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mercoledì 16 febbraio 2011

Il pensiero politico di Rousseau


Dallo stato di natura alla nascita della disuguaglianza

Prima di prendere in considerazione la nascita di quella che Rousseau chiama la società giusta, la cui genesi è descritta nel celebre Contratto sociale, è forse opportuno prendere in considerazione la situazione originaria dell'uomo; solo a partire dall'analisi dello stato di natura così come è inteso dal filosofo ginevrino sarà possibile rilevare le differenze esistenti non solo tra questo stadio della vicenda umana, ma anche tra il pensiero dei contemporanei di Rousseau rispetto al suo.
Innanzitutto, Rousseau critica esplicitamente l'idea di stato di natura propugnata dai giusnaturalisti: come emerge già nella prefazione al Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1753), non è corretto cercare di conoscere lo stato originario dell'uomo proiettandovi per analogia i vizi, le passioni e gli impulsi all'azione che sono invece propri dell'essere sociale dell'uomo stesso e che quindi non si addicono a definire una situazione in cui l'uomo vive invece isolato e per questo indipendente dai suoi simili. Ciò ha portato a fraintendere anche il motore della genesi dello stato sociale, la quale sembra postulare, da parte degli individui, dei "poteri intellettuali" assolutamente incompatibili con la primitività della situazione in cui tale genesi si collocherebbe.
L'uomo naturale di Rousseau, infatti, vivendo a stretto contatto con la natura stessa e in pressochè totale solitudine, non ha la necessità di programmare la propria esistenza oltre l'immediato presente: non sarebbe in grado, dunque, di compiere quelle supposizioni e quei ragionamenti astratti che stanno alla base del pactum istitutivo dello stato così come esso è prospettato in Hobbes o Locke. Anche il conflitto con i propri simili (il bellum omnium contra omnes hobbesiano) è un problema estraneo all'uomo naturale di Rousseau, sia per l'esistenza atomizzata che questi conduce, sia perché non vi sarebbero passioni di predominio a guidare la sua condotta: la spinte fondamentali che il ginevrino crede di scorgere alla base dell'azione degli individui nello stato di natura sono essenzialmente due: l'amore di sé, che solo in un secondo tempo si trasforma in amor proprio, ossia la tendenza all'autoconservazione, e la pietà, ossia la capacità di rifiutare moralmente la sofferenza e la morte di ogni essere sensibile e specialmente di altri esseri umani.
Se dunque da un siffatto stato di natura è improbabile che scaturisca una qualsiasi autorità statuale, è necessario che l'uomo progredisca per avere delle ragioni valide per associarsi coi propri simili e costituirsi in Stato.
A differenza degli animali, destinati a non evolversi in quanto a capacità intellettuali e tecnologiche, l'uomo invece è dotato, secondo Rousseau, sia dalla volontà e dalla capacità di scelta, sia della cosiddetta perfectibilité (facoltà di perfezionare se stesso e la propria esistenza); è significativo come il filosofo ginevrino dissenta a questo proposito dalla tesi, largamente diffusa in ambito giusnaturalistico, secondo la quale la cifra distintiva dell'uomo rispetto all'animale risiede nella naturale tendenza alla socialità: Rousseau contesta il semplicismo di questa tesi, così come implicitamente nega, in questo modo, la possibilità di realizzare l'ideale del cosmopolitismo illuminista, il quale implicherebbe una naturale socievolezza da parte dell'uomo.
Quali sono allora le conseguenze della volontà e della perfettibilità dell'uomo? Sono queste due capacità che spingono l'individuo a ricercare e a perseguire sempre maggior benessere attraverso l'attività economica, il lavoro, il progresso in generale. Se da un lato ciò rappresenta un perfezionamento della vita umana, nondimeno tale processo deve essere interpretato anche in negativo: il rovescio della medaglia è rappresentato dalla corruzione delle relazioni sociali, della morale e dello spirito dell'umanità: la proprietà privata, in particolare, crea disuguaglianza e quindi rivalità, invidia, cupidigia e così via. Il conflitto non appartiene dunque alla natura stessa dell'uomo, ma è un prodotto secondario della sua inevitabile uscita dallo stato di natura, nella misura in cui la natura stessa non riesca più a supplire ai bisogni "secondari" dell'uomo in continua progressione.
E' di fronte a questa situazione che appare necessario istituire in patto costitutivo della società e delle leggi che consentano la coesistenza più o meno pacifica delle ambizioni individuali.

Il contratto sociale

La necessità impellente di giungere a una conciliazione tra le diverse parti in conflitto provoca la nascita di una entità statale, che si costituisce sempre a partire da un patto. Quest'ultimo non necessariamente dà luogo a una società giusta, in quanto, scaturito dalla sopraffazione, non sempre rappresenta una soluzione conforme al bene comune.
Viceversa, indipendentemente dalla valutazione morale del patto che si istituisce, è indubbia la cesura storica che esso rappresenta: è a partire da esso che l'uomo esce dal suo stato originario per divenire uomo sociale in tutto e per tutto, dipendente dagli altri e non più dotato di assoluta indipendenza; l'uomo diventa quindi un essere morale, nella misura in cui qualsiasi categoria morale implica il vivere in società: Hobbes sbagliava a considerare gli uomini per natura cattivi, poiché ogni vizio o virtù deve avere un oggetto su cui dirigersi, cosa che non accade nella solitudine dello stato di natura.
Il contratto sociale può scaturire dunque da diverse esigenze, a seconda delle quali la società che costituisce sarà giusta o sostanzialmente iniqua.
* La via cattiva è quella che parte da rivendicazioni inerenti alla componente materiale dell'uomo, prima fra tutte quella della tutela della proprietà privata. Lo stato nascente si fonda sull'egoismo e sulla diseguaglianza: l'iniquità di un sistema simile è palese e difficilmente esso potrà rispondere, sul lungo periodo, al bisogno di sicurezza di uomini trincerati dietro a reciproche ostilità. La libertà che in questo modo verrebbe assicurata al singolo (sempre che non ci si trovi in uno stato assoluto di tipo hobbesiano) è semplicemente quella di godere del proprio patrimonio, è il diritto a un ambito privato nel quale lo Stato non possa interferire: si cerca quindi di ricalcare quell'autonomia che distingueva l'uomo naturale, senza rendersi conto che questi è irrimediabilmente cambiato e trasformato in un essere sociale.
* La via buona è quella descritta da Rousseau nel Contratto Sociale: essa dà luogo a una società giusta, poiché nasce dalla constatazione dell'illibertà che si è venuta a creare col progresso dell'uomo, senza per questo pretendere di ritornare allo stato di natura (la regressione è per Rousseau un fatto non utopico, ma totalmente impossibile). La soluzione prospettata nel Contratto sociale è praticabile anche a partire da una situazione di società iniqua come quella descritta sopra, in quanto non nasce uno stato legittimo dalla rinuncia alla propria libertà così come non può nascere per natura un'autorità cui trasferire i propri diritti in cambio di sicurezza pubblica e privata.

La società giusta

Lo stato prospettato nel Contratto sociale è quello che autenticamente è in grado di restaurare la libertà perduta con l'uscita dalla solitudine naturale; tale libertà, però, non sarà più quella assoluta del primitivo, ma quella relativa dell'uomo inserito in un contesto sociale.
Il patto non risiede dunque nel trasferimento della libertà del singolo a un sovrano esterno: nella società giusta è l'individuo a alienare i propri diritti alla società nel suo insieme, di cui egli stesso fa parte. Ciò equivale alla rinuncia al proprio io particolare a favore di un io comune all'interno del quale la stessa libertà possa trovare esplicazione: in verità l'uomo aderente al contratto sociale è libero proprio perchè non sottoposto all'arbitrio altrui, ma alla volontà generala che egli stesso concorre a formulare e a esprimere attraverso la legge.
L'obbedienza al corpo sovrano non rappresenta quindi una costrizione, in quanto l'individuo non fa che obbedire a se stesso, al suo "io comune".
Allo stesso tempo l'uomo diventa un essere morale, proprio perché entro lo stato sociale ha modo di essere libero e di non subire più la volontà altrui. Affinchè però tutti non debbano obbedire ad altri che a se stessi, è necessario che tutti rinuncino completamente alla propria libertà particolare: l'uguaglianza tra i contraenti che si costituiscono in corpo sociale è, da questo punto di vista, condizione necessaria.
Analogamente, l'uguaglianza tra i membri dello Stato è anche uno dei fini dello Stato stesso: la disuguaglianza è concessa fino a quando nessuno si trovi a dover dipendere da un altro (privato), poiché in tal caso il sottomesso perderebbe la propria libertà, la quale è invece il fine immediato del contratto.
Si può quindi affermare che, sebbene lo stesso Rousseau parta da una posizione che molto deve alla tradizione del contrattualismo moderno, tuttavia il valore che egli assegna al contratto è profondamente diverso; nella misura in cui al contraente non è richiesto di avocare ad altri la propria libertà (pactum subiectionis) ma di obbedire a se stesso riversando il proprio potere individuale sul sovrano di cui egli stesso fa parte.

Il sovrano

L'individuo inserito nella società del Contratto sociale si trova quindi scisso nelle sue componenti principali: da un lato l'io materiale, privato, destinato a essere comandato e per questo conteggiato tra i sudditi; dall'altro l'io comune, spirituale, in grado di vedere l'interesse generale oltre le passioni individuali di cui è invece portatore l'io materiale.
Per questa sua facoltà di comprendere che cosa sia il bene comune, quegli uomini spiritualizzati che sono i cittadini fanno parte del sovrano, ossia di quell'organo deputato a esprimere la volontà generale attraverso leggi valevoli per tutti i membri dello stato.
Tutti sono contemporaneamente sudditi e sovrani, da cui si deduce che, per mantenere questa coincidenza, la sovranità (che ovviamente appartiene al popolo) non può essere né alienata, in quanto in tal caso qualcuno sarebbe solo suddito, perdendo la propria libertà, né divisa, perché allora non risponderebbe più alla volontà generale.
Rousseau nega quindi la possibilità di separare i poteri dello stato: se tutto il potere individuale dei singoli è confluito nel sovrano, e questo non può essere diviso, allora il governo e la magistratura non possono esistere come dipartimenti del sovrano, bensì come sue emanazioni.
Esiste inoltre un'ulteriore impedimento alla definizione del governo quale costola del sovrano: poiché il sovrano esprime il proprio essere prodotto dalla confluenza delle volontà private nell'attività legislativa e tale attività mira sempre al generale, mai al particolare, non può far parte del sovrano il governo che, presiedendo all'applicazione delle leggi sui sudditi, si volge al particolare piuttosto che al generale.

Le leggi

Le leggi, nello Stato di Rousseau, sono emesse dal sovrano in conformità con quella che è definita volontà generale.
Si tratta di un concetto piuttosto complesso, che può essere letto sotto una triplice luce:
* Dal punto di vista logico, la volontà generale si applica sempre a un fine, mentre quella individuale tende a un mezzo; ciò equivale a dire che, mentre la volontà particolare tende a un oggetto particolare e legato alla sfera della materialità, quella generale tende all'universale e per questo meglio si presta ad estrinsecarsi sotto forma di leggi di portata generale. Per questa ragione quando la volontà generale tende a un oggetto particolare (ad esempio all'interesse di un gruppo), essa diventa cattiva e occorre correggerne la rotta. Rousseau è però ottimista da questo punto di vista: all'interno del sovrano la volontà generale è destinata a prevalere per il reciproco elidersi delle volontà particolari opposte.
* Dal punto di vista giusnaturalistico un apparente antenato della volontà generale del filosofo ginevrino si può riscontrare in Hobbes; si tratta però -vale la pena ripeterlo-, di una parentela solo superficiale, in quanto Hobbes concepisce la volontà generale esclusivamente come finzione giuridica: i contraenti del pactum subiectionis avocano la propria volontà a un sovrano esterno, fingendo che le leggi che da quel momento saranno promulgate da quest'ultimo corrispondano alla propria volontà, quando in realtà un contratto simile non può che provocare l'arbitrio del sovrano legibus solutus. Viceversa Rousseau proclama a chiare lettere illegittimo quel regime nel quale il popolo si consegni a un sovrano rinunciando alla propria libertà: in primo luogo perché nessuno può voler cadere in schiavitù di qualcun altro, in secondo luogo perché, anche se costretto a farlo, il suddito non perde quella libertà originaria che gli consente di ribellarsi legittimamente al proprio tiranno. La volontà generale di Rousseau non è una finzione, ma un'entità metafisico-morale.
* Dal punto di vista teologico, la volontà generale coincide con la volontà legislatrice di Dio, analogamente a quanto accadeva all'epoca della teologia fisica, dove era l'ordine gerarchico e meraviglioso del cosmo a manifestare il volere della divinità.
Rousseau chiama volontà generale in senso proprio ed eccellente la volontà del sovrano in uno Stato: egli esclude quindi la possibilità che esista un a volontà generale sovranazionale, che accomuni l'intero genere umano.
Rousseau in un certo senso, dunque, nega la legittimità o almeno la praticabilità dell'ideale cosmopolita illuministico, ma non scade in un nazionalismo vuoto di senso: la sua posizione è anzi assunta per coerenza con le premesse generali della sua opera: la specie umana non può costituire una società e quindi avere una volontà generale, in quanto essa è semplicemente una aggregazione di individui portatori di interessi personali i quali non formano un corpo sociale definibile come sovrano.
Oltretutto, l'illuminismo cosmopolita postulava, alla base dell'aggregazione stessa, una naturale socievolezza degli uomini che, si è visto, Rousseau non scorge nemmeno nel passaggio da stato di natura a stato sociale.
Il problema è ora quello di definire come rintracciare, disciplinare e tradurre in legge la volontà generale.
Vale la pena ripetere che la volontà generale non è la volontà determinata dalla somma delle singole volontà degli individui, ma è la volontà del corpo che li comprende. La differenza tra volontà individuale e generale non è quantitativa ma qualitativa. Ottimisticamente, Rousseau ritiene possibile identificare tale volontà mediante la consultazione diretta di tutti i cittadini (la sovranità non può essere né delegata né alienata), i quali, dal canto loro, saranno dotati di virtù sufficiente a preferire l'interesse dello Stato al proprio.
La volontà generale emergerà grazie all'elisione delle volontà individuali contrastanti ed estranee al bene comune.
L'ideale di società di Rousseau è dunque quello di una comunità piccola, i cui cittadini possano riunirsi tutti contemporaneamente nello stesso luogo (non devono vivere sparpagliati su un territorio troppo vasto); l'attività politica dovrebbe poi essere tanto frequente da abituare il popolo alla sua pratica corretta, cioè a scorgere il bene comune al di là di quanto dettato dagli impulsi materiali dell'io individuale.
La concezione della volontà generale di Rousseau vieta poi l'esistenza di partiti politici o gruppi di pressione ed incanalamento del consenso popolare che si accordino a spese dell'unità: gruppi del genere altererebbero il numero delle volontà individuali rendendo difficile la loro reciproca elisione; fortunatamente ciò si verifica solo quando il corpo dello Stato non è più compatto, cosicchè il cittadino si dimostra o apatico, o incapace di tutelare alcunchè oltre al suo privatissimo interesse.
La volontà generale, quindi, non solo è misticamente connotata come assoluta, inalienabile, indivisibile, infallibile e così via: essa si basa sul presupposto etico che sia la virtù civica a muovere il cittadino, e che tale virtù gli sia stata insegnata dalla convivenza sociale stessa.

Sovrano e magistrato

La volontà generale è una prerogativa del popolo, in quanto esso solo detiene la sovranità. Gli atti del sovrano devono essere solo leggi, aventi cioè oggetto generale: l'applicazione della legge, atto che implica una discesa nel particolare, è compito del governo.
Secondo Rousseau il governo non è un potere, in quanto la sovranità è indivisibile, ma una emanazione del potere detenuto dal popolo sovrano; più precisamente esso è il corpo intermedio che funge da collegamento tra il popolo come sovrano (che promulga le leggi) e il popolo come suddito (che ubbidisce alle leggi).
Il rapporto tra potere legislativo ed esecutivo è spesso posto in relazione con quanto Rousseau sostiene a proposito dell'azione dell'uomo in generale: quest'ultima, infatti, ha sempre due cause: una morale, cioè la volontà, ed una fisica, ossia la forza materiale (puissance). Il governo, appunto, mette in pratica con la propria forza la legge, collegando così i cittadini riuniti del sovrano con i sudditi isolati che eseguono le prescrizioni legislative.
Per questo suo carattere di medium il sovrano non può essere così debole da non avere autorità sui sudditi presi singolarmente, ma non deve nemmeno essere così potente da intervenire sul lavoro dei cittadini come corpo riunito nel sovrano.
La forza del sovrano dipende è inversamente proporzionale alla fatica che deve sostenere per riunire i suoi membri in un corpo; per comprendere questo concetto occorre tener conto del fatto che nella persona del magistrato (membro del governo) convivono tre diverse volontà generalmente in conflitto tra loro:

* La volontà propria dell'individuo, la quale mira al vantaggio privato;
* La volontà di corpo della magistratura, generale in rapporto ai singoli magistrati, ma particolare rispetto a quelle del popolo;
* La volontà generale ed infallibile del sovrano, sempre tesa al bene comune.

In un regime correttamente funzionante, sia la prima che la seconda volontà dovrebbero essere subordinate alla terza.
Tuttavia, la volontà individuale diminuisce con l'aumento del numero di coloro che compongono il corpo di cui l'individuo fa parte. Segue che il governo più forte è quello monarchico, in quanto volontà particolare e di corpo coincidono, mentre quello più debole è quello democratico, dove, partecipando al governo tutti i cittadini, il divario tra volontà particolare e di corpo è il massimo; saranno quindi necessari più sforzi da parte del governo per tenere uniti i suoi membri.
Rousseau specifica però di non entrare qui nel merito della rettitudine del governo, ma solo in quello della sua forza: è evidente, infatti, che il governo di tutti è anche quello in cui volontà popolare e volontà di corpo si avvicinano fino a sovrapporsi.
Il governo ideale dovrà dunque essere esteso il più possibile, per evitare conflitti tra la volontà di corpo e quella generale, ma anche il più possibile concentrato, in modo che le volontà individuali non costringano il governo a un gran dispendio di energie per tenere uniti i suoi membri.
Rousseau individua dunque tre forme di governo a partire dal numero di coloro che, all'interno dello Stato, detengono il governo. La sovranità resta in tutti i casi, almeno a livello teorico, prerogativa inalienabile del corpo civile nella sua totalità: se distinzione ci deve essere tra le forme politiche, essa non può riguardare l'aspetto del legislativo, ma unicamente quello del governo che, come si è già visto, non è una parte dell'unico potere sovrano, ma un'emanazione di quest'ultimo.
Le tre forme di governo individuate da Rousseau sono la democrazia, l'aristocrazia e la monarchia. I limiti tra una e l'altra sono però piuttosto labili, al punto da poter prospettare soluzioni di tipo misto che accorpino gli elementi migliori di ciascuna.
In secondo luogo Rousseau non si dichiara apertamente a favore di una forma piuttosto di un'altra: ciascuna delle tre, infatti, è la migliore se applicata nel contesto sociale e ambientale più adatto. Ad esempio, la democrazia, che implica la possibilità da parte dei cittadini di riunirsi con una certa frequenza, necessita di un territorio non troppo vasto e di un popolamento non rarefatto.
E' opportuno tuttavia analizzare nel dettaglio ciò che Rousseau sostiene a proposito delle singole forme di governo.

Il governo democratico

In un governo democratico il sovrano coincide con il principe, cioè il potere legislativo appartiene al popolo intero esattamente come quello legislativo.
Lo stesso corpo promulga le leggi e ne permette l'applicazione, dirigendo la sua attenzione ora all'universale, ora al particolare. Le stesse persone si trovano coinvolte sia come cittadini dotati di sovranità, sia come magistrati, sia come sudditi obbligati, come individui singoli, a obbedire alle stesse leggi di cui presiedono all'esecuzione.
Un vantaggio innegabile di questo sistema risiede nella necessaria concordia tra intenzioni del legislativo e applicazione della legge stessa, poiché, evidentemente, nessuno interpreta la legge meglio di chi l'ha promulgata.
D'altro canto Rousseau mette le mani in avanti: nella democrazia cose che devono rimanere distinte non lo sono: la volontà legislativa rischia di corrompersi nella misura in cui le medesime persone si occupino contemporaneamente di questioni particolari come membri dell'esecutivo. Il rischio rilevato dal filosofo ginevrino sta nel continuo spostamento dell'attenzione dall'universale della legge al particolare del governo.
Conseguenza immediata sarebbe l'abuso di potere da parte del governo stesso, fatto che porterebbe alla rovina stessa dell'istituzione democratica.
Viceversa, se il governo non abusasse del suo potere all'interno della democrazia, tale governo non avrebbe più ragione d'essere, perché, come sostiene Rousseau,
un popolo che governasse sempre bene, non avrebbe bisogno di essere governato.
Altre obiezioni mosse dal filosofo al regime democratico muovono da ragioni eminentemente pratiche: il legislativo può riunirsi pochi giorni all'anno per emanare le leggi, mentre l'ordinaria amministrazione del governo obbligherebbe i cittadini, che nel regime democratico rousseauiano occupano tutti una magistratura, a restare perennemente riuniti.
Ciò equivarrebbe a distogliere tutti i cittadini dalle loro occupazioni private, in primo luogo dall'attività produttiva necessaria alla sopravvivenza e al benessere dello Stato stesso. La democrazia può esistere dunque solo in quelle società (come la polis greca) in cui tutte le attività materiali siano demandate agli schiavi; lo stesso Rousseau ha però dimostrato l'inammissibilità non solo etica ma anche logica dell'istituto della schiavitù.
D'altro canto, nel caso in cui il governo sia affidato a delle commissioni, la democrazia si trasformerebbe in oligarchia, in quanto il potere esecutivo passerebbe nelle mani del più forte e agile di quei gruppi.
Per quanto riguarda più propriamentele precondizioni necessarie all'istituzione e al mantenimento dello Stato democratico, oltre alla già menzionata scarsa estensione del territorio, Rousseau ricorda anche la conscenza reciproca che deve esistere tra tutti i cittadini, la semplicità dei costumi e, molto rilevante, l'eguaglianza materiale (il lusso è ritenuto fattore incompatibile con la democrazia).
Come Montesquieu, Rousseau indica anche la virtù come una condizione indispensabile per la democrazia, ma proprio per questo è molto scettico circa l'applicabilità della forma democratica agli Stati umani: piuttosto lapidaria a questo proposito è la sentenza, contenuta in chiusura del cap. 4 del libro III del Contratto Sociale:
Se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente. Un governo tanto perfetto non si addice agli uomini.
Questo avviene proprio perché difficilmente l'uomo riesce a avere quelle virtù che Rousseau indica come necessaria alla democrazia; già nel semplice contesto dello Stato generato dal contratto sociale, indipendentemente dalla forma di governo, l'uomo fatica a mettere tra parentesi il suo io individuale in nome del bene comune: a maggior ragione faticherà a farlo laddove ha la possibilità di partecipare direttamente anche all'attività dell'esecutivo.
La democrazia richiede dunque che le qualità umane che Rousseau giudica alla base della creazione dello Stato siano presenti nella cittadinanza elevate all'ennesima potenza. Molto più accessibile è la prospettiva di un governo misto, che recuperi gli aspetti positivi del regime democratico temperandone i difetti.

Il regime aristocratico

In un regime aristocratico ben organizzato è pressochè impossibile che il potere legislativo si corrompa occupandosi di questioni particolari, in quanto l'esecutivo è nettamente separato da esso e dal corpo sovrano.
Il regime aristocratico è, in riferimento al governo, caratterizzato dall'assegnazione a un solo gruppo di cittadini del potere di far eseguire la legge. E' con questo sistema che si organizzarono, secondo Rousseau, le prime aggregazioni politiche umane, essendo naturale l'affidamento del governo ai membri più anziani di una comunità.
A questa prima aristocrazia naturale subentrò in un secondo tempo l'aristocrazia elettiva, conseguenza non solo dell'aumento quantitativo dei membri della comunità stessa, ma anche della disuguaglianza artificiale introdotta dalla maggiore complessità del sistema economico. Infine l'aristocrazia è destinata a divenire ereditaria, per cui la titolarità delle magistrature viene trasmessa di padre in figlio, come se non si trattasse più di qualcosa di totalmente appartenente all'ambito della res publica. Quest'ultima forma di governo è la peggiore delle tre, mentre la seconda è senza dubbio la migliore.
L'aristocrazia elettiva presenta la difficoltà di privilegiare i ricchi e i personaggi più in vista dello Stato, ma tale difficoltà è ampiamente compensata dalla possibilità di scegliere, attraverso l'elezione, coloro che sono dotati delle qualità indispensabili allo svolgimento dell'incarico di governo.
Non è tuttavia garantito che chi detiene il potere (per così dire) esecutivo lo eserciti in vista del bene comune e non per proprio tornaconto personale: l'aristocrazia non è infatti la forma di governo più legittima, ma solo la più funzionale, in quanto esclusivamente nella democrazia si può essere certi della coincidenza -persino eccessiva e per questo caotica- tra interesse del principe (come corpo) e del sovrano. Nell'aristocrazia è viceversa molto incisivo lo spirito di corpo, che porta chi detiene il potere a non volerlo cedere al termine del suo eventualmente temporaneo mandato.
Il rischio che la forza dell'esecutivo sia monopolizzata sempre da uno stesso gruppo è associato da Rousseau a un altro pericolo: il principe che abusi delle proprie prerogative tende inevitabilmente a pretendere per sé anche il potere vero e proprio, quello legislativo, che invece non può essere alienato dal popolo sovrano.
Difficilmente, inoltre, si porrebbe rimedio a questi problemi consigliando a chi governa di appellarsi alla propria coscienza: da acuto osservatore della psiche umana, Rousseau rileva che chi appartiene a un corpo tende a identificare la buona coscienza con quella che coincide con l'interesse dello stesso corpo.
Anche per questo nel Contratto Sociale Rousseau condanna la formazione di società politiche all'interno dell'organismo statale (leghe, corporazioni, partiti); in primo luogo, non c'è alcun bisogno di gruppi siffatti ai fini della canalizzazione del consenso dell'elettorato, in quanto il Contratto Sociale implica il rifiuto di qualsiasi forma di rappresentanza in nome dell'inalienabilità della sovranità.
In secondo luogo, simili compagini politiche esasperano gli egoismi individuali ed aumentano il loro potenziale disgregativo della volontà generale fornendo ad essi una giustificazione morale fittizia, per cui è legittimo ciò che contribuisce al benessere e al mantenimento del gruppo stesso. Oltretutto, queste piccole comunità politiche possiedono al proprio interno una forza coesiva che lo Stato, in quanto di maggiori dimensioni, non ha: l'interesse privato è incrementato a tal punto da questi gruppi da esercitare pressioni inopportune sullo Stato vero e proprio, tanto più che il Contratto originario dovrebbe aver mutato l'uomo al punto da sopprimere in toto la sua esistenza privata (benchè questo fenomeno sia impossibile sul piano pratico).

Il regime monarchico

Nelle monarchie, dove il potere esecutivo è unito all'esercizio della sovranità, il governo non è altro che il sovrano stesso, che agisce per mezzo dei suoi ministri, del suo consiglio, o di corpi assolutamente dipendenti dalla sua volontà.
La definizione che lo stesso Rousseau ci dà di questa terza forma di governo costringe alla distinzione tra la sovranità del monarca (che è illegittima, in quanto solo il popolo è sovrano) e il governo del monarca, che in certi casi può essere persino consigliabile.
E' però raro, nella realtà storica, che il re non detenga anche il potere legislativo: difficile è quindi incontrare delle monarchie legittime, poiché rivendicando per sé la sovranità ogni monarca diventa automaticamente un despota, cioè un detentore del potere al di fuori delle norme costitutive dello Stato.
E' stato rilevato come a questo proposito Rousseau faccia propria la distinzione greca tra despota e tiranno: con questo nome gli antichi indicavano colui che assumeva il potere secondo l'interesse comune, mentre con l'altro era designato chi occupava tale funzione illegittimamente, senza l'avallo del sovrano o addirittura sostituendosi ad esso.
La funzionalità della monarchia risiede interamente nella sua innegabile forza, derivante dall'assenza di attrito ed anzi dalla perfetta coincidenza tra l'interesse del corpo di governo e quello dell'individuo. L'esecutivo è così compatto da non dover disperdere inutilmente le proprie energie per raccogliere i suoi membri, ma nello stesso tempo la volontà di corpo è la più distante da quella generale rispetto a quanto avveniva nelle altre forme di governo prese in considerazione fin qui.
Ai primi due rischi impliciti nella monarchia (la pretesa del principe di essere anche legislatore e la distanza tra volontà legislativa ed esecutiva), Rousseau ne aggiunge un terzo: una monarchia, a suo parere, non può esistere senza molti corpi intermedi, e quindi senza che si creino gruppi privilegiati all'interno dello Stato.
Ciò deriva logicamente dal fatto che, essendo la monarchia adatta ai grandi stati per la sua forza, essa è tuttavia anche il sistema politico nel quale maggiore è la distanza tra governo e sudditi. Occorre dunque una folta schiera di funzionari e burocrati per provvedere all'amministrazione anche a livello locale. L'esperienza storica dell'aristocrazia di toga presente in Francia sin dall'inizio dell'età moderna insegnava a Rousseau che questa esigenza di funzionari sarebbe sfociata nell'istituzione non solo di corpi intermedi, ma di vere e proprie classi sociali intermedie, quando invece la repubblica rousseauiana implica la riduzione della diseguaglianza e l'abbattimento di questi gruppi di pressione, in quanto portatori di interessi privati.
Sempre la storia insegna a Rousseau che in una monarchia particolarmente traumatici sono i momento di successione da un principe al successivo: ciò avviene a maggior ragione quando la monarchia è elettiva (caso assai raro), in quanto la scelta del re può scatenare lotte intestine senza peraltro che sia garantita l'opportunità della scelta stessa.
La monarchia ereditaria rischia d'altro canto di veder salire al trono uomini inetti, deboli o manovrati da reggenti e ministri particolarmente influenti.
Per essere un regime politico auspicabile, occorrerebbe che la monarchia avesse sempre sul trono un buon principe; ciò è evidentemente impossibile, e inoltre difficilmente un re dispotico e malvagio potrebbe essere destituito, mentre viceversa il sovrano come popolo cessa semplicemente di esistere nel momento in cui diviene qualcosa di diverso da ciò che è stabilito nel Contratto Sociale.

L'opzione del governo misto o temperato

Il capitolo del Contratto Sociale sui governi misti, il numero 7 del libro III, si apre con un'affermazione che in apparenza contraddice tutto il precedente ragionamento su democrazia, aristocrazia e monarchia: Rousseau sostiene apertamente l'impossibilità che esistano governi puri, riconducibili in tutto e per tutto alle tre forme prima descritte.
Ne consegue che, sul piano storico, tutti i governi sono in qualche misura temperati.
E' evidente infatti che anche il governo democratico deve avere un capo che ne coordini l'attività, così come il monarca ha bisogno di ministri per controllare il territorio che, almeno sulla carta, dovrebbe governare da solo.
In senso più specifico, tuttavia, il temperamento del governo avviene sostanzialmente a partire dall'esecutivo.
Per limitarne la forza rispetto all'unico vero potere (quello del popolo sovrano), Rousseau non propone la divisione dei poteri propugnata dai liberali, in quanto la sovranità è indivisibile, bensì lancia la proposta di una divisione del solo poter (in senso improprio) esecutivo.
In tal modo il governo avrebbe nei confronti dei sudditi la medesima autorità di prima, ma non potrebbe più minacciare l'autonomia del sovrano o addirittura sostituirsi ad esso. Questo avviene anche quando il governo sia esplicitamente vincolato alla legge emessa dal sovrano.
La costituzione di magistrature intermedie contribuirebbe quindi a indebolire il potere monarchico o aristocratico, lasciando intatta la sua autorità sui sudditi, così come lo stesso procedimento gioverebbe alla democrazia, consentendo al governo di rafforzarsi attraverso un processo di ricompattazione.
Le magistrature di cui però Rousseau parla in questa sede vanno distinte dai corpi intermedi menzionati a proposito della monarchia: mentre in quel caso si trattava di quadri burocratici, semplice emanazione del principe, in questo frangente i magistrati partecipano dello stesso potere esecutivo e della sua forza: non sono più dunque strumenti del governo, ma parti di esso espletanti diverse funzioni.

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