Le condizioni in cui normalmente si è portati a parlare in televisione sono:
a. il tempo è limitato
b. l’argomento del discorso è imposto
c. c’è sempre un presentatore che richiama all’ordine, in nome della tecnica, del 'pubblico-che-non-ci-capirà-nulla', della morale, delle buone maniere, ..
Ma allora perché, in queste condizioni, tanti accettano di partecipare alle trasmissioni televisive?? È una domanda molto importante, eppure la maggior parte di coloro che accettano di partecipare (ricercatori, scienziati, scrittori, giornalisti) non se la pongono. Credo che, accettando di partecipare senza preoccuparsi troppo di sapere se si potrà dire qualcosa, si lasci molto chiaramente filtrare che non si è lì per dire qualcosa, ma per essere visti; per essere ben visti (cosa che implica una quantità di compromessi). E, non potendo contare troppo sulla propria opera per resistere nella continuità, costoro non hanno altra risorsa se non quella di apparire con la massima frequenza possibile sullo schermo. Ecco perché lo schermo televisivo è divenuto oggi una sorta di specchio di Narciso, un luogo di esibizione narcisistica. Mi piacerebbe molto che costoro affrontassero il problema collettivamente, e che tentassero di avviare un negoziato con i giornalisti, fino a stipulare una sorta di contratto. Non si tratta di condannare i giornalisti, spesso i primi a soffrire delle condizioni che sono costretti ad imporre; si tratta piuttosto di renderli partecipi di una riflessione destinata a trovare i modi di superare in comune le minacce di strumentalizzazione. Il partito preso del rifiuto puro e semplice di esprimersi in televisione mi sembra indifendibile; penso anzi che, in alcuni casi, ci possa essere una sorta di dovere di farlo, sempre che le condizioni siano ragionevoli. E per orientare la scelta occorre tener conto della specificità dello strumento televisivo: con la televisione si ha a che fare con uno strumento che dà la possibilità di raggiungere un po’ tutti. La cosa pone un certo numero di problemi preliminari: quello che ho da dire è destinato a raggiungere tutti?? Sono davvero pronto a fare in modo che il mio discorso, per la forma in cui si presenta, possa essere capito da tutti?? Merita di essere capito da tutti?? Deve essere capito da tutti?? Se gli uomini di scienza hanno una missione, è quella di restituire all’umanità tutte le acquisizioni della ricerca. Vorrei che tutti coloro che sono invitati a comparire in televisione si ponessero queste domande, o che fossero costretti a porsele, perché i telespettatori, i critici televisivi, se le pongono e le pongono a proposito delle loro apparizioni sul piccolo schermo.
Una censura invisibile.
L’accesso alla televisione ha come contropartita una fortissima censura, una perdita di autonomia legata, tra l’altro, al fatto che l’argomento è imposto, che le condizioni della comunicazione sono imposte e soprattutto che la limitazione del tempo impone al discorso vincoli tali da rendere davvero minime le probabilità che qualcosa possa essere detto. Ora, è vero che si dà un controllo politico (esercitato soprattutto attraverso determinate nomine ai vertici), ed è vero anche che, al giorno d’oggi, in un periodo nel quale si ha un intero esercito di riserva e un’enorme precarietà di impiego nelle professioni legate alla televisione, l’inclinazione al conformismo politico è maggiore. Gli individui si adeguano per una forma conscia o inconscia di autocensura, senza che ci sia bisogno di richiamarli all’ordine. Ma si può pensare anche alle censure economiche (chi è il proprietario della rete, chi sono gli sponsor che pagano la pubblicità, lo stato che concede sovvenzioni, ..): è vero infatti che, in ultima analisi, a pesare sulla televisione è soprattutto il vincolo economico. Sono cose talmente grossolane e ovvie che non sfuggono alla critica più elementare, eppure nascondono i meccanismi autonomi, invisibili, attraverso i quali si esercitano le censure di ogni genere e grado che fanno della televisione un fortissimo strumento di rafforzamento dell’ordine simbolico. La denuncia degli scandali dell’uno o dell’altro presentatore, o dei guadagni esorbitanti di certi produttori, contribuisce a distogliere l’attenzione dall’essenziale, nella misura in cui la corruzione delle persone maschera quella sorta di corruzione strutturale che si esercita sull’insieme del gioco attraverso meccanismi quali la concorrenza per le quote di mercato. Vorrei quindi smontare una serie di meccanismi per i quali la televisione esercita una forma particolarmente dannosa di violenza simbolica. La violenza simbolica è una violenza che si esercita con la complicità tacita di coloro che la subiscono e, spesso, anche di coloro che la esercitano, nella misura in cui gli uni e gli altri non sono consapevoli di esercitarla o di subirla. La sociologia può contribuire ad attenuare la violenza simbolica che si esercita nei rapporti di comunicazione mediatica. Cominciamo dal più facile: i fatti di cronaca, che sono sempre stati il materiale privilegiato della stampa scandalistica, alla ricerca del sensazionale; hanno sempre fatto vendere, e il dominio dell’auditel ha riportato alla ribalta, nei titoli dei TG, proprio questi ingredienti, che il timore di decoro imposto dal modello della stampa scritta seria aveva sino a poco fa indotto a relegare ai margini o ad evitare del tutto. Ma i fatti di cronaca sono anche fatti che operano una svolta: una parte dell’azione simbolica della televisione, a livello dei programmi d’informazione, per esempio, consiste nell’attirare l’attenzione su fatti di natura tale da interessare tutti; fatti che non devono turbare nessuno, non sono oggetto di controversia, non dividono, suscitano il consenso, interessano tutti, ma in modo tale da non toccare nulla d’importante. Il fatto di cronaca è una specie di materia prima elementare dell’informazione, una cosa molto importante perché porta via tempo, un tempo che potrebbe essere impiegato per dire altro. Ora, il tempo è una materia prima estremamente rara alla televisione e se si impiegano minuti tanto preziosi per dire cose tanto futili, ciò dipende dal fatto che queste cose tanto futili sono in realtà molto importanti, nella misura in cui nascondono cose preziose. Bisogna ricordare che vi è un gran numero di persone che non leggono alcun quotidiano, che sono legate anima e corpo alla televisione come unica fonte d’informazione: la televisione ha una sorta di monopolio di fatto sulla formazione dei cervelli di una parte consistente della popolazione. Ora, ponendo l’accento sui fatti di cronaca, riempiendo di vuoto questo tempo raro, si occultano le informazioni pertinenti che il cittadino dovrebbe possedere per esercitare i propri diritti democratici. Con questo sistema ci si orienta vero una divisione, in materia d’informazione, tra
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coloro che possono leggere i quotidiani coloro che hanno come unico bagaglio politico l’informazione
considerati seri, sempre che questi ultimi fornita dalla televisione, nulla o quasi nulla
restino tali resistendo alla concorrenza
della televisione; coloro che hanno l’opportunità di ricorrere alla stampa internazionale, alle catene radiofoniche in lingua straniera
Nascondere mostrando.
Mostriamo ora come la televisione possa, paradossalmente, occultare mostrando, mostrando altro da ciò che si dovrebbe mostrare se si facesse ciò che si è chiamati a fare, cioè informare; oppure anche mostrando ciò che si deve mostrare, ma in modo da non farlo affatto, o da renderlo insignificante, o costruendolo in modo tale da attribuirgli un senso che non corrisponde in nessun modo alla realtà. I giornalisti hanno 'occhiali speciali' attraverso i quali vedono certe cose e non altre; e vedono in un certo modo le cose che vedono. Operano una selezione e una costruzione di ciò che viene selezionato. Il principio di selezione è la ricerca del sensazionale, dello spettacolare. La televisione invita alla drammatizzazione, nel doppio senso del termine:
§ mette in scena, in immagini, un evento e
§ ne amplifica l’importanza, la gravità, nonché il carattere drammatico, tragico
Lo stesso lavoro si fa sulle parole: con quelle comuni non si può sperare di far colpo sulla gente, per questo occorrono parole straordinarie. In effetti, paradossalmente, il mondo dell’immagine è dominato dalle parole: la foto non è nulla senza la didascalia che dice cosa si deve leggere (e ciò corrisponde spesso a leggende vere e proprie, che fanno vedere ciò che vogliono). Nominare equivale a creare e le parole possono avere effetti catastrofici. I presentatori spesso parlano alla leggera, senza avere la minima idea della difficoltà e della gravità di ciò di cui parlano e delle responsabilità che assumono parlandone, di fronte a migliaia di telespettatori, senza capire e senza capire che non capiscono. Perché queste parole si trasformano in cose, creano fantasmi, paure, fobie o, semplicemente, rappresentazioni false. I giornalisti si interessano dell’eccezionale, ma di ciò che è eccezionale per loro. Ma lo straordinario è anche ciò che non è ordinario in rapporto agli altri giornali. È una necessità terribile: quella imposta dalla corsa allo scoop. Per essere i primi a far vedere qualcosa, si è pronti più o meno a tutto, e siccome ci si copia a vicenda per anticipare gli altri, o per distinguersi da loro, si finisce per fare tutti la stessa cosa: la ricerca dell’esclusiva, che, in altri campi, produce l’originalità, si risolve qui nell’uniformazione e nella banalizzazione. Questa ricerca interessata, accanita, dello straordinario, può avere, al pari delle pressioni direttamente politiche o delle autocensure imposte dal timore dell’esclusione, effetti politici. Avendo a disposizione la forza eccezionale propria dell’immagine televisiva, i giornalisti possono produrre effetti ineguagliabili. I pericoli politici inerenti all’uso ordinario della televisione derivano dal fatto che l’immagine ha questo di specifico: può produrre l’effetto di realtà, può far vedere e far credere a ciò che fa vedere, può far esistere idee o rappresentazioni, ma anche gruppi. I fatti di cronaca possono essere investiti di implicazioni politiche, etiche, .. capaci di suscitare sentimenti forti, spesso negativi, come il razzismo, la xenofobia, l’odio-terrore dello straniero; e la semplice cronaca, il fatto di riferire, implica sempre una costruzione sociale della realtà capace di esercitare effetti sociali di mobilitazione. Ci sono poi momenti in cui i giornalisti, in perfetta buona fede, in tutta ingenuità, lasciandosi trascinare dai loro interessi e dai loro presupposti, possono produrre effetti di realtà e effetti nella realtà, effetti che, pur non essendo voluti da nessuno, possono risultare catastrofici. Così la televisione che pretende di essere uno strumento di registrazione diviene strumento di creazione della realtà. Ci si avvicina sempre più a universi in cui il mondo sociale è descritto-prescritto dalla televisione. Sulla scala degli scambi quotidiani come su quella globale, le lotte politiche mirano ad acquisire la capacità di imporre principi di visione del mondo, occhiali tali che la gente veda il mondo secondo certe visioni. Quanti continuano a credere che sia sufficiente manifestare, senza tener conto della televisione, rischiano di mancare il loro obiettivo: solo riprese e amplificate dalla televisione, le manifestazioni assumeranno la loro piena efficacia.
La circolazione circolare dell’informazione.
Il giornalista è un’entità astratta che non esiste; ad esistere sono piuttosto giornalisti diversi per età, sesso, livello d’istruzione, giornale d’appartenenza, medium, .. Il mondo dei giornalisti è un mondo diviso, traversato da conflitti, concorrenze, ostilità. In ogni caso, i prodotti giornalistici sono molto più omogenei di quanto non si creda. Le differenza più evidenti, legate in particolare alla colorazione politica dei giornali (che si fanno sempre meno coloriti), nascondono somiglianze profonde, legate soprattutto ai vincoli imposti dalle fonti e da tutta una serie di meccanismi, il più importante dei quali rimane la logica della concorrenza. Si dice continuamente che il monopolio produce uniformazione e la concorrenza diversifica. Ma, quando essa si esercita tra giornalisti o giornali sottoposti agli stessi vincoli, la concorrenza produce omogeneità. Così, nei TG delle reti a grande diffusione, cambia, nel meglio o nel peggio, solo l’ordine delle informazioni. Ciò dipende in parte dal fatto che la produzione è collettiva; ma il collettivo di cui i messaggi televisivi sono il prodotto non si riduce al gruppo costituito da una redazione, comprende piuttosto l’insieme dei giornalisti. Diciamo molte meno cose originali di quanto non crediamo. E ciò è particolarmente vero in universi nei quali i vincoli collettivi sono molto forti, quelli della concorrenza soprattutto, nella misura in cui ciascuno dei produttori è indotto a fare cose che non farebbe se gli altri non esistessero (quelle che fa, ad esempio, per arrivare prima degli altri). Per i giornalisti, la lettura dei giornali è un’attività indispensabile e la rassegna stampa uno strumento di lavoro: per sapere cosa dire, occorre sapere cos’hanno detto gli altri: è questo uno dei meccanismi attraverso i quali si genera l’omogeneità dei prodotti proposti. Le piccole differenze, cui, soggettivamente, i diversi giornalisti attribuiscono tanta importanza, mascherano somiglianze enormi. Questa sorta di gioco di specchi che si riflettono a vicenda produce un fortissimo effetto di chiusura mentale. Differenze assolutamente impercettibili per lo spettatore medio, che potrebbe percepirle solo se guardasse contemporaneamente diverse reti, differenze che restano quindi inavvertite, sono molto importanti dal punto di vista dei produttori, i quali pensano che, venendo percepite, contribuiscano al successo in termini di auditel. Le scelte che si operano alla televisione sono in qualche modo scelte senza soggetto: per spiegare questa proposizione riporterò semplicemente gli effetti del meccanismo di circolazione circolare. Il fatto che i giornalisti, i quali peraltro hanno molti elementi comuni, di condizione, ma anche di origine e di formazione, si leggano tra loro, si incontrino continuamente tra loro nei dibattiti, dove si vedono sempre le stesse facce, produce effetti di chiusura e di censura non meno efficaci (anzi, più efficaci ancora, dal momento che il principio riesce meno visibile) di quelli di un intervento politico esplicito. Per rompere il cerchio occorre procedere per rottura, ma la rottura può essere solo mediatica; occorre riuscire a fare un colpo che interessi i media, o almeno uno di essi, perché la concorrenza provvederà a farlo riprendere dagli altri. Se ci si chiedesse come siano informati gli individui che sono incaricati di informarci, si scoprirebbe che, in linea di massima, sono informati da altri informatori. Certo, ci sono le agenzie, le fonti ufficiali, con le quali i giornalisti sono tenuti a mantenere rapporti di scambio molto complessi; ma la parte determinante di quell’informazione sull’informazione che permette di decidere cosa sia importante, deriva in gran parte da altri informatori. E ciò porta ad una sorta di livellamento, di omogeneizzazione delle gerarchie d’importanza. Non dobbiamo rappresentarci l’ambiente giornalistico come omogeneo: ci sono i giovani, i rivoluzionari che lottano disperatamente per introdurre lievi differenze nell’enorme miscuglio omogeneo imposto dal circolo (vizioso) dell’informazione che circola in modo circolare tra persone accomunate dal fatto di essere sottoposte al vincolo degli indici d’ascolto, dove gli stessi dirigenti non sono altro che la difesa dell’auditel. Si ha quindi una conoscenza molto precisa di ciò che passa e di ciò che non passa: questa misura, l’auditel, è divenuta la 'Corte suprema' del giornalista. Oggi la 'mentalità auditel' è presente nelle redazioni, nelle case editrici, .. Tutti pensano in termini di successo commerciale. Anche solo 30 anni fa, il successo commerciale immediato era sospetto: lo si considerava un segno di compromesso con il denaro; oggi invece, sempre di più, il mercato viene considerato una richiesta permessa di consenso. Attraverso l’auditel è la logica del commerciale che si impone alle produzioni culturali. Ora, è importante sapere che, storicamente, tutte le produzioni culturali considerate fra le attività più alte dell’umanità (la matematica, la poesia, la letteratura, la filosofia, ..) si sono messe contro l’equivalente dell’auditel, contro la logica del commercio. Vedere questa mentalità auditel insinuarsi in questi campi è molto preoccupante, poiché ciò rischia di rimettere in discussione le condizioni stesse della produzione di opere che possono sembrare misteriose, perché non vanno incontro alle attese del loro pubblico, ma, ad un certo punto, sono capaci di crearsi un pubblico proprio.
L’urgenza e il fast thinking (= il pensare velocemente).
Sulla televisione, l’auditel esercita un effetto del tutto particolare, ritraducendosi nella pressione dell’urgenza. La concorrenza dei giornali fra loro, quella fra i giornali e la televisione, quella tra le varie reti assume la forma di una concorrenza temporale per lo scoop, per essere i primi. Questa sorta di pressione incrociata che i giornalisti esercitano gli uni sugli altri finisce per generare tutta una serie di conseguenze che si esprimono in scelte, assenze e presenze. La televisione non è molto favorevole all’espressione del pensiero; vi è infatti un nesso, negativo, fra l’urgenza e il pensiero. Nell’urgenza non si può pensare, a meno che si pensi per luoghi comuni. I luoghi comuni sono idee accettate da tutti, banali, comuni; ma sono anche idee che, quando le riceviamo sono già ricevute, cosicché il problema della ricezione non si pone. La comunicazione è istantanea perché, in un certo senso, non è; o è solo apparente. Lo scambio di luoghi comuni è una comunicazione che ha come unico contenuto il fatto stesso della comunicazione. Il pensiero, invece, è sovversivo: deve cominciare con lo smontare i luoghi comuni e, solo in seguito, deve dimostrare, attraverso una concatenazione di ragionamenti e di riflessioni. Se la televisione privilegia un certo numero di fast thinkers (= pensatori veloci) che propongono un fast food culturale, cibo culturale predigerito, prepensato, ciò non dipende solo dal fatto (anch’esso peraltro determinato dalla sottomissione all’urgenza) che i responsabili dei programmi hanno un’agenda con un certo numero di indirizzi, sempre gli stessi; vi sono locutori obbligati che escludono dal cercare qualcuno che possa avere veramente qualcosa da dire, cioè, spesso, giovani ancora sconosciuti, presi dalle loro ricerche, poco disposti a frequentare i media; e poi bisognerebbe andarli a cercare, mentre sottomano, sempre disponibili e pronti a scodellare il loro pezzo o a rilasciare la loro dichiarazione, ci sono i soliti noti.
Dibattiti veramente falsi o falsamente veri.
I dibattiti possono essere divisi in dibattiti veramente falsi e dibattiti falsamente veri. I primi si riconoscono subito come tali: coloro che si presentano in questi dibattiti sono tutti compari, sono persone che si conoscono fra loro. L’universo degli invitati permanenti è infatti un mondo chiuso di interconoscenze che funziona in una logica di autorafforzamento permanente. Viene da chiedersi: il pubblico è consapevole di questa complicità?? Non del tutto. La gente sente che c’è qualcosa, ma non vede sino a che punto questo mondo è chiuso, bloccato su se stesso, quindi estraneo ai suoi problemi, alla sua stessa esistenza. Ci sono poi anche dibattiti apparentemente veri. Essi hanno tutte le apparenze del dibattito democratico, e per poter ragionare a maggior ragione. Ora, se si guarda da vicino a come si svolgono questi dibattiti (procedendo dal più visibile al più nascosto), si scopre una serie di operazioni di censura. Primo livello: il ruolo del presentatore. È lui ad imporre il tema, la problematica; è ancora lui ad imporre il rispetto della regola del gioco, una regola a geometria variabile; è ancora lui che assegna la parola, distribuisce i segni d’importanza. E fa tutto ciò con la parola, ma similmente anche con tutti i livelli d’espressione del linguaggio non verbale (sguardi, silenzi, gesti, mimica, movimenti oculari, intonazione, ..); e questo è inevitabile, in quanto nessuno, neppure chi ha il maggior controllo su se stesso, riesce a padroneggiare tutti questi aspetti. Altra strategia del presentatore: manipolare l’urgenza. Il presentatore si serve del tempo, dell’urgenza, per togliere la parola, per far fretta, per interrompere. E qui ha un’altra risorsa, quella di farsi portavoce del pubblico ('scusi se la interrompo, ma non capisco cosa intenda dire'). Con questo non vuol far capire che è stupido, lascia soltanto intendere che lo spettatore di base, stupido per definizione, non capirà. In realtà, invece, le persone cui richiama per svolgere il proprio ruolo di censore sono spesso quelle più innervosite dalle interruzioni. Ciò pone un problema molto grave dal punto di vista della democrazia: è chiaro che non tutti i locutori sono uguali negli studi televisivi. Ci sono i professionisti della scena e della parola e, di fronte a loro, i dilettanti: è una cosa di una disegualianza straordinaria. E per ristabilire un minimo di eguaglianza, il presentatore dovrebbe usare una certa parzialità, dovrebbe cioè assistere i più sfavoriti nella situazione considerata. Quando si vuole che un non professionista della parola riesca a dire delle cose (e spesso finirà per dirne di assolutamente straordinarie, cose che quanti parlano dalla mattina alla sera non possono nemmeno pensare), occorre fare un lavoro di assistenza alla parola. Essa consiste nel mettersi al servizio di qualcuno la cui parola è importante, di cui si vuol sapere quel che ha da dire, quel che pensa, aiutandolo a 'partorire'. Ora, non è certo questo che fanno i presentatori: non soltanto non aiutano i meno favoriti, ma li distruggono. In cento modi diversi: non dando loro la parola al momento giusto, concedendogliela quando non se l’aspettano più, manifestando la propria impazienza, .. Ma con tutto questo siamo ancora al livello superficiale, fenomenico. Passiamo al secondo livello: la componente del set (= luogo delle riprese), gli invitati. È un aspetto fondamentale del lavoro di manipolazione; è un lavoro invisibile di cui il set stesso è il risultato (nessun telespettatore infatti dirà: 'ma guarda, non c’è il tale'). La composizione degli invitati è importante perché deve dare l’immagine di un equilibrio democratico: si esibisce l’eguaglianza e il presentatore di offre come un arbitro. Altro fattore invisibile, ma assolutamente determinante: il sistema montato in precedenza, attraverso conversazioni preparatorie con i partecipanti previsti, e che può portare ad una sorta di copione, più o meno rigido, cui gli invitati devono adeguarsi. In questo copione previsto in anticipo, non viene lasciato praticamente alcuno spazio all’improvvisazione, alla parola libera, senza freni, troppo rischiosa, se non pericolosa, per il presentatore e per la sua trasmissione. Altra proprietà invisibile è la logica stessa del gioco linguistico: la partita che ci si accinge a giocare ha regole tacite, secondo cui certe cose possono essere dette e altre no. Primo presupposto implicito di questo gioco linguistico: il dibattito democratico pensato secondo il modello wrestling: dev’esserci uno scontro, il buono, il bruto .. E, contemporaneamente, non tutti i colpi sono permessi; i colpi devono calarsi nella logica del linguaggio formale, colto. Altra proprietà ancora: la complicità tra i professionisti. I fast thinkers, gli specialisti del pensiero usa-e-getta, vengono detti dai professionisti della televisione 'buoni clienti'. È gente che si può invitare, si sa che se ne staranno tranquilli, che non creeranno difficoltà, non faranno storie, poi è gente che parla in abbondanza, senza problemi. Infine, ultima cosa invisibile: l’inconscio dei presentatori. I giornalisti, con i loro occhiali, pongono domande che non hanno alcun senso, alcuna plausibilità. Molto spesso, quando non si è un minimo preparati, si risponde a domande che non si pongono.
Contraddizioni e tensioni.
La televisione è uno strumento di comunicazione poco autonomo, sul quale pesa tutta una serie di vincoli, dati dai rapporti sociali fra i giornalisti, rapporti di:
§ concorrenza accanita, spietata
§ connivenza, complicità obiettiva, fondata sugli interessi comuni legati alla posizione dei giornalisti nel campo della produzione simbolica e sul fatto che i giornalisti stessi hanno in comune alcune categorie cognitive, di percezione e di valutazione legate alla loro origine sociale, alla loro formazione
Ne segue che quello strumento di comunicazione apparentemente senza freni che è la televisione, in realtà è tenuto a freno. Quando, negli anni 60, la televisione si è presentata come un fenomeno nuovo, un certo numero di sociologi si è precipitato a dire che la televisione, in quanto mezzo di comunicazione di massa, avrebbe operato una massificazione. Si pensava che la televisione dovesse livellare, omogeneizzare poco a poco tutti i telespettatori. In tal modo si sottovalutavano le capacità di resistenza; ma soprattutto la capacità propria della televisione di trasformare coloro che la producono. Il fenomeno più importante, alquanto difficile da prevedere, è l’estensione straordinaria dell’influenza che la televisione esercita sull’insieme delle attività di produzione culturale, scientifica o artistica. Oggi la televisione ha portato all’estremo una contraddizione che minaccia tutti gli universi di produzione culturale: quella fra le condizioni economiche e sociali in cui occorre essere situati per poter produrre un certo tipo di opere, autonome rispetto ai vincoli commerciali, .. da una parte, e, dall’altra, le condizioni sociali di trasmissione dei prodotti ottenuti in queste condizioni; contraddizione fra le condizioni in cui occorre situarsi per poter fare matematica, poesia, .. d’avanguardia e le condizioni in cui occorre essere situati per poter trasmettere queste cose a tutti. La televisione porta all’estremo tale contraddizione nella misura in cui subisce più di tutti gli altri universi di produzione culturale la pressione del commercio, attraverso la mediazione dell’auditel. Contemporaneamente, nel mondo del giornalismo si hanno tensioni fortissime tra:
§ coloro che vorrebbero difendere i valori dell’autonomia, della libertà nei confronti del commercio
§ coloro che si sottomettono alla necessità, ricavandone un tornaconto
Queste tensioni non possono esprimersi liberamente, almeno sugli schermi, perché le condizioni non sono molto favorevoli: penso per esempio all’opposizione tra le grandi figure di grosso richiamo, particolarmente visibili e particolarmente ricompensate, ma anche particolarmente sottomesse, e i mestieranti invisibili dell’informazione, che diventano ogni giorno più critici perché, ogni giorno meglio formati per effetto della logica del mercato del lavoro, vengono adibiti a mansioni sempre più insignificanti. Dietro i microfoni e le telecamere ci sono persone molto più colte dei loro equivalenti degli anni 60; il contrasto fra ciò che è richiesto dalla professione e le aspirazioni che le persone si costruiscono nelle scuole di giornalismo o nelle università è sempre maggiore. Gli individui scoprono sempre più presto le terribili necessità del mestiere e in particolare tutti i vincoli associati all’auditel. Il giornalismo è uno dei mestieri in cui si incontra il maggior numero di persone inquiete, insoddisfatte, ribelli o cinicamente rassegnate, che esprimono con grande frequenza la collera, il disgusto o lo scoraggiamento di fronte alla realtà di un lavoro che si continua a vivere e a rivendicare come 'diverso dagli altri'. Ma si è ben lontani da una situazione in cui questi rifiuti o questo sdegno potrebbero assumere la forma di un’autentica resistenza, individuale e soprattutto collettiva. Per capire tutto ciò, che non si tratta di una denuncia delle responsabilità individuali dei presentatori e dei comunicatori, occorre passare al livello dei meccanismi globali, al livello delle strutture. La televisione è un universo in cui si ha l’impressione che gli agenti sociali, pur assumendo tutte le sembianze della libertà, dell’importanza, dell’autonomia, siano marionette di una necessità che occorre descrivere, di una struttura da individuare a da svelare.
a. il tempo è limitato
b. l’argomento del discorso è imposto
c. c’è sempre un presentatore che richiama all’ordine, in nome della tecnica, del 'pubblico-che-non-ci-capirà-nulla', della morale, delle buone maniere, ..
Ma allora perché, in queste condizioni, tanti accettano di partecipare alle trasmissioni televisive?? È una domanda molto importante, eppure la maggior parte di coloro che accettano di partecipare (ricercatori, scienziati, scrittori, giornalisti) non se la pongono. Credo che, accettando di partecipare senza preoccuparsi troppo di sapere se si potrà dire qualcosa, si lasci molto chiaramente filtrare che non si è lì per dire qualcosa, ma per essere visti; per essere ben visti (cosa che implica una quantità di compromessi). E, non potendo contare troppo sulla propria opera per resistere nella continuità, costoro non hanno altra risorsa se non quella di apparire con la massima frequenza possibile sullo schermo. Ecco perché lo schermo televisivo è divenuto oggi una sorta di specchio di Narciso, un luogo di esibizione narcisistica. Mi piacerebbe molto che costoro affrontassero il problema collettivamente, e che tentassero di avviare un negoziato con i giornalisti, fino a stipulare una sorta di contratto. Non si tratta di condannare i giornalisti, spesso i primi a soffrire delle condizioni che sono costretti ad imporre; si tratta piuttosto di renderli partecipi di una riflessione destinata a trovare i modi di superare in comune le minacce di strumentalizzazione. Il partito preso del rifiuto puro e semplice di esprimersi in televisione mi sembra indifendibile; penso anzi che, in alcuni casi, ci possa essere una sorta di dovere di farlo, sempre che le condizioni siano ragionevoli. E per orientare la scelta occorre tener conto della specificità dello strumento televisivo: con la televisione si ha a che fare con uno strumento che dà la possibilità di raggiungere un po’ tutti. La cosa pone un certo numero di problemi preliminari: quello che ho da dire è destinato a raggiungere tutti?? Sono davvero pronto a fare in modo che il mio discorso, per la forma in cui si presenta, possa essere capito da tutti?? Merita di essere capito da tutti?? Deve essere capito da tutti?? Se gli uomini di scienza hanno una missione, è quella di restituire all’umanità tutte le acquisizioni della ricerca. Vorrei che tutti coloro che sono invitati a comparire in televisione si ponessero queste domande, o che fossero costretti a porsele, perché i telespettatori, i critici televisivi, se le pongono e le pongono a proposito delle loro apparizioni sul piccolo schermo.
Una censura invisibile.
L’accesso alla televisione ha come contropartita una fortissima censura, una perdita di autonomia legata, tra l’altro, al fatto che l’argomento è imposto, che le condizioni della comunicazione sono imposte e soprattutto che la limitazione del tempo impone al discorso vincoli tali da rendere davvero minime le probabilità che qualcosa possa essere detto. Ora, è vero che si dà un controllo politico (esercitato soprattutto attraverso determinate nomine ai vertici), ed è vero anche che, al giorno d’oggi, in un periodo nel quale si ha un intero esercito di riserva e un’enorme precarietà di impiego nelle professioni legate alla televisione, l’inclinazione al conformismo politico è maggiore. Gli individui si adeguano per una forma conscia o inconscia di autocensura, senza che ci sia bisogno di richiamarli all’ordine. Ma si può pensare anche alle censure economiche (chi è il proprietario della rete, chi sono gli sponsor che pagano la pubblicità, lo stato che concede sovvenzioni, ..): è vero infatti che, in ultima analisi, a pesare sulla televisione è soprattutto il vincolo economico. Sono cose talmente grossolane e ovvie che non sfuggono alla critica più elementare, eppure nascondono i meccanismi autonomi, invisibili, attraverso i quali si esercitano le censure di ogni genere e grado che fanno della televisione un fortissimo strumento di rafforzamento dell’ordine simbolico. La denuncia degli scandali dell’uno o dell’altro presentatore, o dei guadagni esorbitanti di certi produttori, contribuisce a distogliere l’attenzione dall’essenziale, nella misura in cui la corruzione delle persone maschera quella sorta di corruzione strutturale che si esercita sull’insieme del gioco attraverso meccanismi quali la concorrenza per le quote di mercato. Vorrei quindi smontare una serie di meccanismi per i quali la televisione esercita una forma particolarmente dannosa di violenza simbolica. La violenza simbolica è una violenza che si esercita con la complicità tacita di coloro che la subiscono e, spesso, anche di coloro che la esercitano, nella misura in cui gli uni e gli altri non sono consapevoli di esercitarla o di subirla. La sociologia può contribuire ad attenuare la violenza simbolica che si esercita nei rapporti di comunicazione mediatica. Cominciamo dal più facile: i fatti di cronaca, che sono sempre stati il materiale privilegiato della stampa scandalistica, alla ricerca del sensazionale; hanno sempre fatto vendere, e il dominio dell’auditel ha riportato alla ribalta, nei titoli dei TG, proprio questi ingredienti, che il timore di decoro imposto dal modello della stampa scritta seria aveva sino a poco fa indotto a relegare ai margini o ad evitare del tutto. Ma i fatti di cronaca sono anche fatti che operano una svolta: una parte dell’azione simbolica della televisione, a livello dei programmi d’informazione, per esempio, consiste nell’attirare l’attenzione su fatti di natura tale da interessare tutti; fatti che non devono turbare nessuno, non sono oggetto di controversia, non dividono, suscitano il consenso, interessano tutti, ma in modo tale da non toccare nulla d’importante. Il fatto di cronaca è una specie di materia prima elementare dell’informazione, una cosa molto importante perché porta via tempo, un tempo che potrebbe essere impiegato per dire altro. Ora, il tempo è una materia prima estremamente rara alla televisione e se si impiegano minuti tanto preziosi per dire cose tanto futili, ciò dipende dal fatto che queste cose tanto futili sono in realtà molto importanti, nella misura in cui nascondono cose preziose. Bisogna ricordare che vi è un gran numero di persone che non leggono alcun quotidiano, che sono legate anima e corpo alla televisione come unica fonte d’informazione: la televisione ha una sorta di monopolio di fatto sulla formazione dei cervelli di una parte consistente della popolazione. Ora, ponendo l’accento sui fatti di cronaca, riempiendo di vuoto questo tempo raro, si occultano le informazioni pertinenti che il cittadino dovrebbe possedere per esercitare i propri diritti democratici. Con questo sistema ci si orienta vero una divisione, in materia d’informazione, tra
' (
coloro che possono leggere i quotidiani coloro che hanno come unico bagaglio politico l’informazione
considerati seri, sempre che questi ultimi fornita dalla televisione, nulla o quasi nulla
restino tali resistendo alla concorrenza
della televisione; coloro che hanno l’opportunità di ricorrere alla stampa internazionale, alle catene radiofoniche in lingua straniera
Nascondere mostrando.
Mostriamo ora come la televisione possa, paradossalmente, occultare mostrando, mostrando altro da ciò che si dovrebbe mostrare se si facesse ciò che si è chiamati a fare, cioè informare; oppure anche mostrando ciò che si deve mostrare, ma in modo da non farlo affatto, o da renderlo insignificante, o costruendolo in modo tale da attribuirgli un senso che non corrisponde in nessun modo alla realtà. I giornalisti hanno 'occhiali speciali' attraverso i quali vedono certe cose e non altre; e vedono in un certo modo le cose che vedono. Operano una selezione e una costruzione di ciò che viene selezionato. Il principio di selezione è la ricerca del sensazionale, dello spettacolare. La televisione invita alla drammatizzazione, nel doppio senso del termine:
§ mette in scena, in immagini, un evento e
§ ne amplifica l’importanza, la gravità, nonché il carattere drammatico, tragico
Lo stesso lavoro si fa sulle parole: con quelle comuni non si può sperare di far colpo sulla gente, per questo occorrono parole straordinarie. In effetti, paradossalmente, il mondo dell’immagine è dominato dalle parole: la foto non è nulla senza la didascalia che dice cosa si deve leggere (e ciò corrisponde spesso a leggende vere e proprie, che fanno vedere ciò che vogliono). Nominare equivale a creare e le parole possono avere effetti catastrofici. I presentatori spesso parlano alla leggera, senza avere la minima idea della difficoltà e della gravità di ciò di cui parlano e delle responsabilità che assumono parlandone, di fronte a migliaia di telespettatori, senza capire e senza capire che non capiscono. Perché queste parole si trasformano in cose, creano fantasmi, paure, fobie o, semplicemente, rappresentazioni false. I giornalisti si interessano dell’eccezionale, ma di ciò che è eccezionale per loro. Ma lo straordinario è anche ciò che non è ordinario in rapporto agli altri giornali. È una necessità terribile: quella imposta dalla corsa allo scoop. Per essere i primi a far vedere qualcosa, si è pronti più o meno a tutto, e siccome ci si copia a vicenda per anticipare gli altri, o per distinguersi da loro, si finisce per fare tutti la stessa cosa: la ricerca dell’esclusiva, che, in altri campi, produce l’originalità, si risolve qui nell’uniformazione e nella banalizzazione. Questa ricerca interessata, accanita, dello straordinario, può avere, al pari delle pressioni direttamente politiche o delle autocensure imposte dal timore dell’esclusione, effetti politici. Avendo a disposizione la forza eccezionale propria dell’immagine televisiva, i giornalisti possono produrre effetti ineguagliabili. I pericoli politici inerenti all’uso ordinario della televisione derivano dal fatto che l’immagine ha questo di specifico: può produrre l’effetto di realtà, può far vedere e far credere a ciò che fa vedere, può far esistere idee o rappresentazioni, ma anche gruppi. I fatti di cronaca possono essere investiti di implicazioni politiche, etiche, .. capaci di suscitare sentimenti forti, spesso negativi, come il razzismo, la xenofobia, l’odio-terrore dello straniero; e la semplice cronaca, il fatto di riferire, implica sempre una costruzione sociale della realtà capace di esercitare effetti sociali di mobilitazione. Ci sono poi momenti in cui i giornalisti, in perfetta buona fede, in tutta ingenuità, lasciandosi trascinare dai loro interessi e dai loro presupposti, possono produrre effetti di realtà e effetti nella realtà, effetti che, pur non essendo voluti da nessuno, possono risultare catastrofici. Così la televisione che pretende di essere uno strumento di registrazione diviene strumento di creazione della realtà. Ci si avvicina sempre più a universi in cui il mondo sociale è descritto-prescritto dalla televisione. Sulla scala degli scambi quotidiani come su quella globale, le lotte politiche mirano ad acquisire la capacità di imporre principi di visione del mondo, occhiali tali che la gente veda il mondo secondo certe visioni. Quanti continuano a credere che sia sufficiente manifestare, senza tener conto della televisione, rischiano di mancare il loro obiettivo: solo riprese e amplificate dalla televisione, le manifestazioni assumeranno la loro piena efficacia.
La circolazione circolare dell’informazione.
Il giornalista è un’entità astratta che non esiste; ad esistere sono piuttosto giornalisti diversi per età, sesso, livello d’istruzione, giornale d’appartenenza, medium, .. Il mondo dei giornalisti è un mondo diviso, traversato da conflitti, concorrenze, ostilità. In ogni caso, i prodotti giornalistici sono molto più omogenei di quanto non si creda. Le differenza più evidenti, legate in particolare alla colorazione politica dei giornali (che si fanno sempre meno coloriti), nascondono somiglianze profonde, legate soprattutto ai vincoli imposti dalle fonti e da tutta una serie di meccanismi, il più importante dei quali rimane la logica della concorrenza. Si dice continuamente che il monopolio produce uniformazione e la concorrenza diversifica. Ma, quando essa si esercita tra giornalisti o giornali sottoposti agli stessi vincoli, la concorrenza produce omogeneità. Così, nei TG delle reti a grande diffusione, cambia, nel meglio o nel peggio, solo l’ordine delle informazioni. Ciò dipende in parte dal fatto che la produzione è collettiva; ma il collettivo di cui i messaggi televisivi sono il prodotto non si riduce al gruppo costituito da una redazione, comprende piuttosto l’insieme dei giornalisti. Diciamo molte meno cose originali di quanto non crediamo. E ciò è particolarmente vero in universi nei quali i vincoli collettivi sono molto forti, quelli della concorrenza soprattutto, nella misura in cui ciascuno dei produttori è indotto a fare cose che non farebbe se gli altri non esistessero (quelle che fa, ad esempio, per arrivare prima degli altri). Per i giornalisti, la lettura dei giornali è un’attività indispensabile e la rassegna stampa uno strumento di lavoro: per sapere cosa dire, occorre sapere cos’hanno detto gli altri: è questo uno dei meccanismi attraverso i quali si genera l’omogeneità dei prodotti proposti. Le piccole differenze, cui, soggettivamente, i diversi giornalisti attribuiscono tanta importanza, mascherano somiglianze enormi. Questa sorta di gioco di specchi che si riflettono a vicenda produce un fortissimo effetto di chiusura mentale. Differenze assolutamente impercettibili per lo spettatore medio, che potrebbe percepirle solo se guardasse contemporaneamente diverse reti, differenze che restano quindi inavvertite, sono molto importanti dal punto di vista dei produttori, i quali pensano che, venendo percepite, contribuiscano al successo in termini di auditel. Le scelte che si operano alla televisione sono in qualche modo scelte senza soggetto: per spiegare questa proposizione riporterò semplicemente gli effetti del meccanismo di circolazione circolare. Il fatto che i giornalisti, i quali peraltro hanno molti elementi comuni, di condizione, ma anche di origine e di formazione, si leggano tra loro, si incontrino continuamente tra loro nei dibattiti, dove si vedono sempre le stesse facce, produce effetti di chiusura e di censura non meno efficaci (anzi, più efficaci ancora, dal momento che il principio riesce meno visibile) di quelli di un intervento politico esplicito. Per rompere il cerchio occorre procedere per rottura, ma la rottura può essere solo mediatica; occorre riuscire a fare un colpo che interessi i media, o almeno uno di essi, perché la concorrenza provvederà a farlo riprendere dagli altri. Se ci si chiedesse come siano informati gli individui che sono incaricati di informarci, si scoprirebbe che, in linea di massima, sono informati da altri informatori. Certo, ci sono le agenzie, le fonti ufficiali, con le quali i giornalisti sono tenuti a mantenere rapporti di scambio molto complessi; ma la parte determinante di quell’informazione sull’informazione che permette di decidere cosa sia importante, deriva in gran parte da altri informatori. E ciò porta ad una sorta di livellamento, di omogeneizzazione delle gerarchie d’importanza. Non dobbiamo rappresentarci l’ambiente giornalistico come omogeneo: ci sono i giovani, i rivoluzionari che lottano disperatamente per introdurre lievi differenze nell’enorme miscuglio omogeneo imposto dal circolo (vizioso) dell’informazione che circola in modo circolare tra persone accomunate dal fatto di essere sottoposte al vincolo degli indici d’ascolto, dove gli stessi dirigenti non sono altro che la difesa dell’auditel. Si ha quindi una conoscenza molto precisa di ciò che passa e di ciò che non passa: questa misura, l’auditel, è divenuta la 'Corte suprema' del giornalista. Oggi la 'mentalità auditel' è presente nelle redazioni, nelle case editrici, .. Tutti pensano in termini di successo commerciale. Anche solo 30 anni fa, il successo commerciale immediato era sospetto: lo si considerava un segno di compromesso con il denaro; oggi invece, sempre di più, il mercato viene considerato una richiesta permessa di consenso. Attraverso l’auditel è la logica del commerciale che si impone alle produzioni culturali. Ora, è importante sapere che, storicamente, tutte le produzioni culturali considerate fra le attività più alte dell’umanità (la matematica, la poesia, la letteratura, la filosofia, ..) si sono messe contro l’equivalente dell’auditel, contro la logica del commercio. Vedere questa mentalità auditel insinuarsi in questi campi è molto preoccupante, poiché ciò rischia di rimettere in discussione le condizioni stesse della produzione di opere che possono sembrare misteriose, perché non vanno incontro alle attese del loro pubblico, ma, ad un certo punto, sono capaci di crearsi un pubblico proprio.
L’urgenza e il fast thinking (= il pensare velocemente).
Sulla televisione, l’auditel esercita un effetto del tutto particolare, ritraducendosi nella pressione dell’urgenza. La concorrenza dei giornali fra loro, quella fra i giornali e la televisione, quella tra le varie reti assume la forma di una concorrenza temporale per lo scoop, per essere i primi. Questa sorta di pressione incrociata che i giornalisti esercitano gli uni sugli altri finisce per generare tutta una serie di conseguenze che si esprimono in scelte, assenze e presenze. La televisione non è molto favorevole all’espressione del pensiero; vi è infatti un nesso, negativo, fra l’urgenza e il pensiero. Nell’urgenza non si può pensare, a meno che si pensi per luoghi comuni. I luoghi comuni sono idee accettate da tutti, banali, comuni; ma sono anche idee che, quando le riceviamo sono già ricevute, cosicché il problema della ricezione non si pone. La comunicazione è istantanea perché, in un certo senso, non è; o è solo apparente. Lo scambio di luoghi comuni è una comunicazione che ha come unico contenuto il fatto stesso della comunicazione. Il pensiero, invece, è sovversivo: deve cominciare con lo smontare i luoghi comuni e, solo in seguito, deve dimostrare, attraverso una concatenazione di ragionamenti e di riflessioni. Se la televisione privilegia un certo numero di fast thinkers (= pensatori veloci) che propongono un fast food culturale, cibo culturale predigerito, prepensato, ciò non dipende solo dal fatto (anch’esso peraltro determinato dalla sottomissione all’urgenza) che i responsabili dei programmi hanno un’agenda con un certo numero di indirizzi, sempre gli stessi; vi sono locutori obbligati che escludono dal cercare qualcuno che possa avere veramente qualcosa da dire, cioè, spesso, giovani ancora sconosciuti, presi dalle loro ricerche, poco disposti a frequentare i media; e poi bisognerebbe andarli a cercare, mentre sottomano, sempre disponibili e pronti a scodellare il loro pezzo o a rilasciare la loro dichiarazione, ci sono i soliti noti.
Dibattiti veramente falsi o falsamente veri.
I dibattiti possono essere divisi in dibattiti veramente falsi e dibattiti falsamente veri. I primi si riconoscono subito come tali: coloro che si presentano in questi dibattiti sono tutti compari, sono persone che si conoscono fra loro. L’universo degli invitati permanenti è infatti un mondo chiuso di interconoscenze che funziona in una logica di autorafforzamento permanente. Viene da chiedersi: il pubblico è consapevole di questa complicità?? Non del tutto. La gente sente che c’è qualcosa, ma non vede sino a che punto questo mondo è chiuso, bloccato su se stesso, quindi estraneo ai suoi problemi, alla sua stessa esistenza. Ci sono poi anche dibattiti apparentemente veri. Essi hanno tutte le apparenze del dibattito democratico, e per poter ragionare a maggior ragione. Ora, se si guarda da vicino a come si svolgono questi dibattiti (procedendo dal più visibile al più nascosto), si scopre una serie di operazioni di censura. Primo livello: il ruolo del presentatore. È lui ad imporre il tema, la problematica; è ancora lui ad imporre il rispetto della regola del gioco, una regola a geometria variabile; è ancora lui che assegna la parola, distribuisce i segni d’importanza. E fa tutto ciò con la parola, ma similmente anche con tutti i livelli d’espressione del linguaggio non verbale (sguardi, silenzi, gesti, mimica, movimenti oculari, intonazione, ..); e questo è inevitabile, in quanto nessuno, neppure chi ha il maggior controllo su se stesso, riesce a padroneggiare tutti questi aspetti. Altra strategia del presentatore: manipolare l’urgenza. Il presentatore si serve del tempo, dell’urgenza, per togliere la parola, per far fretta, per interrompere. E qui ha un’altra risorsa, quella di farsi portavoce del pubblico ('scusi se la interrompo, ma non capisco cosa intenda dire'). Con questo non vuol far capire che è stupido, lascia soltanto intendere che lo spettatore di base, stupido per definizione, non capirà. In realtà, invece, le persone cui richiama per svolgere il proprio ruolo di censore sono spesso quelle più innervosite dalle interruzioni. Ciò pone un problema molto grave dal punto di vista della democrazia: è chiaro che non tutti i locutori sono uguali negli studi televisivi. Ci sono i professionisti della scena e della parola e, di fronte a loro, i dilettanti: è una cosa di una disegualianza straordinaria. E per ristabilire un minimo di eguaglianza, il presentatore dovrebbe usare una certa parzialità, dovrebbe cioè assistere i più sfavoriti nella situazione considerata. Quando si vuole che un non professionista della parola riesca a dire delle cose (e spesso finirà per dirne di assolutamente straordinarie, cose che quanti parlano dalla mattina alla sera non possono nemmeno pensare), occorre fare un lavoro di assistenza alla parola. Essa consiste nel mettersi al servizio di qualcuno la cui parola è importante, di cui si vuol sapere quel che ha da dire, quel che pensa, aiutandolo a 'partorire'. Ora, non è certo questo che fanno i presentatori: non soltanto non aiutano i meno favoriti, ma li distruggono. In cento modi diversi: non dando loro la parola al momento giusto, concedendogliela quando non se l’aspettano più, manifestando la propria impazienza, .. Ma con tutto questo siamo ancora al livello superficiale, fenomenico. Passiamo al secondo livello: la componente del set (= luogo delle riprese), gli invitati. È un aspetto fondamentale del lavoro di manipolazione; è un lavoro invisibile di cui il set stesso è il risultato (nessun telespettatore infatti dirà: 'ma guarda, non c’è il tale'). La composizione degli invitati è importante perché deve dare l’immagine di un equilibrio democratico: si esibisce l’eguaglianza e il presentatore di offre come un arbitro. Altro fattore invisibile, ma assolutamente determinante: il sistema montato in precedenza, attraverso conversazioni preparatorie con i partecipanti previsti, e che può portare ad una sorta di copione, più o meno rigido, cui gli invitati devono adeguarsi. In questo copione previsto in anticipo, non viene lasciato praticamente alcuno spazio all’improvvisazione, alla parola libera, senza freni, troppo rischiosa, se non pericolosa, per il presentatore e per la sua trasmissione. Altra proprietà invisibile è la logica stessa del gioco linguistico: la partita che ci si accinge a giocare ha regole tacite, secondo cui certe cose possono essere dette e altre no. Primo presupposto implicito di questo gioco linguistico: il dibattito democratico pensato secondo il modello wrestling: dev’esserci uno scontro, il buono, il bruto .. E, contemporaneamente, non tutti i colpi sono permessi; i colpi devono calarsi nella logica del linguaggio formale, colto. Altra proprietà ancora: la complicità tra i professionisti. I fast thinkers, gli specialisti del pensiero usa-e-getta, vengono detti dai professionisti della televisione 'buoni clienti'. È gente che si può invitare, si sa che se ne staranno tranquilli, che non creeranno difficoltà, non faranno storie, poi è gente che parla in abbondanza, senza problemi. Infine, ultima cosa invisibile: l’inconscio dei presentatori. I giornalisti, con i loro occhiali, pongono domande che non hanno alcun senso, alcuna plausibilità. Molto spesso, quando non si è un minimo preparati, si risponde a domande che non si pongono.
Contraddizioni e tensioni.
La televisione è uno strumento di comunicazione poco autonomo, sul quale pesa tutta una serie di vincoli, dati dai rapporti sociali fra i giornalisti, rapporti di:
§ concorrenza accanita, spietata
§ connivenza, complicità obiettiva, fondata sugli interessi comuni legati alla posizione dei giornalisti nel campo della produzione simbolica e sul fatto che i giornalisti stessi hanno in comune alcune categorie cognitive, di percezione e di valutazione legate alla loro origine sociale, alla loro formazione
Ne segue che quello strumento di comunicazione apparentemente senza freni che è la televisione, in realtà è tenuto a freno. Quando, negli anni 60, la televisione si è presentata come un fenomeno nuovo, un certo numero di sociologi si è precipitato a dire che la televisione, in quanto mezzo di comunicazione di massa, avrebbe operato una massificazione. Si pensava che la televisione dovesse livellare, omogeneizzare poco a poco tutti i telespettatori. In tal modo si sottovalutavano le capacità di resistenza; ma soprattutto la capacità propria della televisione di trasformare coloro che la producono. Il fenomeno più importante, alquanto difficile da prevedere, è l’estensione straordinaria dell’influenza che la televisione esercita sull’insieme delle attività di produzione culturale, scientifica o artistica. Oggi la televisione ha portato all’estremo una contraddizione che minaccia tutti gli universi di produzione culturale: quella fra le condizioni economiche e sociali in cui occorre essere situati per poter produrre un certo tipo di opere, autonome rispetto ai vincoli commerciali, .. da una parte, e, dall’altra, le condizioni sociali di trasmissione dei prodotti ottenuti in queste condizioni; contraddizione fra le condizioni in cui occorre situarsi per poter fare matematica, poesia, .. d’avanguardia e le condizioni in cui occorre essere situati per poter trasmettere queste cose a tutti. La televisione porta all’estremo tale contraddizione nella misura in cui subisce più di tutti gli altri universi di produzione culturale la pressione del commercio, attraverso la mediazione dell’auditel. Contemporaneamente, nel mondo del giornalismo si hanno tensioni fortissime tra:
§ coloro che vorrebbero difendere i valori dell’autonomia, della libertà nei confronti del commercio
§ coloro che si sottomettono alla necessità, ricavandone un tornaconto
Queste tensioni non possono esprimersi liberamente, almeno sugli schermi, perché le condizioni non sono molto favorevoli: penso per esempio all’opposizione tra le grandi figure di grosso richiamo, particolarmente visibili e particolarmente ricompensate, ma anche particolarmente sottomesse, e i mestieranti invisibili dell’informazione, che diventano ogni giorno più critici perché, ogni giorno meglio formati per effetto della logica del mercato del lavoro, vengono adibiti a mansioni sempre più insignificanti. Dietro i microfoni e le telecamere ci sono persone molto più colte dei loro equivalenti degli anni 60; il contrasto fra ciò che è richiesto dalla professione e le aspirazioni che le persone si costruiscono nelle scuole di giornalismo o nelle università è sempre maggiore. Gli individui scoprono sempre più presto le terribili necessità del mestiere e in particolare tutti i vincoli associati all’auditel. Il giornalismo è uno dei mestieri in cui si incontra il maggior numero di persone inquiete, insoddisfatte, ribelli o cinicamente rassegnate, che esprimono con grande frequenza la collera, il disgusto o lo scoraggiamento di fronte alla realtà di un lavoro che si continua a vivere e a rivendicare come 'diverso dagli altri'. Ma si è ben lontani da una situazione in cui questi rifiuti o questo sdegno potrebbero assumere la forma di un’autentica resistenza, individuale e soprattutto collettiva. Per capire tutto ciò, che non si tratta di una denuncia delle responsabilità individuali dei presentatori e dei comunicatori, occorre passare al livello dei meccanismi globali, al livello delle strutture. La televisione è un universo in cui si ha l’impressione che gli agenti sociali, pur assumendo tutte le sembianze della libertà, dell’importanza, dell’autonomia, siano marionette di una necessità che occorre descrivere, di una struttura da individuare a da svelare.
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