IL FOTOMONTAGGIO - Il «Saviano morto» occupa le prime due pagine del mensile, una posizione forte, di gran rilievo, che sembra assumere la valenza di un editoriale. L’immagine reca anche il titolo in neretto «Hanno ammazzato Saviano» ed un piccolo testo esplicativo, in un ensemble che ricorda tante morti tristemente celebri, non ultima quella di Pier Paolo Pasolini sul litorale di Ostia. La rielaborazione è frutto di un ricco lavoro di Photoshop di Gian Paolo Tomasi, uno specialista nel settore e vuole essere in tutto e per tutto una provocazione, come dichiara il direttore di Max, Andrea Rossi. Il periodico ha una certa esperienza in fatto di provocazioni: nello scorso inverno pubblicò infatti l’intervista che costò a Morgan la partecipazione al Festival di Sanremo.
UN'IDEA PER DIFENDERE SAVIANO - L’idea del fotomontaggio è nata dai continui attacchi subiti dallo scrittore napoletano, spiega Rossi: «Non ce l’abbiamo fatta più a sentir gente attaccare Saviano. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le dichiarazioni di Marco Borriello. A quel punto ci siamo detti basta». L’attaccante del Milan aveva dichiarato lo scorso giugno al mensile GQ che Saviano aveva lucrato sulla città di Napoli, esaltandone esclusivamente il lato negativo. Dopo qualche giorno, però, Borriello aveva corretto il tiro, tentando di smussare la durezza di quanto ave va detto.
IL PROBLEMA E’ LA CAMORRA O SAVIANO? - Ma non sono solo i commenti del calciatore ad aver mosso la sensibilità della redazione di Max, come spiega ancora Rossi: «In questi mesi è stato un continuo: Emilio Fede, Berlusconi, che di Saviano è anche l’editore. Ma insomma, qual è il problema, la camorra o Saviano che la combatte? Mi pare che il gioco che si profila sia quello della delegittimazione: svalutate ciò che dice per isolarlo, poi se arriva quello che lo fa fuori».Saviano, però, non è stato avvertito della particolare immagine che lo vede protagonista, anche se, come aggiunge Rossi, probabilmente è già al corrente della loro idea: «Abbiamo preparato l’immagine senza parlargliene. Dopo l’ha sicuramente saputo, tramite il quotidiano per cui scrive e il suo agente. Finora, comunque, non mi ha telefonato. Davvero non so come l’abbia presa». L’unica cosa che manca, in questa terribile ipotetica fotografia, sono i nomi dei mandanti, anche se Andrea Rossi non ha dubbi nemmeno su quest’argomento «Possono immaginarseli tutti».
LO SCRITTORE: «FOTO DI CATTIVO GUSTO» - Al corrente della notizia, Roberto saviano non l'ha presa proprio bene: «Trovo il fotomontaggio che mi rappresenta morto in obitorio di cattivo gusto. Un'immagine - ha detto lo scrittore - utilizzata per speculare cinicamente sulla condizione di chi come me in Italia e all'estero vive protetto. Un'immagine profondamente irrispettosa per tutti coloro che per diversi motivi, spesso lontano dai riflettori, rischiano la vita. Tutta questa pressione sulla mia morte, poi, lascia sgomento me e la mia famiglia. Ad ogni modo rassicuro tutti: non ho alcuna intenzione di morire». Il prossimo numero di Max pubblica in apertura una grande immagine di Roberto Saviano cadavere, steso su una barella da obitorio, con tanto di cartellino di identificazione legato all'alluce, ripreso di scorcio dai piedi. La figura evoca il Cristo morto del Mantegna e il celebre scatto sul Che Guevara ucciso. Un titolo a caratteri cubitali recita: "Hanno ammazzato Saviano". Una piccola didascalia spiega: "Lo vorrebbero così senza vita, ridotto al silenzio. Ha molti nemici: i camorristi, Berlusconi, Fede, Borriello, Daniele Sepe... Ma la sua vita è già una condanna... La sua libertà e la nostra sono le sue parole".
Ma è un'immagine che non avrei voluto vedere. Osceno è, letteralmente, ciò che è, e deve rimanere, fuori scena, lontano dallo sguardo. Come i corpi dei morti, appunto: pietosamente coperti da lenzuoli, quando morti violente occorrono nella pubblica via. Conflitti drammatici intorno alla possibilità di dare una degna sepoltura ai corpi hanno animato tra le pagine più sublimi della letteratura greca: dall'Antigone di Sofocle, al supplice Priamo che si reca da Achille a reclamare il corpo dell'amato figlio Ettore. Il fatto che sempre più i media usino e abusino di immagini violente, non deve farci perdere di vista quello che dovrebbe ancora essere il senso comune della pietas. Tutto questo, sulla pelle di un vivo.
Max rappresenta Roberto Saviano - un uomo di trent'anni, vivo, ma che da quattro vive penosamente sotto scorta, dunque assillato e accompagnato da un'ombra di morte - come se fosse già cadavere.
E qui, davvero, ogni limite, non solo di pietas, ma anche di buonsenso, è andato in pezzi. Questa provocazione diventa un termometro per misurare la febbre dei tempi. Mi vengono in mente le immagini scioccanti di uno dei film più ferocemente provocatòri sui mostri generati dalla società dello spettacolo: il musical All that jazz. Il protagonista, artista celebratissimo - alter ego del regista, Bob Fosse - è in punto di morte, steso sul lettino della camera operatoria mentre cercano di salvargli la vita con un'operazione a cuore aperto, e in montaggio parallelo scorrono le immagini di una asettica riunione di pescecani della produzione teatrale, che calcolano quanto potrebbero guadagnare se la superstar morisse... It's showtime folks! È la sinistra battuta con cui il protagonista, sempre più estenuato, si dà il buongiorno allo specchio.
"L'abbiamo fatto per Roberto", dicono. Per rispondere a chi cerca visibilità attaccandolo, a chi lo delegittima accusandolo di diffamare il Paese. Per ricordare che è prima di tutto un uomo sotto scorta. Minacciato. Privato della libertà e della serenità. Che meriterebbe rispetto. È una provocazione a fin di bene. Per ricordare che si tratta di un uomo in pericolo, ogni giorno.
Ma non basta vedere lo sciame di carabinieri che circonda Saviano ad ogni passo? Le lunghe e complesse operazioni di controllo e bonifica dei teatri, degli auditorium, delle piazze dove può incontrare il pubblico dei suoi lettori? Non bastano le dichiarazioni che Saviano stesso ha consegnato a numerosi articoli, interviste, da ultimo, a un documentario confessione? No, non basta. Il Moloch della comunicazione si abitua a tutto, anche alle reiterate minacce di morte: allora chi è più spregiudicato gioca al rialzo.
Ma in questo gioco - perverso - non si rende affatto un servizio a Roberto Saviano, uomo e scrittore. Si contribuisce infatti a schiacciarlo in un'immagine bidimensionale, un simbolo, un'icona. Si collude con chi lo tratta come un oggetto di marketing o di chiacchiere da salotto. Con chi snatura il senso del suo impegno cercando di trascinarlo nel ruolo di leader in pectore di una sinistra in crisi, a dispetto delle sue reiterate dichiarazioni. Lo si riduce a un ricettacolo di proiezioni, insomma - da adorare, o da abbattere, a seconda. Così, oltre che della libertà, Roberto Saviano viene privato della sua umanità e normalità, un pezzetto per volta. L'immagine, che simula la morte, consuma l'ultimo oltraggio, perché svuota la carne della carne. Lo svuotamento del simulacro è completo. Voilà, il martire è servito.
È un pessimo scherzo all'autore che si muove con fatica per un sentiero sottile e impervio: cercare di utilizzare la sua enorme popolarità e il suo indubbio carisma, per veicolare i contenuti di Gomorra e dei suoi contributi successivi. Iniziare il grande pubblico agli spietati meccanismi di dominio economico della criminalità organizzata, renderlo avvertito sui limiti di un contrasto solo militare alle mafie, o portare in prima pagina la vergogna del voto di scambio nelle regioni del sud, temi d'emergenza, solo per far qualche esempio.
L'immagine del giovane scrittore morto toglierà spazio a ciò che Saviano dice, scrive, ripete, a quelle parole pericolose a cui ha già sacrificato moltissimo. Sarebbe il caso di non renderglielo ancora più difficile.
(di Benedetta Tobagi, tratto da Repubblica)
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