Chi ci garantisce che un giovane sia meglio di un anziano? Possiamo fidarci della semplice radice etimologica del sostantivo iuventus, che viene dal verbo “giovare”? L’urgenza del ricambio generazionale come strumento di innovazione non si giustifica tanto sulla base di presunte proprietà o caratteristiche giovanili, quanto sulla loro capacità di immaginare e produrre una reale revisione del presente.
Volevo un uditorio composto di volti giovani, bramosi di racconti di avventura e passione e amore; e di menti fresche, ancora sensibili al fascino di orrori soprannaturali e amori epici». Costretto a tenere viva l’attenzione del suo pubblico raccontando storie, pena la morte, il protagonista del romanzo del grande, e giovane, scrittore indiano Chandra, “Terra rossa e pioggia scrosciante”, decide senza incertezze di puntare su un pubblico giovane, certo della sua maggiore attenzione ed emozione.
Al contrario dell’interprete di questa sorta di mille e una notte indiana, non sono in molti a condividere la ferma convinzione che preferire i giovani porti giovamento alla nostra economia, alla cultura, alla politica e in generale al nostro paese, magari evitandone, appunto, la scomparsa. «Il giovanilismo è un caso da manuale di miopia e stupidità predittiva», ha scritto Giovanni Sartori, commentando così la proposta di mettere tetti nell’accesso a determinate cariche: «Ho conosciuto moltissimi maestosi imbecilli di ogni età».
Le serpi da piccole non fanno male?
Un’argomentazione che dimostri l’opportunità di accantonare gli anziani per lasciare spazio a chi viene dopo all’interno di organizzazioni sociali di vario tipo (azienda, partito, università ecc.), dovrebbe in effetti farsi carico di una dimostrazione impegnativa. Spiegare, cioè, perché mettere un cervello giovane (e un corpo, per non esser troppo cartesiani) in un posto x all’interno di un’organizzazione y, produrrebbe naturaliter più innovazione, con un generale incremento del bene comune. Una tesi solo apparentemente autoevidente: chi ci garantisce, infatti, che un giovane sia meglio di un anziano? Possiamo fidarci della semplice radice etimologica del sostantivo iuventus, che viene dal verbo “giovare” (ma, appunto, la gioventù giova a chi? A chi è giovane o a chi si prende il giovane?).
Anche la ricerca di specifiche “proprietà” o capacità proprie ai giovani in quanto tali, caratteristiche di cui le altre età sarebbero prive, non ci viene molto in soccorso. Ammesso che si possano trovare aspetti ricorrenti della gioventù, e che soprattutto tali aspetti siano associabili ad un’età biografica, ci troveremmo di fronte a tratti non certo univoci. «Fiorente, florido », ma anche «immaturo, non stagionato, inesperto» di contro ad «abile, provetto, esperto, perito», suggeriscono le definizioni.
Se dal punto di vista cognitivo, spiega l’etologo Enrico Alleva, «il cervello giovanile apprende con una velocità successivamente impossibile, mentre un senso come l’udito comincia a diminuire già al doppio, o poco più, degli anni dello sviluppo sessuale, quello “senile” è in grado di compiere operazioni più difficili per i giovani – penso alla gestione di un terremoto – in virtù dell’esperienza accumulata».
Dal punto di vista morale, la tradizione, supportata dalla biologia, assegna a chi viene dopo i caratteri dell’innocenza e della propensione a spendersi e, quindi, a dare (e osare) di più. «Curiosità di conoscere la differenza tra il vero e il falso, tra il giusto e l’ingiusto, curiosità degli altri e della vita, generosità del buttarsi, sperimentare, dare, cercare», scriveva negli anni Novanta Goffredo Fofi. «Parvulae serpentes non nocent», «Le serpi da piccoline non fanno del male», dicevano, con ironia, i latini. Ma al topos dell’innocenza giovanile fa da ovvio controcanto quello della saggezza degli anziani, un vero leitmotiv della letteratura morale. Saggezza che, se talvolta sfuma nella furbizia e nel cinismo («volpe vecchia non si fa prendere in trappola»), è stata nella storia sempre oggetto di altissima venerazione.
In breve, la ricerca di presunte “essenze” generazionali – quella giovanile, come quella femminile d’altro canto – è piuttosto incerta e discutibile. Siamo sicuri, ad esempio, che il candore giovanile non equivalga anche ad ottusità, con conseguente facilità ad essere infiammati da ideologie estremiste di ogni sorta? Inoltre, e soprattutto, l’essenzialismo si scontra con l’osservazione della realtà e con la mutevolezza dei valori rispetto alla storia e all’evoluzione sociale. In una recente ricerca sui valori dei giovani europei, ad esempio, i sociologi francesi Olivier Galland e Bernard Roudet demoliscono il mito dell’altruismo giovanile, mostrando come i ventenni, specie di alcuni paesi, siano assai più in sensibili ai destini delle categorie più sfortunate degli adulti. Mentre per quanto riguarda realismo e cinismo, i trentenni di oggi appaiono campioni di cinismo e disincanto ben più dei loro genitori.
Se il ricambio produce utopia.
Stiamo allora forse fornendo frecce al nostro avversario antigiovanilista? Non proprio. Ma l’urgenza del ricambio generazionale come strumento di innovazione non si giustifica sulla base di presunte proprietà o caratteristiche giovanili. Il punto, infatti, non è la qualità di chi entra, ma il fatto che chi entra sia diverso da chi lo ha preceduto.
In questo senso, il succedersi delle generazioni, scrive il sociologo Karl Mannheim, produce di per sé innovazione, nella misura in cui consente un accesso non per forza migliore, ma certamente nuovo, al patrimonio culturale. Un accesso che equivale ad «un nuovo rapporto di distanza con l’oggetto, una nuova impostazione nell’assimilazione, elaborazione e perfezionamento dell’esistente». Senza questo sguardo inedito, prosegue Mannheim, «i modelli sociali fondamentali sarebbero sempre conservati », per cui, per compensare la mancanza di nuove generazioni, gli uomini dovrebbero imparare a dimenticare.
Oppure trasformarsi in individui dotati di una coscienza utopistica totale, da un lato «capaci di sperimentare tutto lo sperimentabile, e sapere tutto il conoscibile », dall’altro possedere «l’elasticità di sapere sempre cominciare da capo». Non essendo questo possibile, è evidente che il succedersi di generazioni produce una revisione del presente e ci insegna, conclude Mannheim, «a desiderare ciò che non è stato ancora ottenuto».
Il ricambio generazionale è l’unico che può alimentare, di conseguenza, un orizzonte utopico che, viceversa, si spegnerebbe. Senza i giovani, nota il sociologo Carlo Carboni, «ci priviamo di potenziali esploratori di futuro, e la capacità di visione, di decisione e di innovazione delle nostre classi dirigenti non può che accusarne l’assenza».
Biodiversità e innovazione
L'argomentazione di Mannheim costituisce un sottoinsieme di una teoria più vasta, quella che stabilisce un rapporto di causa-effetto tra varietà e innovazione e, per converso, tra ogni forma di monismo o di riduzione della diversità e conservazione dell’esistente. La dimostrazione più famosa di questa tesi è costituita dal naturalismo darwiniano, che fa discendere il miglioramento delle specie proprio dalla ricchezza della biodiversità. Non è forse proprio grazie all’eccentrico, al casualmente nuovo che le specie si migliorano, grazie ad una selezione della variante più efficace alla sopravvivenza?
Questa argomentazione, mutuata dalla biologia, si ritrova in realtà sotto forma di riflessione filosofica nella teoria politica liberale, che in fondo da questo punto di vista rappresenta una versione storica della tesi naturalista. È stata proprio la teoria liberale, infatti, a fare della tutela del pluralismo il compito principale della democrazia e più in particolare delle istituzioni politiche; le quali non dovrebbero curarsi della ricerca della verità, e cioè del bene in sé, ma della creazione di condizioni in cui ciascuna verità-componente possa esprimersi, in un contesto di libertà che genera di per sé cambiamento verso il meglio. Viceversa, ogni forma di soppressione del diverso, ma anche di semplice riduzione del pluralismo, non può che generare una conservazione dello status quo (dunque la morte dell’innovazione), quando non sfociare in un suo peggioramento o in un esito ancor più tragico.
Da questo punto di vista, allora, come possiamo non giudicare un’anomalia e persino un’aberrazione il “totalitarismo generazionale” che caratterizza trasversalmente il nostro parlamento, i partiti, le aziende, il mondo della cultura e in particolare l’università, l’editoria, persino ironicamente le stesse forze armate?
Le vittime del mancato pluralismo
Il richiamo a forme di potere non plurali, e quindi non pienamente democratiche, è a maggior ragione giustificato quanto più si sposta l’attenzione dal piano dell’immobilismo e della mancata innovazione a quello dell’equità tra generazioni; e, ancor più, delle conseguenze sulle vittime del mancato pluralismo, in questo caso le generazioni escluse.
Talmente drammatica è divenuta la situazione di queste ultime che persino il nostro dibattito pubblico-mediatico, refrattario fino all’ultimo alla tragedia della disoccupazione e delle contraddizioni dei nostri contratti atipici, già evidenti alla fine degli anni Novanta, è passato da slogan quali «Un paese fermo e stanco», «Élite immobili invecchiate », a denunce assai più appassionate: «Per i giovani non c’è lavoro », «I giovani rischiano il dramma sociale», «In Italia otto milioni di poveri e a pagare ora sono i giovani», «La crisi ha infierito sui giovani. Sparito anche il lavoro precario». Titoli che di solito seguono i periodici “bollettini di guerra” dell’Istat, del Censis, dello Svimez, della Banca d’Italia, o gli appelli accorati di pochi, tra i quali, per lo più inascoltato, il capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Sugli esiti pratici e psicologici di una disoccupazione continua o di lavori di pochi mesi, mal pagati, e privi di qualsiasi forma di tutela, sulle esistenze individuali molto si è scritto. Più interessante è, qui, ricordare un aspetto meno considerato: la devastazione etica che consegue alla diffusione del cattivo lavoro. L’ha descritta egregiamente, anche se forse involontariamente, un giovane e poco noto scrittore italiano, che in un racconto immagina un protagonista cui è stato offerto un lavoro di 500 euro al mese per otto ore al giorno (il compenso di molte commesse) e al quale tale offerta scatena l’idea immaginaria di uccidere alcune mamme di bambini, con i seguenti pensieri: «Quei bambini penseranno che mamma non può morire? E invece mamma può morire, se io posso lavorare per 2,84 euro l’ora. (…) Uccidere, ho detto uccidere, perché se agli altri non fa paura offrirmi lavori a 2,84 euro (“prendere o lasciare, come te ne trovo mille per strada”) a me non fanno paura i miei pensieri e quindi li nomino».
Da questo punto di vista, il ricambio è – oltre che auspicabile per il rinnovamento – anche urgente dal punto di vista veritativo, nel senso che, restituendo equità e riequilibrando quel rapporto di dominio e potere delle generazioni anziane su quelle più giovani, ristabilisce un sistema di valori e di giustizia. Ed evita il degenerare nella violenza che, ancora attutita dal residuale welfare dei genitori, è dietro l’angolo quando non si ha più davvero nulla da perdere.
A proposito di tetti e quote
Ma anche ammesso che il ricambio generazionale sia un bene, tutti gli strumenti che lo favoriscono lo sono altrettanto? Come giudicare, ad esempio, l’introduzione di tetti di età nell’accesso a cariche, i prepensionamenti forzati, l’eventuale introduzione di “quote verdi” analoghe alle rosa?
Di fatto, sono in molti a sostenere non solo che si priva così la società di persone con elevatissima esperienza, senza avere la garanzia che ne entrino di migliori, ma soprattutto che il prepensionamento forzato non produce affatto un aumento delle opportunità giovanili, per le quali, appunto, bisognerebbe an zitutto puntare su aspetti cruciali quali appunto la mobilità sociale e, grazie ad una seria e condivisa cultura della valutazione, la meritocrazia. Altrimenti si corre il rischio di mandar via persone di esperienza, che magari si sono fatte da sole, per lasciar spazio a incapaci “figli di”, cooptati e raccomandati.
Quanto all’idea di “quote” per garantire la presenza giovanile, di cui in verità si è scarsamente parlato, ben si conoscono le critiche a quelle rosa – definite discriminatorie al contrario e controproducenti – sulla falsariga delle critiche alle politiche dell’affirm - ative action dei paesi anglo sassoni.
Si tratta di accuse in parte ragionevoli: tetti e quote sono misure dal sapere poco liberale, impensabili in società in cui tutte le generazioni sono rappresentate e il ricambio avviene naturalmente. Tuttavia, la violazione della parità di opportunità delle categorie “fortunate” appare assai meno inconcepibile se la si confronta con la letterale assenza di quelle da troppo tempo escluse e con la sistematica violazione del pluralismo di genere e generazionale del nostro paese, di cui quasi nessun liberale, incredibilmente, si scandalizza. Da questo punto di vista, si tratta di misure di emergenza, certo temporanee, fino a che la distribuzione di risorse e cariche diventi un po’ meno immoralmente unigenerazionale e il pluralismo si generi in maniera fisiologica.
D’altro canto, se le risorse sono sempre le stesse e la crescita del paese è ferma, come possono entrare i più giovani se non si incide, almeno un poco, su alcuni tra i diritti acquisiti, generosamente distribuiti in passato e pure giudicati intoccabili? Se ad esempio, come sembra imporre la riforma Gelmini, si possono assumere ricercatori solo in caso di pensionamento di professori, come farlo se gli anziani non escono? Forse si potrebbe chiedere a questi ultimi, perché non lascino la società priva del loro sapere, di continuare ad insegnare, o lavorare, gratis. Oppure, come suggerisce meno demagogicamente Alessandro Rosina, «prevedere per essi un’uscita flessibile con adeguati contratti rinnovabili». Settantenni con contratti co.co.co., ma in vista di una certissima pensione, e giovani assunti (o, per non esagerare, almeno impiegati).
Una proposta immorale e lesiva, di fronte a milioni di giovani – perché di milioni ormai si tratta nel nostro paese – che, come ha ricordato Camilleri in una battuta divenuta nota, non hanno tanto il problema di diventare bamboccioni quanto quello, letterale, di non finire come barboni.
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