordo: si veda per questo ciò che scrive in Modernità e Olocausto. Ora la modernità positiva come dato ovvio si diffonde fuori dell’Occidente, ma solo in quanto portatrice di progresso tecnologico, non in quanto fenomeno associato al pluralismo, o alla cultura dei diritti. Da qui la delusione di Huntington, che nota l’occidentalizzazione del mondo ma la veda slegata dal suo corredo di valori. La modernizzazione tedesca è passata anche attraverso il nazismo, farebbe osservare qualcuno come Bauman. Gli stessi occidentali si sono rivelati non tanto tempo fa refrattari alla modernizzazione positiva. Anche in questo non abbiamo a che fare con una particolarità orientale (o delle culture orientali). Ora il discorso occidentale assume l’aspetto dell’universalismo umanitario (come lo chiama Latouche). Quanto poi le politiche attuate corrispondano alle intenzioni rimane da vedere. La disinvoltura con la quale vengono valutati i danni alle popolazioni civili nelle operazioni di guerra in Oriente è l’altra faccia dell’universalismo umanitario. E dire che non molto tempo fa in Occidente era comparso un personaggio come Hitler, senza dubbio un prodotto della civiltà occidentale, al pari del dottor Schweitzer o di madre Teresa di Calcutta. Hitler per parte sua non era né universalista né umanitario: è un esempio illustre di come la barbarie si possa sviluppare dentro la modernità e con i suoi stessi strumenti.
C’è invece nel pensiero di Huntington la volontà di attribuire all’Occidente i valori positivi e il sincero proposito di vedere se altri li hanno assimilati. Ma quanto l’Occidente è stato fedele a se stesso (a quella immagine di se stesso) in passato? e quanto lo è ancora oggi? Per il passato non c’è solo Hitler. Un testo importante come Le origini del totalitarismo si apre con una lungo riesame dell’imperialismo, che l’autrice Hannah Arendt non associa al nazismo, ma alle politiche delle potenze occidentali, Francia e Gran Bretagna comprese.

Come vede più esattamente Huntington il rapporto tra l’Occidente e le altre culture?
Nel testo sullo scontro delle civiltà, l’esempio occidentale appare come un apporto luminoso e benefico, che viene accolto sul piano della tecnologia, ma suscita rifiuto e rigetto dal punto di vista culturale.
Non si fanno i conti in tal modo con l’eredità coloniale, per non parlare delle violenze ancora perpetrate in epoca successiva. Detto questo, a me non sembra neppure giusto risolvere la questione con una specie di sviamento polemico: l’Occidente ha i suoi torti, quindi nessuno è autorizzato a parlare in nome dei valori più alti di libertà o di giustizia. Aveva ragione a mio parere Pascal Bruckner quando mostrava come in Occidente molti avessero assunto un atteggiamento di dubbio e di pentimento verso le colpe del passato e da questo avessero fatto derivare un’assenza di senso critico nel valutare ciò che avveniva nel Terzo Mondo. Tutto il male sembrava venire dalle conseguenze dell’oppressione esterna, mentre dai popoli indigeni ci si aspettava solo il meglio.
Senza arrivare a questi eccessi di squilibrio nel giudizio deve essere possibile valutare ciò che accade in modo più sereno: non ci sono detentori preventivi della ragione e del torto, portatori assoluti della modernità buona e naturali nemici dell’innovazione proveniente dall’esterno. Su questa base l’intreccio delle influenze diventa difficile da concepire. Ora quell’intreccio rappresenta forse il maggiore elemento di speranza in un futuro di progresso. I ruoli non sono stabiliti una volta per tutte, non andiamo per forza verso una specie di meticciato universale, ma le culture si arricchiscono, pur nella fedeltà a motivi originari di ispirazione, attraverso l’apertura a apporti esterni. Era questo il motivo essenziale della critica aspra rivolta dallo studioso palestinese Edward Said all’opera di Huntington (“lo scontro dell’ignoranza”, The Clash of ignorance, si intitolava la recensione di Said al saggio di Huntington). Non stupisce, date queste premesse, che Huntington sia contrario al multiculturalismo e ritenga che gli Stati Uniti debbano essere una specie di roccaforte culturale dell’Occidente. Per lui la contaminazione delle culture è negativa, è associata all’idea di un indebolimento. La storia offre invece esempi di segno contrario; pensiamo a Greci e Romani: “Graecia capta ferum victorem cepit”, la Grecia conquistata ha conquistato a sua volta il feroce vincitore: è già successo che un Paese perdente sul piano militare esportasse la sua cultura nel Paese vincitore, con reciproco vantaggio. Un altro esempio di commistione è quello del Sudafrica, un Paese nel quale la presenza bianca dopo aver agito come un fattore di sviluppo e non solo di oppressione ha saputo e dovuto fare un passo indietro, che non è stato sfruttato dalla successiva amministrazione nera per fare tabula rasa del passato; c’è qualcosa come una eredità comune, e su questa base oggi esiste una possibilità di riuscita ulteriore e più alta in termini di civiltà per tutto il paese. Quando il tentativo di esportazione di idee e istituzioni riesce bene, non è mai una esportazione integrale ma si tratta piuttosto di un mix fra la cultura sopraggiunta e quella esistente prima.
Se poi vogliamo tornare alla sequenza degli eventi che precedono l’apparizione del testo sullo scontro delle civiltà, qualcosa rimane da aggiungere. Qualcosa di importante. Dopo la crisi della modernizzazione, dopo il risveglio del sacro e lo sviluppo dei “fondamentalismi” in Oriente, si arriva al crollo del comunismo. Sarà ancora Huntington, con la sua bravura nell’inventare formule efficaci e fortunate, a descrivere gli Stati Uniti come superpotenza solitaria: ‘the lonely superpower’.
Visto in questa luce, Lo scontro delle civiltà era una risposta evolutiva ed interessante ad un’idea ancora peggiore: dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la prima importante risposta statunitense di tipo teorico è quella di Francis Fukuyama, un seguace di Hegel, che nell’89 scrive l’articolo “Fine della storia?” nel quale mostra di vedere nel crollo dell’Unione Sovietica la possibile fine dello sviluppo storico e quindi dei conflitti. Nel 1992 pubblica poi un saggio dal titolo “La fine della storia e l’ultimo uomo”: la posizione assunta è più decisa, il punto interrogativo viene lasciato cadere e la domanda diventa un’affermazione. In terza battuta, Fukuyama ha ridimensionato il suo pensiero, spostando più in là nel tempo la previsione del trionfo della modernità. Anche Huntington passa dal punto interrogativo all’affermazione decisa: prima, nel 1993, pubblica sulla rivista “Foreign Affairs” l’articolo “Scontro di civiltà?”, che nel 1996 diventerà il libro “Scontro di civiltà. Il mondo a otto dimensioni”.
Il ragionamento di Fukuyama è debole perché vuole essere unitario a tutti i costi. I francesi, per esempio, si rifiutano di parlare di ‘globalizzazione’, parlano piuttosto di ‘mondializzazione’, un’idea che al suo interno contempla una varietà di modelli; il globale è unitario, mentre il mondiale può essere plurale. Perciò Huntington mostra di avere una visione più realistica, o meno arrogante, quando individua otto grandi aree di civiltà.

Quali sono le basi?
Qui c’entra la religione. Sebbene Huntington parli di ‘divisioni culturali’, queste hanno spesso un fondamento religioso. Ci sono però alcune stranezze, per esempio l’individuazione di un’area ortodossa: a me non pare che tra ortodossia e cattolicesimo ci siano differenze così profonde; l’area ortodossa a mio parere è l’area ex-sovietica, cioè la divisione sembra avere più un fondamento geopolitico che non religioso. Dobbiamo considerare che Huntington è più vecchio di altri autori che sono intervenuti sul tema dei conflitti mondiali e ritengo che sia rimasto a lungo influenzato dagli schemi della Guerra Fredda. In un certo senso, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, cerca il nuovo nemico e lo trova nell’Islam. Infatti, nonostante egli faccia un discorso molto vario e articolato parlando delle otto aree di civiltà e arrivi a suggerire delle alleanze, alla fine chi si viene a trovare dall’altra parte è sempre l’Islam. Che poi questo abbia la compattezza del blocco sovietico, che sia tutto raccolto attorno ad un unico Stato, o che abbia veramente uno Stato-guida, è molto discutibile. Un altro errore che Huntington commette riguarda le frontiere tra le civiltà, le linee di faglia. Sostiene che è lungo di esse che si svilupperebbero i conflitti, un po’ come nella deriva dei continenti per capirci. Il problema è che non è affatto evidente che i conflitti si siano sviluppati lungo queste linee. Per esempio, dov’è la linea di faglia in Iraq? È un Paese tutto dentro l’Islam, non un Paese di confine rispetto ad altre culture.
Il saggio di Huntington ha comunque scatenato diverse repliche fra le quali vorrei ricordare quella di Emmanuel Todd e Youssef Courbage, uno storico e un demografo, che in Le rendez-vous des civilisations sostengono che prendendo come indici il tasso di fecondità, il tasso di alfabetizzazione e la pratica delle religioni, Paesi come Tunisia, Turchia e Iran risultano essere molto più vicini all’Occidente che all’Islam...

Sono dati interessanti, che però non vengono percepiti in questo modo dal pubblico.
Purtroppo è vero, tutti abbiamo la tendenza a migliorare la nostra immagine per cui noi siamo il bene, lo sviluppo e il progresso e invece dall’altra parte si trova l’arretratezza.
L’altra risposta che vorrei porre in evidenza è quella di Benjamin Barber, un pensatore statunitense, che a un certo punto richiama il modello del Far West: così come nel Far West col tempo e coi giusti mezzi si è diffusa la legalità, così nel Terzo Mondo, nonostante le resistenze, si potrà diffondere la cultura occidentale. In questo caso i mezzi sono rappresentati dal dialogo e dalla capacità di inclusione. Come è ovvio a questo punto, Barber è favorevole al multiculturalismo; in Huntington la posizione contraria ha qualcosa di paradossale: si parla di otto culture a livello mondiale, ma gli Stati Uniti devono mantenere la loro compattezza a tutti i costi nonché preservare il modello occidentale per gli altri e per sé, cioè quel modello deve restare intatto.

C’è una prospettiva più lontana per il pensiero di Huntington sui rapporti tra le diverse culture?
Non tutto si riduce allo scontro intanto. Huntington vede anche la necessità di alleanze con le culture vicine e ritiene che le civiltà più occidentalizzate dovrebbero arginare le diversità più spinte. Se poi ci dovesse essere un confronto finale, sarebbe fra Occidente-occidentalizzati e Islam-islamizzati.
Huntington è convinto della superiorità della cultura occidentale?
No, non arriva a esprimersi in questi termini. Le conquiste della civiltà occidentale sono un bene prezioso da preservare allo stato puro, questo sì. Anche altri hanno sottolineato non con le sue stesse intenzioni il dato della forza occidentale superiore. Latouche prima di Huntigton scrive “L’occidentalizzazione del mondo”, dove sostiene che l’Occidente ha vinto esportando la sua mentalità, legata dal punto di vista antropologico al naturalismo e all’individualismo e dal punto di vista sociale all’utilitarismo e alla dominazione della natura; per Latouche, coloro che la pensano così sono in un certo senso ipocriti perché si presentano come degli universalisti umanitari quando invece parlano di soppressione delle culture locali. Anche Latouche vede un punto di resistenza all’occidentalizzazione che però è di tipo economico –anche se non in senso stretto – e non religioso. Egli è legato alla tradizione sociologica francese del MAUSS, il Movimento Anti Utilitarista delle Scienze Sociali, che riprende anche il nome di Marcel Mauss, teorico del dono in opposizione allo scambio. Secondo il MAUSS il dono non è mai venuto meno e ciò che salverà il Sud del mondo è appunto il richiamo a valori anti-utilitari, per esempio attraverso l’economia informale e il lavoro non produttivo.
Questo per dire che ci sono vari modi di ragionare sull’Altro, Huntington lo vede più che altro come una minaccia mentre per il MAUSS l’Altro è ‘l’antropologicamente nuovo’, un soggetto capace di promuovere valori non coerenti col modello occidentale; ognuno insiste con ideologica pervicacia su ciò che porta acqua al proprio mulino ma dobbiamo tenere presente che la diversità delle teorie riflette anche la diversità delle tendenze in atto.

Per concludere il nostro incontro, vorremmo chiederle di parlarci della situazione israelo-palestinese – di cui lei si è occupato insieme a Claudio Vercelli nel libro “Israele e Palestina: una terra per due”, se possibile partendo da quanto detto prima.
Come abbiamo detto, in Huntington l’Islam è il nuovo nemico, quello destinato a resistere con più tenacia all’influenza occidentale. Questa figura del nemico principale ha un equivalente nel contesto israelo-palestinese ed è Hamas. C’è, tra l’altro, un collegamento possibile fra Hamas e l’Iran, un altro Paese malvisto dall’Occidente, un paese il cui governo non vuole ammettere l’esistenza storica dell’Olocausto.
E tuttavia occorre avere il coraggio di guardare a Hamas senza lasciarsi influenzare dagli stereotipi negativi. La dirigenza palestinese che ha preceduto Hamas, cioè Al Fatah e l’OLP, è annegata nella corruzione, un fatto che viene ammesso anche dai filo-palestinesi. Arafat per primo ha commesso questo grave errore e perfino un personaggio come Edward Said, suo sostenitore convinto, se ne stacca e lo critica duramente. Secondo Said, Mustafa Barghouti avrebbe potuto prendere il posto di Arafat senza perpetuarne la corruzione. La critica ad Arafat e all’OLP comunque è stata più forte e più efficace quando promossa da Hamas perché è stata accompagnata – e qui usciamo dal territorio religioso – da una forte assistenza alla popolazione, laddove lo Stato non è riuscito a provvedere ai bisogni dei cittadini, mentre questo tipo di organizzazioni sì: è chiaro che su questa base si crea un largo consenso popolare, sebbene tutto sia condito con posizioni fondamentaliste. Queste però non sono così monolitiche come vengono fatte apparire dagli avversari, tant’è che una corrente di Hamas è disposta al dialogo con gli Israeliani ma si vede di fronte un rifiuto di principio e quindi assume posizioni dure, un po’ come fece la Cina ai tempi dell’esclusione dall’ONU. Io credo che i Palestinesi abbiano un problema di fierezza. L’altro annoso problema è quello di Gerusalemme: quando Ehud Barak ha offerto ai Palestinesi il 21% del territorio e non il 22% che gli sarebbe spettato, questi non hanno rifiutato per l’1% di per sé ma perché questo corrispondeva alla città di Gerusalemme, carica di potere simbolico e per secoli un luogo arabo-islamico. Io non credo che la città vada internazionalizzata come vorrebbe qualcuno, basterebbe dividerla equamente: oggi ci sono alcuni quartieri arabi nella città ma gli Israeliani non vogliono concederli agli Arabi; pretendono che la capitale palestinese sia un sobborgo della città. Una legge israeliana dice che Gerusalemme è la capitale eterna dello Stato israeliano. Israele è uno Stato religioso: furono gli stessi laburisti a volere questo, per rafforzare l’identità nazionale. I rapporti fra Israeliani e Palestinesi esistono, anche se sono molto difficili. Una proposta alternativa alla internazionalizzazione della città è quella di uno Stato unico: questa soluzione però è svantaggiosa per Israele perché demograficamente i Palestinesi crescono più in fretta. Inoltre, tutte le soluzioni proposte per la creazione di uno Stato palestinese sono riduttive per la popolazione, poiché prevedono uno Stato senza sovranità, e partono da una noncuranza radicata nei confronti dell’essere palestinese, la noncuranza riflessa nel vecchio slogan: “Un popolo senza Terra [gli ebrei] per una Terra senza popolo [la Palestina]”.

Quindi c’è una radicalizzazione del sentimento nazionale?
Sì, una radicalizzazione ma anche un’estensione perché agli inizi del secolo pochi si consideravano ‘Palestinesi’, mentre gli ebrei immigrati erano più consapevoli e avevano un progetto preciso. Nel confronto con il nazionalismo israeliano si è rafforzato il nazionalismo palestinese.

Quindi tornando al nostro discorso: è solo una questione islamica o c’è anche dell’altro?
Come spesso accade, la riscoperta di un fattore o la sua rivalutazione portano a superare la misura. Tutto sembra dipendere da quello. Certo il problema non si risolve neppure sostituendo al fattore unico una molteplicità indistinta di fattori tutti considerati di pari importanza. In una singola situazione un certo ordine di fenomeni – l’economia, o la religione, o la politica intesa come lotta per il potere, perché no, o la cultura - può avere un’importanza che in altre situazioni pure analoghe non ha. In Palestina, per esempio, la religione conta, naturalmente, ma meno che in altre aree del mondo arabo. Non arrivo però a vedere in essa il dato centrale. Lo scontro è pur sempre tra arabi palestinesi e ebrei, non tra islamici e fedeli della religione giudaica. Quanto all’economia non ha sempre svolto in quel caso un ruolo decisivo come fattore di conflitto. Negli anni ’70 c’era un’economia prospera in Palestina, ma non per questo l’antagonismo nei confronti di Israele era meno aspro. Forse ha contato di più allora la cultura intesa come consapevolezza più chiara, accresciuta di una appartenenza. Non dimentichiamo che, fra gli arabi in genere, i palestinesi sono diventati con il tempo uno dei popoli più evoluti, sono sorte ben sette università su un territorio assai esiguo, senza contare gli aiuti dell’Onu ai rifugiati per l’istruzione in anni più lontani. Anche la lotta per il potere ha avuto il suo peso. E’ stata vista dal Fatah come una via privilegiata per l’accesso a risorse pubbliche da utilizzare anche a fini privati. Diversa è stata invece l’immagine di Hamas, che si è imposta come un’organizzazione capace di intervenire con efficacia per alleviare il disagio della popolazione. Tutto questo non è direttamente collegato alla religione, direi.


Riferimenti bibliografici
Bauman Z., 1992, Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna (Modernity and the holocaust, Blackwell Publishers, 1991).
Arendt H., 1967, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano (The origins of totalitarianism, Schocken Books, 1951).
Fukuyama F., 1989, The end of history?, The National Interest.
Id., 1996, La fine della storia e l’ultimo uomo, BUR, Milano (The end of history and the last man, Free Press, New York, 1992).
Huntington S. P., 1993, The clash of civilizations?, Foreign Affairs.
Id., 2000, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti Libri (The clash of civilizations and the remaking of world order, Simon & Schuster, New York, 1996).
Latouche S., 1992, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino (L’occidentalisation du monde à l’heure de la Globalisation, La découverte Poche, 2005)
Said E., 2001, The clash of ignorance, The Nation.
Todd E. e Courbage Y., 2009, L’incontro delle civiltà, Tropea (Le rendez-vous des civilisations, Seuil, 2007).

domenica 20 giugno 2010

Caso intercettazioni causa disordine civile.


Ci siamo e ci saremo. Libera Informazione è in prima linea nella battaglia in corso per far ritirare il disegno di legge sulle intercettazioni. E’ chiaro fin d’ora che, se la norma verrà approvata al termine dei percorsi fra le due Camere, senza che ne sia annullato totalmente il contenuto anticostituzionale e liberticida, riterremo obbligata la scelta del disordine civile. Con il nostro impegno quotidiano, con gli stessi valori che ci hanno fatto nascere, quelli di una “informazione che è libera o non è”, siamo infatti ogni giorno parte attiva dello schieramento che combatte l’illegalità e la disuguaglianza di fronte alla legge. Una battaglia che vede finalmente schierati, al fianco dell’opposizione in Parlamento e dei nuovi dissensi sollevati da Fini all’interno della maggioranza, i giornali di ogni tendenza, come dimostra l’assemblea unitaria dei direttori della stampa italiana, i magistrati, i sindacati, le rappresentanze delle forze di polizia, gli editori, gli scrittori e gli artisti già colpiti pesantemente dalla dissennata politica culturale del governo, le associazioni del volontariato, numerose amministrazioni pubbliche. Fino ad arrivare a quella ostilità espressa a livello europeo e clamorosamente dall’amministrazione degli Stati Uniti, memore degli insegnamenti di Giovanni Falcone e del peso che l’efficace uso giudiziario delle intercettazioni da parte dei magistrati italiani ha nella lotta internazionale al crimine organizzato e al terrorismo.
Una grande manifestazione nazionale che unisca in piazza tutte queste forze sociali, culturali e politiche, è a questo punto davvero urgente.

L’obiettivo di fondo resta quello di far comprendere a quella larga parte degli italiani che hanno nelle televisioni dominate dal premier l’unica fonte d’informazione, come insegnano i notiziari ammaestrati e subalterni al potere del TG 1 di Minzolini, che respingere il disegno governativo non è solo difendere il diritto-dovere dei giornalisti sancito dalla Costituzione, ma soprattutto tutelare il diritto dei cittadini a conoscere la realtà in cui vivono, le illegalità dei ceti dirigenti, la corruzione dilagante, l’estensione dei crimini organizzati e comuni che minano la sicurezza di tutti. Un silenzio tombale, al di là dei gravissimi danni giudiziari, minerebbe le fondamenta della democrazia, impedendo agli italiani di giudicare i propri rappresentanti sotto il profilo morale e civile ancor prima che direttamente politico. L’anticamera dunque di una dittatura, che peraltro proprio nella soppressione della libertà di stampa ha avuto la base essenziale nella tragica storia del fascismo, come l’ha ancora ad altre latitudini. Se questo vale a ogni livello, ancor più ne sentiamo il dovere morale e civile a partire dalla memoria di chi ha perso la vita per difendere lo Stato contro la violenza e la prevaricazione delle mafie e il sistema di corruzione e contiguità di cui si sono avvalse e si avvalgono.

Le centinaia di famiglie delle vittime che attendono ancora giustizia e verità per coloro, uomini e donne, caduti per mano mafiosa e interessi quasi sempre rimasti oscuri, come potrebbero avere ancora fiducia in uno Stato che, invece di onorare questo immenso debito morale, indebolisse per legge l’azione dei pubblici ministeri, le tante inchieste ancora aperte o possibili e insieme calasse per anni la scure del silenzio sulla stampa e i libri che attraverso le cronache e le analisi giudiziarie rappresentano l’unica possibilità di mantenere viva una memoria collettiva? Che speranze potrebbe avere per il futuro il padre dell’agente Agostino, massacrato con la moglie perché a Palermo dava la caccia ai latitanti di Cosa Nostra e, almeno secondo le recenti rivelazioni sul fallito attentato dell’Addaura, per avere salvato in quell’occasione la vita a Giovanni Falcone? Il padre attende da 21 anni la verità su chi gli uccise il figlio, a partire da quegli agenti segreti, traditori dello Stato, che ebbero un ruolo nella vicenda e la sua barba, che promise di non tagliare fino al raggiungimento della verità, è diventata lunga e bianca…Solo un esempio, ma che ci porta nel cuore del gravissimo intreccio di questa nuova legge con inchieste che cercano di fare luce, da Palermo a Caltanissetta, da Firenze a Milano, sulle stragi non solo mafiose, ma anche di “parti dello Stato” come è ormai certo, che insanguinarono la Sicilia e l’Italia fra il ’92 e il ’94, per poi cessare quando il panorama del Paese cambiò e un nuovo soggetto politico, Forza Italia (è ipocrita nascondersi dietro giri di parole) secondo le clamorose affermazioni di numerosi pentiti e testimoni di giustizia, trattò con la mafia per prendere il posto di antichi referenti. Uomini dei servizi, cioè dello Stato, avrebbero avuto ruoli centrali, anche se tuttora oscuri, in molti dei delitti “alti” compiuti da Cosa Nostra, passando per le stragi di Capaci e Via D’Amelio, proseguendo nelle trattative con i capi corleonesi, prima Riina, poi Provenzano, intersecando i sanguinosi attentati ai beni artistici a Firenze, Milano, Roma.

Le nuove testimonianze del pentito Spatuzza e di Massimo Ciancimino, ritenuti a diverso titolo attendibili dalle Procure coinvolte, vanno decisamente in questa direzione. Negli ultimi giorni si sono succedute allarmate dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Grasso, di Walter Veltroni, di Carlo Azeglio Ciampi, mentre il Copasir presieduto da Massimo D’Alema ha aperto indagini per individuare gli agenti segreti “felloni”, sentendo i vertici dei servizi e il procuratore di Caltanissetta Lari. Il PDL, ovviamente, ha parlato di dietrologia “ideologica” a scopo propagandistico e ci si è chiesto, anche in settori di sinistra molto aggressivi nei confronti di Berlusconi e della sua politica, come il quotidiano “Il Fatto”, che valore possano avere testimonianze dal significato incerto, dopo anni e anni di silenzio della politica e di mancata verifica di denunce di queste complicità inutilmente emerse da magistrati inquirenti e addirittura in sentenze, oltrechè da numerose testimonianze di pentiti. Una posizione che certo va rispettata, ma che non condividiamo, per i ruoli istituzionali e le personalità di coloro che si sono così esposti pubblicamente, perché queste dichiarazioni non indeboliscono, ma avallano sia pure a posteriori le inquietanti ipotesi di trame “di Stato” emerse appunto con una certa sistematicità in sede giudiziaria e anche in numerose ricostruzioni giornalistiche e di documentati libri d’inchiesta. Che Ciampi racconti dettagliatamente la sua paura di un tentativo di golpe nel ’92, quando in concomitanza con l’attentato al Velabro a Roma si interruppero senza spiegazioni di alcun tipo tutte le comunicazioni con Palazzo Chigi, è un fatto e non una illazione…”Senza verità non c’è democrazia”, ha concluso Ciampi chiedendo che il parlamento si faccia carico di questo compito. Operazione davvero difficile di questi tempi, con la durissima battaglia aperta sulla Giustizia e l’informazione, ma ci associamo con convinzione.

Basilea 3.

La crisi finanziaria esplosa nell’estate del 2007 negli Stati Uniti e che ha investito il sistema bancario europeo nell'autunno del 2008 ha dimostrato in modo evidente la necessità di un rafforzamento delle difese da parte degli istituti di credito, al fine di evitare il ripetersi di situazioni drammatiche come quelle vissute negli ultimi due anni e che hanno portato alla peggiore recessione dell’economia mondiale dal dopoguerra ad oggi.

In questa direzione sono orientate le proposte elaborate dal Comitato di Basilea e dalla Commissione Europea, che hanno come obiettivo quello di accrescere la consistenza del patrimonio delle banche e di migliorarne la qualità.

Tuttavia, se da un lato sono attese e auspicabili modifiche legislative che possano in futuro evitare il ripetersi di fenomeni degenerativi che hanno poi determinato la crisi dei mercati finanziari, dall’altro risulta di fondamentale importanza comprendere bene chi possono essere i destinatari di tali riforme e gli effetti sull’economia reale.

Proprio su questi ultimi due punti controversi negli ultimi mesi si è sviluppato il dibattito alla luce delle proposte circolanti in materia di direttiva sui requisiti patrimoniali (CRD) e dell’entrata in vigore, probabilmente, dal 2013 delle nuove regole fissate da Basilea 3.

Infatti, le indicazioni fornite dal Comitato di Basilea sono orientate verso una più accurata e restrittiva definizione del capitale proprio, che, nelle intenzioni, dovrebbe tenere conto della presenza di titoli rappresentativi con diritti amministrativi diversi da quelli dell’azione ordinaria e che dovrebbe estendere alle partecipazioni bancarie e verso altri intermediari finanziari le voci in bilancio da escludere per il calcolo del patrimonio di vigilanza.

Per soddisfare tali requisiti le banche italiane dovranno, quindi, necessariamente raddoppiare i loro sforzi per accrescere il proprio livello di patrimonializzazione. Un processo, questo che, come sottolineato dal Direttore generale della Banca d’Italia Saccomanni e dal Ministro dell’Economia Tremonti porterà, inevitabilmente, alla nascita e diffusione di fenomeni di credit crunch.

Queste preoccupazioni sono state oggetto di discussione nel corso della IV Convention sulle Banche Cooperative Europee, svolta a Bruxelles, presso la sede del Parlamento Europeo, lo scorso aprile e presieduta dall’onorevole Gianni Pittella, Primo Vice presidente del Parlamento Europeo e membro del Comitato Affari Economici e Monetari. Dalla Convention è emerso come le misure proposte dal G20, dal Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria dovrebbero essere mirate a ridurre gli effetti prociclici, evitando quindi un accesso al credito troppo disinvolto nelle fasi economiche espansive e, al contrario, troppo restrittivo nelle fasi recessive. In linea con tale orientamento, la Commissione Europea si è impegnata a presentare al Consiglio e al Parlamento Europeo eventuali misure per ridurre la prociclicità ipotizzando una quarta revisione della direttiva sui requisiti patrimoniali (CRD4) che dovrebbe includere, tra l’altro, la questione dell’accantonamento dinamico.

Se tali modifiche saranno sufficienti ad evitare ripercussioni negative sull’economia reale e la nascita di fenomeni di credit crunch resta, comunque, aperta la questione su quali soggetti finanziari dovranno essere sottoposti alla nuova disciplina regolamentare.

Infatti, se l’obiettivo è quello di stabilizzare il sistema creditizio, sarebbe opportuno distinguere tra le diverse realtà bancarie presenti in Europa quelle che più si sono adoperate per sostenere anche nei momenti più difficili le famiglie e le PMI e che hanno continuato a mantenere immutato il proprio ruolo e il proprio modo di essere e fare banca indipendentemente dalle fasi del ciclo economico, come nel caso della Cooperazione Bancaria e che, al contrario potrebbero essere maggiormente colpite dall’introduzione di ulteriori provvedimenti restrittivi per la definizione dei requisiti patrimoniali.

È necessario, in definitiva, che le autorità preposte alla supervisione bancaria siano consapevoli che le banche sono corpi sostanzialmente diversi tra loro, a seconda che si rivolgano nella loro attività quotidiana alle piccole imprese, o alle grandi imprese se non addirittura, come nel caso delle grandi banche d’affari statunitensi, esclusivamente ai mercati finanziari.

Il pluralismo nell'attività bancaria e la diversità dei prestatori di servizi sono condizioni indispensabili per la concorrenza in tutto il mercato bancario, come nel caso della Cooperazione Bancaria che offre un contributo sostanziale al finanziamento dell'economia a livello locale, e proprio per questo motivo tali differenze devono essere tenute in debita considerazione in qualunque proposta di revisione e modifica regolamentare se si vuole mantenere questo patrimonio di conoscenze e di specificità.

* Segretario Generale Associazione Nazionale fra le Banche Popolari

mercoledì 16 giugno 2010

L'Ue, misure per salvare l'euro

L'Ue decide nel momento più difficile della sua moneta. I 16 leader dell'Eurozona - riuniti in un vertice straordinario a Bruxelles per far fronte alla crisi che ha colpito la Grecia e sta mettendo a rischio l'euro - hanno approvato gli aiuti a favore del governo di Atene, cioè 110 miliardi di euro in tre anni, di cui 80 a carico dei paesi dell'Eurozona e 30 a carico del Fmi. Si sono poi detti d'accordo sul rafforzamento delle regole di governo dei bilanci pubblici e, nel corso della riunione (terminata in nottata) hanno raggiunto un'intesa sulla definizione di un piano per il salvataggio di altri Paesi che, dopo la Grecia, si trovassero nella necessità di ricevere un sostegno finanziario d'emergenza.

La Ue - è questo il senso del vertice - è pronta a utilizzare tutta la gamma di mezzi disponibili per garantire la stabilita' dell'euro; la priorità è il consolidamento delle finanze pubbliche e, a questo scopo, ciascuno Stato è pronto ad adottare le misure necessarie per velocizzare il consolidamento e garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche. Così l'Europa ha di fatto raccolto l'appello formulato dal presidente Barack Obama e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, secondo i quali serve una "forte" risposta politica e finanziaria.

Il monito di Trichet. Al vertice il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, aveva subito messo in guardia i leader: "Attenzione, siamo di fronte ad una crisi sistemica". Trichet era intervenuto dopo il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Durao Barroso e il presidente francese Nicolas Sarkozy, entrambi espresso insoddisfazione per il testo di dichiarazione in discussione al Vertice. Secondo Barroso e Sarkozy, si era dinanzi a un messaggio "troppo debole" privo di "segnali abbastanza forti per un'azione rapida, così come richiesto dalla situazione". Barroso e Sarkozy avevano chiesto ai partner "un linguaggio più forte" e "impegni più fermi". Lo stesso presidente francese ha sottolineato, a lavori conclusi, che ''la zona euro attraversa oggi senza dubbio la crisi più grave dalla sua creazione. Il nostro dovere è fare di tutto per mettere in campo misure forti capaci di affrontare questa situazione eccezionale''. Poco più tardi il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha sottolineato che ci si trova davanti a una "emergenza" di fronte alla quale occorre "prendere decisioni".

martedì 15 giugno 2010

La democrazia che non va!

Oramai si dà per scontato, o qua­si, che le demo­crazie vivono nell'immediato e che non provvedono al futuro, ai bisogni e problemi del fu­turo. L'altro giorno Ange­lo Panebianco osservava, per inciso e con la tran­quilla placidità dello stu­dioso che registra un fat­to ovvio, che «la natura del sistema democratico spinge gli uomini politici a occuparsi solo dei pro­blemi del presente. Le grane che ci arriveranno addosso non possono es­sere prese in considera­zione... La politica demo­cratica non si occupa di prevenzione». Panebian­co ha ragione? Per il no­stro Paese sicuramente sì; ma sono oramai parec­chie le democrazie che sempre più diventano cor­to- veggenti e impreviden­ti. Dal che ricavo che sia­mo al cospetto di un pro­blema di estrema gravità.
Io non sono mai stato uno strombazzatore leo­pardiano delle «magnifi­che sorti e progressive» che ci sono state promes­se dai Sessantottini in poi. Ho però sempre stre­nuamente difeso la demo­crazia alla Churchill: che anche la democrazia è un pessimo sistema, «salvo che tutti gli altri sono peg­giori ». In quel detto ho sempre fermamente cre­duto; ma forse oggi va ri­precisato. Intanto va pre­cisato che una cosa è la democrazia liberale co­struita dal costituzionali­smo, e tutt'altra cosa so­no le cosiddette democra­zie populistiche e «diretti­stiche » di finto autogover­no che si liberano dell'im­paccio del garantismo co­stituzionale. In questa chiave io distinguo da tempo tra democrazia co­me demo-protezione (in­tendi: che protegge il de­mos dagli abusi di pote­re) e come demo-potere (che può diventate tutt'al­tra cosa).

Poniamo, in dannatissi­ma ipotesi, che Berlusco­ni mi voglia cacciare in prigione. Potrebbe farlo? No, perché io sono protet­to dal principio dell' habe­as corpus (abbi il tuo cor­po) che è quel cardine del costituzionalismo che ci tutela dall'incarcerazione illegale e arbitraria. Met­tiamo, d'altra parte, che io non voglia essere avve­lenato da «polveri sottili» e dal galoppante inquina­mento atmosferico, che io non voglia restare senz’acqua perché l'acque­dotto pugliese ne perde metà per strada, oppure che Pisa sparisca sott'ac­qua. In questi e consimili frangenti la democrazia descritta da Panebianco farebbe meglio delle non-democrazie? E' lecito dubitarne.
Le grandi civiltà idrauli­che del lontano passato raccontate da Karl Wittfo­gel furono create con stra­ordinaria perizia e preveg­genza dal despotismo orientale; tantissime lacri­me e sangue, ma anche straordinari risultati. Il dispotismo illuminato del '700 fu, appunto, «illu­minato ». Mentre oggi an­diamo alla deriva senza nessuna «illuminazio­ne », con occhi che non vogliono vedere e orec­chie imbottite di cerume. Il detto churchilliano tiene ancora? Sì e no. Sì, se lo dividiamo in due; no altrimenti. La mia pri­ma tesi è che la democra­zia protettiva dell' habeas corpus e del potere con­trollato da contropoteri, è e resta il migliore dei re­gimi possibili per la tute­la della libertà dei cittadi­ni. La mia seconda tesi è invece che il demopotere populistico e direttistico alla Chavez, e purtroppo ambito da Berlusconi, di­venta o può diventare uno dei peggiori sistemi di potere possibili.

L'integrazione degli islamici G.Sartori.

In tempi brevi la Ca­mera dovrà pronun­ciarsi sulla cittadi­nanza e quindi, an­che, sull’«italianizzazio­ne» di chi, bene o male, si è accasato in casa no­stra. Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chia­ve di «razzismo». Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno «xenofobo», mentre chi lo gradisce è uno «xenofi­lo ». E che non c’è intrinse­camente niente di male in nessuna delle due rea­zioni.
Chi più avversa l’immi­grazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini fir­mò, con Bossi, una legge molto restrittiva. Ora, in­vece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapi­da. Chissà perché. Fini è un tattico e il suo dire è «asciutto»: troppo asciut­to per chi vorrebbe capi­re. Ma a parte questa gira­volta, il fronte è da tempo lo stesso. Berlusconi ap­poggia Bossi (per esserne appoggiato in contrac­cambio nelle cose che lo interessano). Invece il fronte «accogliente» è co­stituito dalla Chiesa e dal­la sinistra. La Chiesa deve essere, si sa, misericordio­sa, mentre la xenofilia del­la sinistra è soltanto un «politicamente corretto» che finora è restato male approfondito e spiegato.
Due premesse. Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla «integra­bilità» dell’islamico. Se­condo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall'espe­rienza. La domanda è allo­ra se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorpo­razione etico-politica (nei valori del sistema politi­co), in società non islami­che. La risposta è sconfor­tante: no.
Il caso esemplare è l'In­dia, dove le armate di Al­lah si affacciarono agli ini­zi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominaro­no l’intero Paese. Si avver­ta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi pa­ciosi, pacifici; e la maggio­ranza è indù, e cioè poli­teista capace di accoglie­re nel suo pantheon di di­vinità persino un Mao­metto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventa­re il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesi­stenza in cagnesco finisse­ro in un mare di sangue. Conosco, s’intende, an­che altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Tur­chia. Tutti casi che rivela­no un ritorno a una mag­giore islamizzazione, e non (come si sperava al­meno per la Turchia) l’av­vento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico.
Veniamo all’Europa. In­ghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritro­vano con una terza gene­razione di giovani islami­ci più infervorati e incatti­viti che mai. Il fatto sor­prende perché cinesi, giapponesi, indiani, si ac­casano senza problemi nell’Occidente pur mante­nendo le loro rispettive identità culturali e religio­se. Ma — ecco la differen­za — l’Islam non è una re­ligione domestica; è inve­ce un invasivo monotei­smo teocratico che dopo un lungo ristagno si è ri­svegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo «italianizzan­dolo » è un rischio da gi­ganteschi sprovveduti, un rischio da non rischia­re.

Spendiamo troppo, spendiamo male G. Sartori

Fino a poco fa eravamo abbastanza tranquilli, visto che da mezzo secolo gli economisti ci avevano spiegato che un big crash, un grande collasso come quello del 1929 e anni seguenti, non poteva più accadere. Perché dagli sbagli di allora abbiamo imparato— ci è stato ripetuto a sazietà da chi se ne dovrebbe intendere — a non sbagliare più in futuro. Certo, l’andamento dei processi economici sarà sempre ciclico; certo, ci saranno sempre sbalzi, cali e rialzi; ma catastrofi no, catastrofi mai più. Si è visto. Anzi, come diceva Flaiano, il meglio è già passato. Le falle già scoperte (ce ne sono altre da scoprire) sono state tamponate inondando il mercato di liquidità. Che però sono debiti. Sissignori: sono debiti, e cioè soldi da rimborsare, soldi da restituire. Prescindo dall’ultimo impegno di mettere in campo (Unione europea, più altri) 750 miliardi di euro per fronteggiare ulteriori attacchi degli speculatori. I dati che sono già certi sono che entro il 2014 verranno in scadenza circa 700 miliardi di dollari di junk bonds, di obbligazioni spazzatura. Peggio per chi li possiede. Questi signori non sono stati ingannati, sapevano il rischio che correvano, e non mi fanno nessuna pena. Però anche questo sarà un bel problema. Ci sono poi i debiti di Stato (federali) che hanno dovuto fronteggiare i salvataggi delle banche. Questa è stata una necessità imposta dagli eventi, e può anche darsi che questa partita vada a posto meglio del previsto.
Però gli imprevisti che restano sono due, e sono grossi. In primo luogo ci sono i cosiddetti sub-prime: mutui offerti a profusione dalle banche senza adeguata copertura. Non sappiamo quanti ne salteranno fuori. Certo è che gli Stati Uniti sono costellati di avvisi di vendita (svendita) di beni acquistati, diciamolo pure, per colpa delle banche. Una colpa che risale, nei decenni, alla incosciente dottrina della consumer confidence il cui messaggio è che è proprio il consumatore che compra con carte di credito in rosso che dà slancio alla crescita economica. Così gli americani non risparmiano. E questo nodo è venuto al pettine. Ma l’imprevisto più grosso e più pericoloso è quello dei cosiddetti «derivati »: un marchingegno, una invenzione di due matematici che nemmeno i banchieri hanno capito bene, e che certo non mi provo a spiegare. I derivati in giro per il mondo quanti sono? Non si sa, né lo si vuol rivelare. Ma sono persino finiti nei portafogli di alcune nostre amministrazioni locali. Questa, molto all’ingrosso, la situazione. Perché? Cosa vuol dire? Vuol dire, per l’Occidente, che dagli anni Sessanta in poi abbiamo cominciato a spendere più di quel che guadagniamo, al di sopra delle nostre risorse. Alla consumer confidence noi abbiamo aggiunto le «aspettative crescenti», che poi sono man mano diventate «diritti», diritti intoccabili. Una spiegazione supplementare è che in molti Paesi le finanze pubbliche sono disastrate dall’evasione fiscale. Se tutti pagassero le tasse dovute, il debito dello Stato non costituirebbe più un problema. Vero. Ma il problema è di difficile soluzione.
Le nostre tasse dovrebbero pagare «servizi» e il costo dei cosiddetti beni pubblici (strade, polizia etc.). Ma in molti Paesi (Grecia in primissima fila, ma l’elenco include anche l’Italia) il problema si è incancrenito. Purtroppo, e di molto troppo, il servizio pubblico diventa un «disservizio» e uno spreco usato per assorbire la disoccupazione e per acquisire clientele elettorali. Dunque, non dobbiamo spendere soldi che non abbiamo, e al tempo stesso non dobbiamo «spendere male» i soldi che abbiamo. Visto che in crisi siamo, se non affrontiamo con coraggio e determinazione i problemi nei quali ci siamo infognati, in crisi ancor più resteremo. Speriamo che la necessità porti consiglio.

Spifferi, correnti e preferenze G.Sartori

Faccio sempre fatica, confesso, a seguire la mobilità mentale del Cavaliere. D’un tratto scopre che le correnti sono la «metastasi », il cancro dei partiti. Ma di che si preoccupa? Lui non ha mai avuto un partito che si dichiarasse partito. Il Nostro esordì con Forza Italia (esortazione sportiva per le gare all’estero) e poi inventò il Pdl, che vuol dire «popolo » (non partito) della libertà. Un po’ è che un partito vero Berlusconi non l’ha mai costruito né fatto funzionare (in Germania sarebbe da sempre fuori legge, proibito). Ma è soprattutto che i sondaggisti gli hanno spiegato che la parola partito è impopolare. Per la verità anche la sinistra si è buttata per un po’ sulla botanica (la Quercia, l’Ulivo, la Margherita); ma un sussulto di dignità l’ha riportata a chiamare partito quel che partito è.
Ora ci risiamo con le cosiddette «correnti» interne di partito. Il nome viene proibito. Ma la cosa? In latino la parola che precede «partito» è stata per secoli «fazione». Poi la fazione è man mano diventata una componente interna del partito. In inglese si dice ancora faction, i tedeschi dicono Fraktion. I più melliflui democristiani hanno dolcificato fazione in «corrente ». Ma come si fa ad adoperare ancora una parola che ci compromette con un bieco passato? Io stavo meditando di proporre «spiffero». Purtroppo gli eventi mi hanno scavalcato. La sinistra ha scoperto le «fondazioni» — e quasi ogni leader ha la sua — mentre Berlusconi per una volta tanto era impreparato. Siccome sinora ha avuto un aggregato di genuflessi convocati solo per applaudirlo, ha soltanto potuto decretare, su due piedi, che non solo le correnti in casa sua sono proibite, ma che fanno male alla salute. Ma il problema per gli italiani non è questo. Forse sanno che un partito, qualsiasi vero partito, è sempre suddiviso in correnti, «spifferi», o come i sondaggisti vorranno che si dica. Né è affatto male che sia così. Il problema non è, diciamo, di pluralismo interno ma è la virulenza, slealtà e scorrettezza (o meno) con la quale si dispiega. Però il problema che oggi gli italiani più sentono è quello delle preferenze: il fatto che l’elettore non può «preferire» sulla scheda chi preferisce. A loro sentire questa è una gravissima lesione dei loro diritti.
Ora, è vero che nel proporre i candidati i partiti sostanzialmente li impongono ai loro elettori. Resta però il fatto che fino al 1991 noi le preferenze multiple (tre o quattro) le abbiamo avute, e che un referendum Segni-Pannella le ha cancellate (lasciandone una sola) il 9 giugno 1991 con una travolgente maggioranza del 96 per cento dei votanti. E anche la residua preferenza unica venne poco dopo cassata a furor di popolo.
Allora a che gioco giochiamo? Prima le preferenze le aboliamo, ora ci sembrano un salvatutto. Io, a suo tempo, votai contro la proposta referendaria per le preferenze multiple. E torno a spiegare perché, visto che il tema delle preferenze è collegato al tema delle «correnti» che Berlusconi proibisce. Occulti o palesi che siano, qualsiasi organizzazione si organizza in sottogruppi di potere che ambiscono al potere. Io favorivo, quando c’erano, le preferenze multiple perché consentivano accordi tra «cordate» di aspiranti atte a pacificarle. Ridurre la preferenza a una sola aggrava, invece, il cannibalismo tra le correnti. Ciò ricordato (nessuno sembra ricordarsene) mi chiedo se saremo mai coerenti e contenti.

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