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lunedì 31 maggio 2010

La WIR Bank

Nel 1934 venne fondato, da un gruppo di 16 imprenditori simpatizzanti del sistema della moneta libera da interesse, il circuito economico WIR, tutt’oggi operativo, con sede a Basilea. WIR, in tedesco è sia l’inizio della parola economia – Wirschaft – sia il pronome della prima persona plurale “noi”.

A quei tempi, il sistema economico soffriva di una crisi di liquidità innescata dalle politiche della Fed. A fronte di questa situazione, questi imprenditori, decisero di fondare una banca “cooperativa” con la quale poter sopperire a queste problematiche. L’idea di fondo era quella di creare economia e circuito basato su una moneta alternativa, denominata Wir, che assolve alla funzione di numerario. Le imprese che partecipavano a questo circuito, erano tutte piccole e medie, e accettavano come pagamento questa moneta. Questa tipologia di imprese è quella che trova maggiori difficoltà a reperire liquidità da parte delle imprese finanziarie, soprattutto in situazioni di crisi.
Il credito viene riconosciuto alle imprese, da parte dell’ufficio centrale a fronte di una ricchezza reale, rappresentata dalla capacità produttiva dei soci, e non era gravato da interesse. Questo credito, veniva fatto circolare all’interno del circuito, e utilizzato come mezzo di pagamento.

Si tratta di una rete di scambio dove tutte la transazioni vengono sia addebitate che accreditate dall’ufficio centrale, e non sono consentiti prelievi di liquidità dai depositi. L’organizzazione è strutturata come una banca, ed è oggi unabanca; ha la sua sede a Basilea e sette uffici regionali sparsi in tutta la Svizzera, con un organico complessivo di 110 dipendenti. I pagamenti vengono effettuati in forme non diverse da quelle di normali assegni bancari, con carte di credito e moduli bancari.
Nel 1990 la banca WIR aveva circa 53.730 membri, 16.788 conti ufficiali e un fatturato semestrale di circa 800 milioni di WIR, appunto il nome della unità di pagamento. Il valore di questa unità è parificato al franco svizzero, quindi 1 WIR = 1 CH.

Ad oggi la banca movimenta circa 3 bilioni di WIR (non convertibili ma equivalenti ai franchi svizzeri) e raggruppa un quarto delle piccole e medie imprese svizzere (circa 82.000 imprese con al massimo 200 dipendenti). E’ diventata una banca in tutto e per tutto, dal 2000 ha aperto i propri battenti anche ai clienti privati, con i quali instaura un rapporto per nulla diverso rispetto alle altre banche commerciali. Per quanto concerne le modalità di finanziamento, la banca WIR reperisce la liquidità necessaria attraverso costi di gestione mensili, trimestrali ed annuali. I costi variano a seconda del tipo di conto aperto presso la stessa. La sua vocazione di banca nata per aiutare e proteggere il circuito economico delle piccole imprese, rimane ancora vivo. Per aiutarle a scambiarsi beni e servizi, viene pubblicato un bollettino mensile e tre cataloghi all’anno ed offre una piattaforma internet dove è possibile mettere in contatto la domanda con l’offerta.

La Banca WIR si è sviluppata, rimanendo fedele a molti dei principi che ne motivarono la nascita il secolo scorso. Oggi la Banca WIR fa pagare interessi molto bassi sui prestiti e non paga alcun interesse sui depositi. Il WIR rimane quindi un sistema per natura non cumulativo e/o speculativo, fondato sulla circolazione del credito. Nonostante sia gravato da interesse, si parla di tassi dall’1 al 4% al massimo, dove in media (per la tipologia di credito concesso), il tasso è all’1.75%. La banca ha come scopo quello di facilitare un circuito di scambi “protetto” con basso costo del capitale.

Le donne lo stress e le sigarette. Ragazze schiave.

PIANETA TERRA - Le ragazzine fumano perché lo fanno gli amici uscendo da scuola, ma anche da sole, per stress e per rabbia. Sono le baby-fumatrici che paiono affezionarsi alla sigaretta come e più dei loro coetanei maschi e che, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), insieme alle loro madri sono «uno dei target principali dell’industria del tabacco, che necessita di reclutare nuovi consumatori "carne fresca", per rimpiazzare la quasi metà di quelli attuali che morirà prematuramente a causa di malattie correlate al fumo». E proprio a donne e mercato dei prodotti da fumo è dedicata l’edizione 2010 della Giornata mondiale senza tabacco del prossimo 31 maggio.

MARKETING «ROSA» - Attualmente nel mondo sono donne 20 fumatori su cento (200 milioni circa), ma in diversi Paesi il tabagismo femminile è in crescita (in Italia la prevalenza di fumatrici è triplicata dagli anni ’50 ad oggi, che si assesta intorno al 20 per cento). Inoltre, secondo il recente rapporto Oms « Women and health: today's evidence, tomorrow's agenda » le pubblicità di sigarette puntano sempre più alle ragazze, che anche in Italia rischiano di «abboccare» in massa.

LA SIGARETTA? UN’ABITUDINE PER UNA SU 5 - Se un ragazzo su tre afferma di fumare e uno su cinque si definisce un fumatore regolare, fra le ragazze proprio la regolarità sembra più diffusa (22,3 per cento) e aumenta con l’età passando dal 9,3 per cento dei 14enni fino al 33,3 per cento dei 18enni. Questo evidenzia una ricerca condotta dall’Istituto AstraRicerche sui ragazzi delle scuole superiori milanesi e promossa dalla Fondazione Veronesi e dall’Assessorato alla Salute del Comune di Milano. Proprio al capoluogo lombardo spetta il deludente primato di città con il più alto numero di giovani fumatrici tra i 15 e i 19 anni.

SI FUMA ANCHE PER RABBIA - Le sigarette fumate sono in media otto al giorno, soprattutto con gli amici al termine delle lezioni (77,2 per cento), ma anche da soli (52,2 per cento). Ma se il 68,4 per cento dei giovani afferma di avere iniziato per la compagnia, il 59,9 per cento indica anche lo stress e il 57,3 per cento la rabbia.

FUMATRICI, IDENTIKIT DIFFICILE - «Probabilmente le donne, adulte e ragazze, stanno entrando oggi in una fase di abitudine al fumo che gli uomini hanno toccato anni fa» ipotizza Laura Carrozzi, pneumologa dell'Ambulatorio per la Cessazione del Fumo dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana che, con il collega Francesco Pistelli e con la psichiatra Fiammetta Cosci, risponde alle domande degli utenti sul forum Stop al fumo. Ma esiste un identikit della dipendenza femminile dal tabacco? «Si sa ancora poco, si parla di una maggiore fragilità delle donne legata a caratteristiche genetiche e ormonali. Sono dati interessanti, ma mancano conferme – risponde Laura Carrozzi -. E non è che le donne smettano più facilmente degli uomini di fumare. Certamente, dal punto di vista sociale e psicologico, le donne hanno più responsabilità, si sentono un esempio per i figli, e per loro possono più facilmente pensare di abbandonare la sigaretta. Anche se resta un dato grave che il 10 per cento delle fumatrici in attesa di un bimbo non smette».

LA SIGARETTA SI PAGA, ECCOME - E quelle teenager con la sigaretta fra le dita alle 7.30 di mattina fuori del liceo? «Le ragazze, e gli adolescenti in genere, sono una tipologia di fumatori complessa. A loro va ricordato quello che mettono sul piatto della bilancia: si perde l’autonomia, dato che la dipendenza dal fumo di sigaretta è una schiavitù come quella da altre droghe, calano le prestazioni fisiche, si rovinano la pelle e i denti, si compromette anche la futura possibilità di procreare: tutte le cose meravigliose della loro età e degli anni a venire»

Anche a New York City prima hanno vietato di fumare nelle strade ma nella cittadina californiana di Calabasas, nei pressi di Los Angeles, hanno deciso che non era sufficiente: ora il divieto si estende anche agli appartamenti privati. Diventa così la città più severa in assoluto in materia di lotta contro il tabacco negli Stati Uniti. Prima del nuovo provvedimento, che entrerà in vigore nelle prossime settimane, Calabasas aveva già proibito il fumo del tabacco all'aperto, con l'eccezione di una piccola area riservata ai fumatori nel parcheggio del principale centro commerciale locale. La legge in questione prevede di proibire il fumo negli appartamenti esistenti (ma non nelle ville), fatta eccezione di quelli abitati da fumatori, fino al momento del trasloco.

Io sono sempre stato contrario non per tutti questi motivi elencati man mano nell'articolo, ma solo per uno, perchè il fumo emana un odore sgradevole. Diciamola tutta mi fa "puzza". Quindi da sempre sono un sostenitore del VIETATO FUMARE almeno in presenza di persone non fumatori. Poi ognuno nei suoi spazi può essere libero di muoversi secondo la sua coscienza. Lo dico ai maschietti che leggono questo articolo date più sicurezza in amore e sensibilità alle vostre donne, non lasciate tutto al caso nel vostro rapporto intimo, anche quello che dura da una vita. Non è bello la monotonia e lasciate che ci sia più dialogo anche nel chiederle "in mia presenza non fumare" dicendole implicitamente mi raccomando "se non fumi ti ricopro di baci bacini per la durata della tua sigaretta, che puzza". Il semplice fatto di lasciarla fumare toglie tempo alla coppia. E poi che brutto baciare dopo averla lasciata fumare un portacenere vivente.

Perchè contro i gay? Il dopo denuncia del pestaggio

Un appello accorato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi affinché venga approvata la legge contro l’omofobia. A lanciarlo è giovane di 22 anni vittima la scorsa settimana (ma la notizia è stata resa nota solo sabato da Arcigay) di un’aggressione omofoba nella “gay street “ della Capitale, a due passi dal Colosseo. Il ragazzo, assalito nei pressi di un locale gay da 4 persone tra i 25 e i 30 anni che lo hanno insultato e preso a calci per poi sparire nel nulla, è stato dimesso sabato mattina dall’ospedale dove era stato ricoverato per le gravi lesioni riportate nel pestaggio. Ora è a casa con i familiari, preferisce non mostrarsi in pubblico (per mantenere la privacy) ma dall’appartamento dei suoi si rivolge al Premier tramite l’Arcigay: "Spero venga approvata la legge contro l’omofobia e mi auguro che le forze dell’ordine risolvano il mio come tutti gli altri casi irrisolti. Come atto di civiltà spero che ci sia una partecipazione attiva al prossimo Gay Pride di Roma del 3 luglio dove sicuramente parteciperò anche io". L’agguato ai danni del 22enne è avvenuto in piena notte. Gli hanno urlato “frocio, frocio” e poi lo hanno colpito ripetutamente con calci e pugni, ha raccontato Fabrizio Marrazzo, presidente di Arcigay Roma. Dopo il pestaggio, manifestazioni di solidarietà al ragazzo sono arrivate da ogni parte. Per mostrare vicinanza al giovane, ieri pomeriggio gli organizzatori del Roma Pride 2010 si sono radunati davanti a Palazzo Montecitorio. Berlusconi ascolti il 22enne. L’Italia può dare un segnale di civiltà ha dichiarato Imma Battaglia, presidente Gay Project. A chiedere l’istituzione di "un numero verde nazionale per le vittime di aggressioni a sfondo omofobico" è stato poi Franco Grillini, presidente di Gaynet. In campo anche Vladimir Luxuria (Ora fatti concreti) e la parlamentare del Pd Paola Concia: "Manca la volontà politica di approvare la legge".

«C'E' BISOGNO DI AZIONI CONCRETE» - «Volevo ringraziare Gay Help Line - dice in una breve dichiarazione diffusa tramite Arcigay - per il sostegno ricevuto e tutte le istituzioni per la solidarietà espressami, però credo ci sia bisogno di azioni concrete e volevo fare un appello al presidente Berlusconi affinché venga approvata la legge contro l’omofobia e nello stesso tempo mi auguro che le forze dell’ordine - aggiunge - risolvano il mio come tutti gli altri casi irrisolti». «Come atto di civiltà - si augura infine - spero che ci sia una partecipazione attiva al prossimo Gay Pride di Roma del 3 luglio dove sicuramente parteciperò anche io».
«IL GRUPPO E' DIMOSTRAZIONE DI VIGLIACCHERIA» - «Tutti i recenti casi di violenza contro gay e trans hanno due fattori comuni: la giovane età e l'agire in gruppo contro una sola persona che dimostra più vigliaccheria che virilità». A dirlo è Vladimir Luxuria, ex parlamentare e leader storico del movimento gay. «Purtroppo - sottolinea - la promessa del ministro delle Pari opportunità di presentare una proposta di legge a marzo sull'omofobia è ancora disattesa e mi auguro che alle chiacchiere inutili di solidarietà seguano presto fatti concreti che facciano sentire meno impunito il crescente popolo di omofobi».

giovedì 27 maggio 2010

Amnesty International accusa l'Italia per tortura e respingimenti degli immigrati

L'Italia ha ricevuto circa 90 raccomandazioni per la violazione dei diritti degli immigrati, dei rifugiati e dei richiedenti asilo. E a gennaio il Gruppo di lavoro della Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha criticato il nostro Paese per i centri di identificazione ed espulsioni. Lo ricorda Amnesty international, che ha presentato il rapporto annuale sulla «Situazione dei diritti umani nel mondo», dal quale «viene fuori è un Paese pieno di lacune».

L'IMMIGRAZIONE - L'introduzione del reato di immigrazione clandestina, si legge nel rapporto, «potrebbe dissuadere gli immigrati irregolari dal denunciare i reati subiti e ostacolare il loro accesso a istruzione, cure mediche e altri servizi pubblici per il timore di denunce». Inoltre «gli sforzi da parte delle autorità per controllare l'immigrazione hanno messo a repentaglio i diritti di migranti e richiedenti asilo». «A noi - nota la responsabile dello studio per la parte italiana, Giusy D'Alonzo - non sembra che l'insicurezza nella vita degli immigrati abbia portato maggiore sicurezza per gli italiani», mentre il risultato più evidente è che i richiedenti asilo sono calati dai 31 mila nel 2008 ai 17 mila del 2009. Ma la violazione dei diritti degli stranieri non è limitata all'Italia, Amnesty parla di «esplosione di xenofobia e razzismo» in tutta Europa. Il nostro Paese, però, stando al rapporto, «ha continuato ad espellere persone verso luoghi in cui erano a rischio di violazioni di diritti umani» - ovvero la Libia - «senza valutare le loro necessità di asilo e protezione internazionale. I governi italiano e maltese in disaccordo sui rispettivi obblighi di condurre operazioni di salvataggio in mare, hanno lasciato i migranti per giorni senza acqua e cibo, ponendo a grave rischio le loro vite».

LA REPLICA DI FRATTINI - I rilievi di Amnesty sulle espulsioni non sono però piaciuti al ministro degli Esteri, Franco Frattini, che definisce il documento come «indegno per il lavoro dei nostri uomini, delle nostre donne e delle forze di polizia che ogni giorno salvano persone». Intervenendo da Caracas, il ministro ha spiegato che «Amnesty ha fatto sempre la sua parte». Tuttavia, «noi come dati e come fatti siamo molto chiari: l'Italia è certamente il Paese europeo che ha salvato più persone in mare. Quindi respingo al mittente questo rapporto perchè la realtà è tutto il contrario di ciò che dice Amnesty».

TORTURA E CASO CUCCHI - L'associazione per i diritti umani punta il dito anche sulla mancanza di norme specifiche contro il reato di tortura, senza il quale sono potenzialmente sempre presenti i rischi di casi come quello del giovane Cucchi. «Sono pervenute frequenti denunce di tortura e altri maltrattamenti commessi da agenti delle forze di polizia, nonchè segnalazioni di decessi avvenuti in carcere in circostanze controverse», dice Amnesty. L'Italia, infatti, ricorda l'ong, «a distanza di 20 anni non ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura», di conseguenza i maltrattamenti commessi da pubblici ufficiali in servizio vengono perseguiti come reati minori. Tra i casi citati anche quello di Emmanuel Bonsu, il ragazzo di origine ghanese, pestato e insultato a Parma e i maltrattamenti inflitti nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001. Amnesty chiede per questo «l'adozione di meccanismi di prevenzione della tortura e dei maltrattamenti», come previsto dal Protocollo della Convenzione, «un'istituzione indipendente di monitoraggio sui luoghi di detenzione» e «un organismo di denuncia degli abusi della polizia» In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha accusato il governo tunisino di trarre in inganno il mondo presentando un'immagine positiva della situazione dei diritti umani nel paese, mentre le sue forze di sicurezza continuano a commettere violazioni con regolarità e impunità. "Il governo dice regolarmente di onorare i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani, ma queste affermazioni sono lontane dalla realtà. È davvero arrivato il momento che le autorità cessino di rispettare i diritti umani solo a parole e adottino misure concrete per porre fine alle violazioni" - ha detto Hassiba Hadj Sahraoui, vice direttrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. "Come primo passo, devono riconoscere i preoccupanti fatti denunciati nel nostro rapporto, impegnarsi ad aprire indagini e portare i responsabili davanti alla giustizia". Il rapporto di Amnesty International, intitolato "In nome della sicurezza: in Tunisia le violazioni sono la regola", denuncia gravi violazioni dei diritti umani commesse nell'ambito delle politiche di sicurezza e antiterrorismo. Nel tentativo di prevenire la formazione di quelle che chiamano "cellule terroriste" all'interno del paese, le autorità si rendono responsabili di arresti e detenzioni di natura arbitraria, in violazione della stessa legge tunisina, di sparizioni forzate di detenuti, torture e altri maltrattamenti e, infine, di condanne emesse al termine di procedimenti iniqui, in cui imputati civili vengono processati da corti marziali che utilizzano elementi di prova scarsamente circostanziati. L'ampia definizione di terrorismo, contenuta nella Legge antiterrorismo, consente alle autorità di criminalizzare legittime e pacifiche attività di opposizione. Sebbene negli ultimi anni siano state adottate alcune riforme per fornire maggiore tutela ai detenuti, le leggi vengono regolarmente aggirate dalle forze di sicurezza e pertanto la protezione dalla tortura, dai processi iniqui e da altre gravi violazioni dei diritti umani risulta inadeguata. Il rapporto di Amnesty International descrive i casi di Ramzi el Aifi, Ousama Abbadi e Mahdi Ben Elhaj Ali, tre coimputati nel cosiddetto processo Soliman. I tre prigionieri hanno riferito ai loro avvocati di essere stati picchiati, legati e presi a calci, il 16 ottobre 2007, per aver intrapreso uno sciopero della fame contro le condizioni di detenzione della prigione di Mornaguia. Il 20 ottobre, l'avvocato di Abbadi ha incontrato il suo cliente: impossibilitato a camminare, era su una sedia a rotelle, con un occhio pesto e una profonda ferita aperta su una gamba. El Aifi ha riferito al suo legale di essere stato legato con una corda, picchiato e sodomizzato con un bastone. Non risulta che i responsabili siano stati puniti né che sia stata avviata alcuna indagine su queste denunce. Ramzi el Aifi e Ousama Abbadi sono stati condannati all'ergastolo, Mahdi Ben Elhaj Ali a 12 anni. In appello, la condanna di Abbadi è stata ridotta a 30 anni, quella di Ali a 8. La maggior parte delle violazioni dei diritti umani viene commessa dalle forze del Dipartimento per la sicurezza dello Stato (Dss), che ricorrono alla tortura in piena impunità. Non indagando sulle denunce di tortura, il Procuratore generale e il suo staff da un lato, i giudici (spesso privi d'indipendenza) dall'altro contribuiscono efficacemente a nascondere i casi di detenzione segreta prolungata, in violazione della stessa legislazione tunisina, così come i casi di tortura, che si verificano in violazione delle norme interne e internazionali. Col silenzio e la mancanza d'iniziativa, questi organismi diventano complici delle violazioni. "Le autorità tunisine hanno l'obbligo di proteggere la popolazione e combattere il terrorismo ma, nel farlo, devono rispettare gli obblighi assunti nei confronti del diritto internazionale dei diritti umani" - ha precisato Hassiba Hadj Sahraoui. "Devono assicurare che tutta la normativa relativa alla lotta al terrorismo non faciliti le violazioni dei diritti umani e che l'operato del Dss e delle altre forze di sicurezza rispetti sempre le norme e gli standard internazionali sui diritti umani". Nonostante questo scenario di violazioni dei diritti umani, governi arabi ed europei, così come quello statunitense, hanno espulso verso la Tunisia persone che ritenevano coinvolte in attività terroristiche. In Tunisia, queste persone hanno subito arresti e detenzioni arbitrari, torture e altri maltrattamenti e processi clamorosamente iniqui. Il rapporto di Amnesty International cita il caso di Houssine Tarkhani, rimpatriato dalla Francia il 3 giugno 2007 e arrestato all'arrivo in Tunisia. Il Dss lo ha tenuto in detenzione segreta per nove giorni, in violazione delle norme internazionali e della stessa legge tunisina, che prevede un periodo massimo di detenzione garde à vue di sei giorni. Tarkhani ha riferito al suo avvocato di essere stato picchiato e bastonato su ogni parte del corpo, sottoposto a scariche elettriche, insultato e minacciato di morte. Quando ha chiesto di leggere il rapporto di polizia, non lo ha ottenuto ed è stato nuovamente picchiato. Durante i nove giorni di detenzione, nessuno dei suoi familiari è stato informato, nonostante ciò sia previsto dalla legge tunisina; ciò è avvenuto solo il 12 giugno, quando Tarkhani è stato portato di fronte al giudice, senza la presenza di un legale. Questi ha potuto incontrare il suo cliente solo il 19 giugno, nella prigione di Mornaguia. La richiesta dell'avvocato di un esame medico sulle torture subite da Tarkhani rimane tuttora senza risposta. "Invece di rimpatriare i cittadini tunisini, che vanno così incontro a torture e processi iniqui, gli altri governi dovrebbero chiedere a quello di Tunisi di adottare provvedimenti concreti per introdurre riforme sui diritti umani" - ha concluso Hassiba Haji Sahraoui.


Vaticano: promuovere il rinnovamento interiore

"La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri", ha detto il Papa ai vescovi riuniti nell'Aula Nuova del Sinodo. "Questa umile e dolorosa ammissione - ha proseguito - non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti".
Secondo il Pontefice, "l'anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un'opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più incisivo impegno evangelico e ministeriale". Nel contempo, ha proseguito, "ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti - sull'esempio del Curato d'Ars - si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità". In questa luce, ha aggiunto il Papa, "ciò che è motivo di scandalo, deve tradursi per noi in richiamo a un 'profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, dall'altra la necessità della giustizià". Ciò che è "motivo di scandalo", deve tradursi per la Chiesa "in richiamo a un 'profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, dall'altra la necessità della giustizià". Lo ha affermato Benedetto XVI parlando ai vescovi italiani riuniti in Vaticano per la loro 61/a assemblea generale e ricordando in parte quanto da lui scritto nella Lettera per l'indizione dell'Anno sacerdotale. Benedetto XVI ha rivolto ai vescovi un appello a "risvegliare nelle nostre comunità quella passione educativa, che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi". "Educare - ha spiegato il Papa - è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio". Soffermandosi sulla scelta della Cei di assumere "l'educazione" quale tema portante per i prossimi dieci anni, Benedetto XVI ha sottolineato le difficoltà del progetto nella situazione attuale, di fronte a "genitori, insegnanti, catechisti e sacerdoti" inclini a volte "ad affievolire l'impegno educativo". "Pur consapevoli del peso di queste difficoltà - ha detto -, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione. Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge". "Il compito educativo, che avete assunto come prioritario - ha aggiunto Ratzinger -, valorizza segni e tradizioni, di cui l'Italia è ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle appartenenze confessionali e delle opzioni ideologiche; la parrocchia, 'fontana del villaggio', luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane". "In ognuno di questi ambiti - ha concluso - resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale".

Debito pubblico di chi è la colpa?

Il dipartimento per gli Affari di bilancio dell'Fmi ha pubblicato un nuovo rapporto che punta ad aiutare i paesi a fronteggiare i previsti problemi di bilancio. Il documento segnala un deterioramento delle prospettive finanziarie per i paesi sviluppati. Tutti o quasi tutti quelli che commenteranno o citeranno questo rapporto probabilmente lo interpreteranno come una storia di prodigalità punita, ma se si allarga lo sguardo la faccenda appare in un'altra luce. Il rapporto ci rivela che la crisi finanziaria ci ha resi stabilmente più poveri e i governi adesso devono stringere la cinghia per compensare le entrate perse.
Il Fondo Monetario Internazionale ci dice non soltanto che i paesi del primo mondo sono fortemente indebitati a causa della crisi, ma (cosa ben più importante) che emergeranno dalla crisi con nuovi, forti deficit strutturali. Sul loro futuro incombono tagli alla spesa e aumenti delle tasse.
La domanda che nessuno fa e a cui nessuno risponde è questa: da dove vengono questi deficit strutturali? Sicuramente non vengono dagli interessi sul debito: il rapporto del Fondo mostra un forte incremento del disavanzo strutturale primario (cioè sottratti gli interessi). È dovuto a incrementi permanenti della spesa pubblica? Non proprio: il rapporto dimostra che anche durante la crisi economica del 2008-2009, gli incrementi di spesa discrezionali hanno rappresentato una causa trascurabile di aumento del deficit. E inoltre, questi incrementi di spesa sono destinati a esaurirsi pian piano quando le nazioni ritireranno le misure di stimolo.
Solo una lettura attenta consente di capire che cosa sta succedendo veramente: «Il persistere di disavanzi riflette un calo permanente delle entrate, dovuto in primo luogo alla forte riduzione del Pil (prodotto interno lordo) potenziale determinata dalla crisi, ma anche all'impatto di una diminuzione dei prezzi delle attività e dei profitti del settore finanziario».
È possibile che una crisi finanziaria deprima a questo modo la crescita economica? Questo è quanto dicono apparentemente le analisi statistiche che accompagnano il rapporto, ma è in contraddizione con i modelli di crescita consueti. Consideriamo tuttavia anche quest'altro punto: se le crisi finanziarie sono veramente tanto dannose, il vero messaggio in questo caso non è una raccomandazione ai governi di rispondere a queste crisi profondendo i massimi sforzi per impedire danni all'economia? Non è un argomento in favore di una politica di bilancio più, non meno aggressiva?
Sono abbastanza certo che un modello dell'Fmi usato nel rapporto, che mostra l'effetto delle recessioni sulla crescita potenziale, implica di fatto che aumentare la spesa pubblica durante una recessione è una mossa che più o meno si ripaga da sola. Una spesa pubblica più alta porta a un incremento della produzione sul breve e sul lungo termine, e l'aumento di entrate che ne risulta compensa verosimilmente i costi iniziali. Non è necessariamente vero, ma è quanto sembra sottintendere il radicato pessimismo del rapporto.
I più non capiranno che la storia che vuole raccontare l'Fmi è questa, e non lo capiranno perché è stata efficacemente celata fra le pieghe del documento. Il rapporto non è fuorviante in senso letterale, ma pochi fra coloro che lo leggeranno giungeranno alla conclusione corretta, e cioè che la vera fonte del debito nei paesi sviluppati non sono le misure di stimolo, ma la recessione, purtroppo.

mercoledì 26 maggio 2010

Occuparsi della demografia del paese significa guardare al Futuro.

Se non fosse per noi giovani venticinquenni che cerchiamo dopo una laurea di indossare i panni di chi pensa " C'è la crisi non è il momento" Se non fosse per noi che "ci chiamano Bamboccioni ma non ci danno le possibilità di lavoro perchè hanno dato quel posto al figlio o al nipote del politico x. Se non ci fosse la Chiesa cattolica a riportarla ciclicamente all’attenzione, sarebbe quasi completamente rimossa dal dibattito politico e culturale (culturale, ahimé, ancor più che politico) quella che è in realtà "il problema dei figli" (che per noi esseri umani umili non è affatto un problema anzi). La questione decisiva per il futuro della società, della cultura e dell’economia italiana: la questione demografica. Connessa a filo doppio a tutti i temi di dibattito riguardanti l’origine, il fine e la manipolazione della vita umana (dei quali non a caso da più parti si tende a sbarazzarsi declassandoli a problemi di scelta “soggettiva” individuale) essa ne rappresenta la sintesi e l’esito finale: un esito che sempre più minaccia di essere disastroso per l’Europa tutta, ma in particolare per il nostro paese.
Papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate dava al tema il grande rilievo che esso merita, ricordando che nessuno sviluppo economico solido e durevole è possibile in una società senza un generale investimento nella vita umana. E pochi giorni fa, il 24 maggio, il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco ha usato in proposito toni molto forti, ricordando che l’Italia si avvia, nell’indifferenza generale, verso un “lento suicidio demografico”.
In realtà, la situazione italiana in materia non può che provocare angoscia in chiunque non sia rimasto ancorato a frusti luoghi comuni ideologici malthusiani e neopositivisti da “Club di Roma”, fondati sull’idea, dimostratasi nella pratica inconfutabilmente falsa (si veda ad esempio la grande crescita dei popolosissimi grandi paesi asiatici, e viceversa la stagnazione della depopolata Europa), che il grande problema dell’economia mondiale sia la sovrappopolazione e che lo sviluppo vada di pari passo con il controllo delle nascite.
All’incirca dalla metà degli anni Settanta – non casualmente da quando nella cultura italiana diffusa hanno saldamente attecchito i miti dell’individualismo edonistico e della “rivoluzione” sessuale, con la diffusione della contraccezione e la legalizzazione del divorzio e dell’aborto – il tasso di fertilità è andato letteralmente a picco, fino ad attestarsi oggi su un plumbeo 1,4 per ogni donna; mentre gli aborti rappresentano circa un quinto dei bambini nati ogni anno. In parole povere, significa che a questo ritmo nel giro di due generazioni la popolazione italiana – cioè la società italiana, la cultura italiana, persino la lingua italiana – si saranno praticamente dimezzati, con la prospettiva di un circolo vizioso ulteriormente negativo nelle successive.
Questa è la nuda e cruda realtà, al di là di eufemismi e infingimenti. In tutto il paese, sempre più tristemente unito sotto questo aspetto, le scuole si vanno man mano svuotando. Nel tempo sempre più si andranno riducendo l’offerta di mano d’opera e l’iniziativa economica, mentre in egual misura aumenterà la percentuale di pensionati da mantenere. Si profila una società sempre più gravata di costi di assistenza e previdenza insostenibili. Stanca, impaurita e sfiduciata, composta di persone sempre più anziane, con sempre meno idee, voglia di inventare, coraggio, capacità di sacrificio e volontà di investire energie in grandi progetti di vita. I sempre più rari figli, spesso cresciuti in famiglie sfasciate e lacerate, circondati dai sensi di colpa, dalle paure e dalle cure asfissianti dei genitori, sono destinati da adulti a divenire persone via via più fragili, meno confidenti nelle proprie capacità, meno disponibili a rendersi autonomi e a rischiare in proprio, più portati a dilapidare le loro risorse in gratificazioni momentanee, anziché a tirare la cinghia per portare avanti una famiglia e tramandare una fiducia nel futuro che non hanno più.
Chi oggi, nonostante tutta la cultura dominante inciti allo sperpero di sé e a vivere soltanto per il presente, si “ostina” ancora ad investire le proprie energie nella famiglia e nei figli viene scoraggiato e punito in ogni modo: dal punto di vista fiscale, sanitario, assistenziale, scolastico.
Nelle discussioni attuali sulla crisi economica italiana nel contesto globale sembra che di tutto si parli, fuorché di questa prospettiva tristemente realistica, e delle proposte per cercare fin che è possibile di scongiurarla. In altri paesi occidentali industrializzati, dove comunque la tendenza alla denatalizzazione appare meno catastrofica che del nostro, per lo meno il problema è stato posto e qualche accenno di politica a favore delle famiglie è stato impostato: sebbene pur sempre inadeguato al “buco nero” che rischia di inghiottire l’intero Occidente.
In Italia invece, per lo più, quando il discorso cade sul tema si rendono da ogni parte omaggi formali alla necessità di intervenire, per poi dimenticarsene immediatamente quando si parla in concreto di provvedimenti di politica economica e di welfare. Nell’area di centro-destra, salvo lodevoli eccezioni, si tende a porre l’accento soprattutto sul tema della pressione fiscale in generale (salvo poi ritenere che non ci siano i margini per ridurla a causa dal deficit) o degli incentivi alla produzione e alla crescita, trascurando di considerare nella dovuta importanza il fatto che sempre più tende a mancare la base umana, biologica e psicologica della crescita stessa. A sinistra, generalmente si liquida il tema sostenendo sconsideratamente che la panacea alla decrescita demografica verrà dall’immigrazione. Senza tener presente che, ammesso pure che gli immigrati in avvenire riempiano tutti i vuoti della popolazione “autoctona” (e tutto lascia intendere che la tendenza non sia questa, visto che la richiesta di cittadinanza italiana da parte di chi ne avrebbe legalmente diritto è molto scarsa), tuttavia in assenza di un baricentro culturale italiano forte, dotato di quella capacità di attrazione ed espansione che solo una società vivace e in crescita può offrire, il territorio italiano non diventerà mai autenticamente la patria dei nuovi arrivati, un fattore di effettiva identità, ma resterà sempre un anonimo luogo di residenza, senza continuità tra passato e futuro.
Se il paese avesse la percezione autentica delle sue priorità politiche, il principale argomento di dibattito politico e di approfondimento sui media sarebbe oggi il modo di evitare questa catastrofe sociale annunciata. Obiettivo forse raggiungibile soltanto drenando massicciamente le pubbliche risorse verso le famiglie già costituite e quelle che si dovrebbero assolutamente incoraggiare a nascere e a stabilizzarsi. Ciò in primo luogo attraverso una profonda revisione fiscale, che passi non soltanto per l’adozione indispensabile del “quoziente familiare” chiesto da tempo a gran voce dalla Chiesa e dalla rete delle associazioni cattoliche, ma anche per una redistribuzione del carico fiscale sui beni di consumo, orientandolo soprattutto ad alleggerire le necessità dei nuclei familiari, e per un potenziamento sensibile delle detrazioni fiscali sugli oneri legati ai figli (baby sitter, scuola, assistenza medica). E, contemporaneamente, attraverso un deciso investimento sulla prevenzione degli aborti, con un monitoraggio a tappeto ed un’assistenza personalizzata nei casi di maternità difficile e a rischio, sul modello dei Centri di aiuto alla vita promossi dalla Chiesa nelle realtà locali: diffondendo il più possibile una percezione sociale positiva e fiduciosa della vita nascente, e attuando finalmente in pieno il dettato della legge 194.
Un complesso di interventi che, se attuati con decisione e costanza, potrebbero forse ancora invertire la tendenza culturale prevalente al rifiuto e alla rinuncia nei confronti dei progetti familiari, e creare i presupposti per “rimettere in moto” la società italiana già da ora, salvo un giorno la società italiana scomparirà.

"La Coop e la pace economica fra Israele e Palestina"

La Coop e la Conad sono state invitate da un gruppo di Ong e associazioni (Attac, Pax Christi, Federazione della Sinistra, Fiom Cgil, Forum Palestina, Un Ponte Per, Ebrei contro l’occupazione, Donne in Nero) a togliere dai loro scaffali le derrate agricole israealiane importate dalla società Agrexco, perché provenienti dai Territori della Giudea e della Samaria. Ne parliamo con Shimonal Alchasov, direttore amministrativo dell'azienda israeliana, convinto che una scelta del genere finirebbe per influenzare negativamente la "pace economica" in Medio Oriente.

Intervista a Shimonal Alchasov

Dottor Alchasov, Coop e Conad smentiscono di aver indetto un "boicottaggio" ai danni di Israele ma sono state pesantemente attaccate da alcuni politici italiani

Preferirei non parlare di politica. Lavoro dal ’73 in Agrexco, ho vissuto in Francia e anche nel vostro Paese. La nostra azienda si occupa di esportare derrate agricole che vengono da produttori ebrei, cristiani, musulmani. Noi pensiamo alla qualità del prodotto, non alle questioni politiche.

Coop e Conad effettivamente sostengono di voler evitare che sugli scaffali arrivi merce non etichettata e di cui, dunque, non si può stabilire l’esatta provenienza e qualità

Le dico una cosa: la nostra azienda esporta molto prodotti in Italia, dai pompelmi all’avocado, ma la quantità di merce che arriva da quelle che Lei ha definito “Colonie” si aggira intorno allo 0,4 per cento del totale. A parte qualche erba aromatica, onestamente mi sembra di poter dire che nel vostro Paese non arrivano derrate agricole coltivate nei territori di Giudea e Samaria.

Allora perché tanto clamore?

Conad o Coop sono aziende che hanno un grosso giro d’affari e non mi stupirebbe se alla fine scoprissero di non aver neppure comprato uno dei prodotti “incriminati”. Il rischio per loro è che da qui in avanti ogni risposta che daranno sull’argomento si presterà a pericolose strumentalizzazioni.

Il senatore Furio Colombo ieri ha detto che il linguaggio di Coop e Conad è “ipocrita” e ricorda “le scuse usate dai nazisti per perseguitare gli ebrei”

So che la Coop ha una lunga storia nell’economia italiana e che si è sempre impegnata a fondo per tutelare i consumatori. Non credo che la decisione presa dai gruppi italiani sia stata un pretesto per nascondere chissà cos’altro… mi è sembrato piuttosto un errore di ingenuità.

Come uscire da questi fraintendimenti?

So solo una cosa avendo vissuto in Italia. Il vostro non è un Paese razzista. E in ogni caso l’Unione Europea prevede il divieto di ogni forma di boicottaggio

Si parla tanto di “pace economica” fra israeliani e palestinesi. Fatti del genere non rischiano di complicare le cose?

Se Coop e Conad decideranno di non richiedere più i nostri prodotti noi non glieli invieremo. Ma la verità è un'altra: gran parte del nostro personale parla arabo ed è palestinese. Se i nostri prodotti non saranno più esportati significa che anche molti palestinesi perderanno il lavoro e questo potrebbe spingerli tra le braccia del terrorismo.

Qual è la soluzione allora?

Non c’è pace senza un'economia che funziona.

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martedì 25 maggio 2010

Cei: sforzo bipartisan contro la crisi

CITTÀ DEL VATICANO - Serve in Italia un forte e nuovo impegno bipartisan per affrontare il nuovo giro di vite e le nuove ristrettezze imposte dalle decisioni dell'Unione Europea per affrontare gli ulteriori sviluppi della crisi economica, che prima di tutto colpisce l'occupazione. Davanti ai vescovi italiani arrivati a Roma per la 61esima assemblea annuale della Conferenza episcopale italiana, il presidente Angelo Bagnasco ha auspicato «un responsabile coinvolgimento di tutti nell'opera che si presenta sempre più ardua».
Il cardinale - che ha al suo attivo il successo della giornata in solidarietà del Papa lo scorso 16 maggio, quando con il concorso di tutte le associazioni cattoliche del paese ha portato in Piazza San Pietro oltre 200mila persone - ha denunciato la disoccupazione, l'angoscia per il lavoro, specie nel sud d'Italia ed ha chiesto «un supplemento di sforzo e di cura all'intera classe dirigente del Paese: politici, imprenditori, banchieri e sindacalisti». Il porporato - davanti a circa 250 vescovi riuniti nell'aula del Sinodo della sala Nervi - ha rilevato che l'uscita dalla crisi non significherà nuova occupazione, il che «pare una ragione decisiva per procedere, senza ulteriori indugi, a riforme che producano crescita, mettere il più possibile in campo risorse che finanzino gli investimenti, in altre parole potenziare le piccole e medie industrie, metterle in rete anche sul piano decisionale, qualificare il settore della ricerca e quello turistico, potenziare l'agricoltura e l'artigianato, sveltire la distribuzione, facilitare il mondo cooperativistico. Bisogna cioè rinforzare i soggetti che meglio esprimono le qualità del territorio e più possono assorbire e rimotivare leve del lavoro». Da parte sua la Chiesa, assicura, «fa tutto ciò che può inventando anche canali nuovi di aiuto, senza che i precedenti siano nel frattempo messi fuori uso, ma è ovviamente troppo poco rispetto ai bisogni». Per il cardinale il protrarsi della crisi economica mondiale si sta rivelando più lunga del previsto e i provvedimenti ultimamente adottati in sede Ue hanno da un lato arrestato lo scivolamento verso il peggio, dall'altra però stanno imponendo nuove ristrettezze a tutti i cittadini. «Dinanzi a questo scenario non possiamo da parte nostra non chiedere ai responsabili di ogni parte politica di voler fare un passo in avanti, puntando come metodo ad un responsabile coinvolgimento di tutti nell'opera che si presenta sempre più ardua».
Eppoi un appello per il sostegno alla famiglia, magari con l'introduzione del meccanismo, più volte invocato nel passato, del 'quoziente familiare': l'Italia infatti sta andando verso il «suicidio demografico. Urge una politica che sia orientata ai figli, che voglia da subito farsi carico di un ricambio generazionale», ha detto il porporato chiedendo sostegno per la famiglia tradizionale e ricordando che il 50% delle coppie italiane coniugate non ha neanche un bambino. E un richiamo a favore di una riforma federalista equa: «L'unità del Paese resta una conquista e un ancoraggio irrinunciabili: ogni auspicabile riforma condivisa, a partire da quella federalista, per essere un approdo giovevole, dovrà storicizzare il vincolo unitario e coerentemente farlo evolvere per il meglio di tutti». Eppoi la pedofilia tra i religiosi, che ha occupato una parte importante della relazione. Di fronte agli scandali la Chiesa farà di tutto per continuare a meritare la fiducia delle famiglie italiane, anche di quelle non credenti, ha promesso il cardinale, che ha aggiunto: «Non transigeremo su nulla, non risparmieremo attenzione, verifiche, provvedimenti», ha detto. «L'opinione pubblica come le famiglie devono sapere che noi Chiesa faremo di tutto per meritare sempre, e sempre di più, la fiducia che generalmente ci viene accordata anche da genitori non credenti o non frequentanti». Bagnasco ha assicurato che la Chiesa italiana ha sposato in pieno la linea del rigore e della trasparenza indicate dal Papa - che parlerà ai vescovi giovedì mattina - ed ha «imparato e impara a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa».

domenica 23 maggio 2010

23 Maggio 1992 ricordando Falcone e Borsellino

”Dopo il tragico evento del 23 maggio del ‘92 decine di investigatori del Fbi, tutti amici di Giovanni Falcone, si sono uniti a noi magistrati e giudici per cercare di capire meglio la criminalita’ organizzata in modo da andare avanti con l’obiettivo di difendere lo stato di diritto”. Lo ha detto intervenendo nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo Louise Freeman, amico di Giovanni Falcone, che faceva parte del pool di inquirenti che istrui’ il processo Pizza Connection. Freeman ha sottolineato che ”bisogna ricordare Giovanni Falcone e tutto il lavoro che ha svolto per continuare a lottare la criminalita’ organizzata. Se stiamo uniti – ha concluso – lo stato di diritto ci proteggera”’. ”Difenderemo il valore dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura dal potere esecutivo”. Lo ha detto, suscitando l’applauso dei giovani presenti nell’aula bunker dell’Ucciardone, il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, intervenuto al convegno organizzato per il 18/o anniversario della strage di Capaci. ”L’indipendenza della magistratura – ha aggiunto – non e’ un privilegio di casta. Crediamo ancora che in Italia si possano riuscire a processare anche i ‘colletti bianchi’ e i corruttori di chi ricopre pubbliche funzioni”. ”Non c’e’ impegno difficile che non necessiti di partecipazione e coesione. C’e’ piu’ sicurezza insieme, questo e’ stato anche il motto della festa della polizia che abbiamo celebrato la scorsa settimana, assieme al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano”. Lo ha detto il ministro dell’interno, Roberto Maroni, intervenendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone a Palermo, dove e’ in corso la manifestazione per il 18/o anniversario della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta della polizia di Stato. ”Oggi e’ una bella giornata per lo Stato che ricorda Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ha aggiunto Maroni – per tutti noi sono due esempi di coraggio e determinazione, grazie a loro possiamo cogliere frutti preziosi nella lotta alla mafia”. Maroni ha ricordato le misure varate dal governo e dal parlamento per la lotta alla mafia, citando le norme contenute nel pacchetto sicurezza: il fondo unico sulla giustizia, l’aggressione ai patrimoni mafiosi, il rafforzamento delle competenze per le procure distrettuali e la direzione investigativa antimafia, il contrasto alle infiltrazioni mafiose negli appalti, la modifica della disciplina sulle procedure di scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose, l’inasprimento del 41 bis (carcere duro). Maroni ha sottolineato anche il piano straordinario varato dal governo lo scorso gennaio, articolato in nove punti ”il primo dei quali e’ gia’ stato approvato, vale a dire l’agenzia che gestisce i beni confiscati alle mafie, con sede a Reggio Calabria”. Il ministro ha confermato l’apertura di altre sedi dell’agenzia, la prossima sara’ a Palermo, invitando la fondazione Giovanni e Francesca Falcone, coordinata dalla sorella del magistrato, Maria Falcone, a collaborare. Il ministro, inoltre, ha ricordato i successi ottenuti negli ultimi due anni nella lotta alla criminalita’ organizzata, con l’arresto di 5300 mafiosi, ”in media otto al giorno – ha evidenziato Maroni – e 360 latitanti, 24 dei quali erano inseriti nell’elenco dei ricercati piu’ pericolosi”. ”Leggendo le dichiarazioni agghiaccianti di alcuni di questi criminali – ha aggiunto il ministro – mi vengono i brividi”. “L’esempio di rettitudine di Giovanni Falcone resti un punto di riferimento da seguire per noi tutti”, lo sottolinea il Presidente del Senato Renato Schifani nel messaggio inviato a Maria e Anna Falcone, le sorelle del magistrato ucciso dalla mafia diciotto anni fa. “Ricorre oggi il diciottesimo anniversario del barbaro assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, straordinario esempio di ferma determinazione e serena dedizione alla legge e alla propria coscienza spinta fino all’estremo sacrificio. Giovanni Falcone – aggiunge il Presidente del Senato – ha donato la sua intelligenza e la sua vita per difendere i nostri valori pi— importanti, mosso dalla volont… di preservare dall’oppressione criminale il nostro futuro, il futuro dei nostri figli”. Il messaggio Š stato inviato anche alla Fondazione ‘Giovanni e Francesca Falcone’. “Il suo sacrificio – prosegue il Presidente del Senato – ha cambiato molte cose: ha arricchito le nostre coscienze e ha contribuito in maniera decisiva alla diffusione della cultura della legalit… e della lotta al fenomeno mafioso, soprattutto tra i giovani. Ed Š proprio l’albero di Falcone, quella grande magnolia piantata davanti all’abitazione dopo la sua uccisione, a rappresentare uno dei simboli pi— concreti e commoventi della lotta per la legalit…. Attorno all’albero si riuniranno studenti provenienti da tutta Italia per lasciare un messaggio a riprova del fatto che la mafia non Š solo un problema della Sicilia ma di tutti coloro che vogliono un cambiamento. Che la sua tragica scomparsa e il suo esempio di rettitudine – conclude il Presidente Schifani – resti un punto di riferimento da seguire nella vita quotidiana e in ogni comportamento per noi tutti”. ”Diamo il massimo sostegno alle indagini che cercano di chiarire gli aspetti ancora oscuri delle stragi. E’ necessario sgomberare il campo da ogni equivoco rimasto in quegli eventi”. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una lettera inviata a Maria Falcone, sorella del giudice assassinato 18 anni fa dalla mafia, letta al convegno organizzato nell’aula bunker del carcere Ucciardone per l’anniversario dell’eccidio del magistrato. ”Questa iniziativa – aggiunge il Capo dello Stato – prosegue la stagione dell’impegno civile germogliata dopo la morte di Falcone, di sua moglie e degli agenti della scorta. Una stagione che ha come protagonisti i giovani attivi nell’affermare una cultura ispirata alla legalità. L’appassionato eroico impegno di Falcone resta indelebile in tutti noi. L’impegno di Falcone – prosegue Napolitano – e’ prezioso stimolo per la crescita delle coscienze”.

giovedì 20 maggio 2010

Che cosa sono le "AUTO BLU"?

La situazione economica del Paese è delicata, per fortuna non grave, ma delicata in buona parte grazie ai regali avvelenati che ci hanno fatto gli altri: americani in primis, ma anche la speculazione incosciente delle banche, straniere e non. Per fortuna che c’è Tremonti che ha saputo tenere ferma la barra nonostante fosse strattonato da tutte le parti e non sempre in maniera anodina ma per interessi ben precisi. Per questo il Paese si attende oggi risposte concrete e, soprattutto, nessuna prevaricazione, o peggio, che a pagare siano sempre i soliti, cioè quelli che pur volendolo non possono evadere le tasse. Va detto che le voci che si sono rincorse in questi giorni non erano delle più rassicuranti per cui bene ancora ha fatto il Ministro dell’Economia a chiarire i termini della questione.
E veniamo alla proposta del Ministro Calderoli di ridurre del 5% le indennità di tutti i parlamentari. Posizione condivisibile ma che lascia perplessi perché sempre in Italia siamo: infatti a cosa si riferisce esattamente la sua proposta? Anche se vaga nella forma il Ministro intende considerare “l’integrità” di tutti gli emolumenti complessivi che un parlamentare percepisce o solo l’indennità pura? Già a questo livello le cifre cambierebbero drasticamente riducendosi quasi della metà; e va detto che la gente non è che prenderebbe la cosa bene, non fosse altro perché gli stipendi in gioco e tutti i fringe benefits connessi rappresentano un totale che è dell’ordine di sei, sette volte quello che è lo stipendio dell’impiegato medio che guadagna intorno ai 1500 euro al mese.
Politicamente quindi la proposta può avere certamente un valore di messaggio e di testimonianza ma a questo si limita e non va più oltre anche perché poi la realtà si è dimostrata nei fatti ben diversa sia nel passato che ancora in questi giorni e raramente proposte di moralizzazione si sono concretizzate in atti efficaci. La Casta, è brutto chiamarla così, ma è così che appare al cittadini medio, ed a ragione visto quello che leggiamo ed ascoltiamo giorno dopo giorno: non consideriamo nemmeno i casi di malaffare che stanno esplodendo uno dopo l’altro in questi giorni. I ladri ci sono sempre stati da che mondo è mondo e non è corretto fare di ogni erba un fascio: sarà la Magistratura a valutare i singoli casi sanzionando chi e cosa devono esserlo e ripristinando la verità dove questa non fosse chiara. La tristezza dei comportamenti che più dà fastidio è piuttosto sui comportamenti minuti, quelli di ogni giorno che fanno emergere la miseria morale ed umana delle persone.
Di casi eclatanti ne emergono mille al giorno: a cominciare dalla pretesa allucinante di consentire il totale disprezzo al Codice della Strada agli autisti delle auto blu. La motivazione che debbono correre perché i loro padroni hanno sempre fretta è demenziale nel suo squallore: solo in questo Paese si vedono tante auto con lampeggianti, accesi o meno, che scorazzano per le strade cittadine formalmente per mostrare che “il lui” trasportato è persona importante e troppo occupata per poter attendere ai semafori come un comune cittadino. Qui i ruoli sociali sono completamente invertiti: gli eletti non sono al servizio del cittadini ma sono questi ultimi che sono sudditi e quindi devono farsi da parte quando passa il LUI di turno.
Chiunque abbia viaggiato un minimo in qualunque Paese civilizzato (è importante questa notazione) ha potuto verificare con i suoi occhi la differenza tra numero, uso di lampeggianti e sirene presenti in Italia, e a Roma in particolare, rispetto a qualunque altra capitale straniera. Panama ed il caso del dittatore Noriega sono il contro-caso perfetto e più simile al nostro paese: il paese è in piena regressione e si sta avviando sempre più all’esposizione pacchiana e volgare degli status symbol del potente di turno come in una repubblica delle banane.
Il povero Ministro Brunetta sta tentando di arrivare a determinare quante auto blu siano in circolazione, ricordiamolo a spese delle tasche dei cittadini che pagano le tasse! non possiamo che augurargli di riuscirci anche se ogni tentativo attuato nel passato è miseramente fallito sopratutto perché si voleva che fallisse. Ma se tagli dovranno esserci, allora cominciamo a farli seriamente e prima ancora che ridurre le indennità dei parlamentari, si cominci a fare un’analisi seria dei costi “complessivi” che ognuna delle due Camere fa gravare sul bilancio dello Stato bloccando gli aumenti che si determinano ogni anno, e questo per i prossimi cinque per esempio. Questo si che sarebbe un messaggio ben più significativo “dell’aperitivo” come lo ha definito Tremonti in una recente intervista.
Peraltro, nel momento in cui c’è una reale necessità per tutti di rimboccarsi le maniche, il cittadino comune sarebbe molto più motivato se l’esempio, ma uno serio e consistente, venisse dall’alto, dalla Casta che viene sopportata sempre con maggiore difficoltà e crescente fastidio da chi ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Scene come quelle del “disagio” dei parlamentari dell’Inter Club della Camera per non aver ricevuto tutti i biglietti gratis che si aspettavano per la partita di Champions League ed i loro commenti, superano qualunque decenza per lo sprezzo del ridicolo mostrato da un’accolita bipartizan che si stenta ad immaginare siano i rappresentanti del popolo.
Si colpiscano i ladri, si sanzionino senza pietà i corruttori, si stanino gli evasori e li si faccia pagare il dovuto ed il maltolto: ma soprattutto una preghiera. Arrestiamo ogni demagogia parolaia buona solo per garantire una menzione sulla stampa; si operi in silenzio ma bene: facciamo tutti per una volta sul serio. I cittadini se ne ricorderanno.

mercoledì 19 maggio 2010

Ciao Massimiliano, Ciao Luigi.


Stamani all'aeroporto militare di Ciampino sono arrivate le salme dei due alpini morti due giorni fa per l'esplosione di una bomba in Afghanistan. Le bare coi resti del sergente Massimiliano Ramadù, 33 anni, e del caporalmaggiore Luigi Pascazio, 24, sono giunte in aeroporto intorno alle 9, dopo essere partite ieri da Herat, nell'Afghanistan occidentale, al termine di una cerimonia funebre.
Ad accogliere i feretri, oltre ai parenti, c'erano il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, i presidenti di Camera e Senato Gianfranco Fini e Renato Schifani, il ministro della Difesa Ignazio La Russa e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Sulla pista dell'aeroporto, Napolitano ha accarezzato le bare avvolte dal tricolore e portate a spalla dagli alpini, poggiando per qualche secondo la mano prima su uno e poi e sull'altro feretro. A rendere gli onori è stato un picchetto armato del IX Reggimento alpini dell'Aquila. Le due salme sono poi state trasferite all'ospedale di medicina legale dove si svolgerà l'autopsia disposta dalla Procura di Roma, che ha aperto un'inchiesta sull'attentato. Al Celio, la camera ardente sarà aperta oggi dalle 16 alle 20, secondo quanto riferito dal ministero della Difesa. Domani alle 10 sono invece in programma i funerali di Stato nella basilica di Santa Maria degli Angeli, a Roma. Ramadù e Pascazio hanno perso la vita quando il blindato Lince su cui viaggiavano assieme a due commilitoni della Taurinense - il primo caporalmaggiore Gianfranco Sciré, 27 anni, e il caporale Cristina Buonacucina, 26, rimasti feriti - è stato investito dall'esplosione di un ordigno al passaggio di un convoglio multinazionale diretto a una base avanzata nella zona di Bala Murghab, nella Regione Ovest sotto responsabilità italiana. Sciré è giunto in Italia ieri, mentre Buonacucina è stata trasferita in Germania, nell'ospedale americano di Rammstein, dove è stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico avendo riportato fratture alla spina dorsale. Con i due soldati morti lunedì, è salito a 24 il numero di militari italiani che hanno perso la vita dal 2004 in Afghanistan, 16 dei quali in attentati o scontri a fuoco. Lo scorso febbraio era inoltre rimasto ucciso in un attacco dei talebani a Kabul un funzionario dell'Aise, il servizio segreto per l'estero. I militari italiani attualmente impegnati in Afghanistan nell'ambito della missione Isaf della Nato sono circa 3.300, per lo più nella Regione Ovest.

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martedì 18 maggio 2010

Grecia - la crisi

Questa sarà la più importante settimana nella storia lunga 11 anni dell'unione monetaria europea. Alla fine di questa settimana sapremo se la Crisi fiscale greca può essere contenuta o se creerà una metastasi in altri parti dell'Eurozona.

Per allora il Fondo Monetario Internazionale e il governo Greco dovrebbero avere raggiunto un accordo. Ci sono però altre tre cose che bisogna tenere d'occhio. Anzitutto la prima e più importante questione: la Grecia deve presentare un programma di transizione che spieghi come un grosso deficit primario possa essere trasformato in un altrettanto grosso surplus senza provocare un crollo della crescita economica. Quello che ho potuto ascoltare fino ad ora da parte di economisti greci è profondamente scoraggiante. La maggior parte dei suggerimenti sono trucchi contabili di vecchio stile, come quello di aggiungere alle cifre ufficiali del Prodotto Interno Lordo il contributo stimato dell'economia sommersa. Quello che ci stiamo aspettando è un programma triennale con dettagliati tagli della spesa e riforme strutturali.

Secondo. Il pacchetto di prestiti totale deve essere inoltre sostanzialmente più grande dei 45 miliardi di Euro impegnati fino ad oggi (dei quali 30 miliardi dall'Unione Europea, e il resto dal FMI). Il contributo della UE è solo per un anno, e vedo scarse speranze che la UE lo aumenti ora o l'anno prossimo. Axel Weber, presidente della Bundesbank, ha stimato in circa 80 miliardi il fabbisogno della Grecia per l'intero periodo di aggiustamento, ed ha più o meno ragione. Quello che serve è un credibile impegno a prova di bomba che vada oltre i 45 miliardi. La Grecia avrà bisogno di copertura per almeno due anni, durante i quali tutte le politiche di aggiustamento devono essere decise e soprattutto implementate.

Terzo, dobbiamo monitorare la situazione in Germania. Il governo ha all'inizio tentato di codificare la normativa sui prestiti alla Grecia all'interno della legislazione vigente, ma la cosa ha trovato molti ostacoli. Ci sarà ora un iter legislativo vero e proprio. Alcuni parlamentari della coalizione di Angela Merkel hanno già sollevato dubbi sul fatto che daranno il loro appoggio, ivi incluso il leader della CSU bavarese, il partito fratello dei Cristiano Democratici della Merkel. Sostengono che la soluzione migliore per la Grecia sia quella di abbandonare l'eurozona per farvi ritornarvi più in là. Su questo punto hanno l'appoggio di una gran parte dell'élite giuridica ed economica.

Questa argomentazione è piena di ipocrisia legale. Coloro che la avanzano fingono di avere molto a cuore il rispetto rigoroso della clausola "antisalvataggio" del Trattato di Maastricht. Non vedono in compenso problemi nel proporre una lacerazione della legislazione Europea proponendo l'uscita della Grecia dalla Eurozona. Secondo la legislazione esistente non si può cacciare la Grecia. Di fatto la Grecia non può abbandonare l'eurozona volontariamente, senza lasciare anche la UE. In ogni caso, è più intelligente per la Grecia avere un default stando dentro l'Eurozona che fuori. Cosa succederà dunque se la Bundestag bloccherà gli aiuti? La Grecia semplicemente andrà in default, cosa che metterà a rischio diverse banche Tedesche e Francesi che detengono grosse fette del debito sovrano e privato greco.

E' inevitabile nella crisi, siamo tutti collegati.

I paesi ricchi stanno provando con forza a correggere le avversità economiche quotidiane che affliggono il mondo. E' stato convocato un summit economico d'emergenza. Sono state intraprese misure forti. Sono stati varati interventi di tutti i generi. I paesi sviluppati si sono resi conto che le proprie economie sono intrinsecamente legate a vicenda dagli avanzati strumenti finanziari. Quando un paese perde, lo stesso capita agli altri, come abbiamo notato in questi giorni da paesi distanti come la Cina e la Corea. C'è però un altro collegamento che non è stato discusso: i paesi in via di sviluppo. Lo sviluppo di questi paesi dipende dalle economie dei paesi sviluppati, più di quanto le economie dei paesi avanzati siano interdipendenti. L'erosione dei mercati finanziari deve ancora farsi sentire nei paesi in via di sviluppo, con il venir meno dei movimenti di fondi dai quali questi ultimi dipendono. E qua sta la triste fine dell'effetto espansione: toglie il cibo dalle bocche dei bambini, chiude i rubinetti d'acqua e spedisce orde di persone a vivere nella disperazione. Dobbiamo risolvere la crisi economica mondiale, non solo per mantenere i nostri standard di vita, ma anche perchè la gente possa continuare a vivere.

La crisi economica che stiamo vivendo oggi, e probabilmente domani, è più che soli numeri. Ci sono facce con cui abbiamo a che fare per ogni singola unità di valore perso. E questo è qualcosa che non saremo mai in grado di quantificare. In ogni caso dovremmo riconoscere che le perdite che accadono davanti ai nostri occhi ogni giorno - ogni cinque secondi muore un bambino per mancanza di cibo o acqua - sono una questione di vita o morte.

I dieci perchè della crisi dei mercati finanziari

A seguire le cronache di questa tormentata crisi, sembra talvolta di assistere in presa diretta all'Armageddon della finanza. Ed è difficile, anche per gli addetti ai lavori, seguire il bandolo di un gomitolo impazzito: la palla di neve, iniziata con la crisi di un segmento del mercato dei mutui, è in breve diventata una valanga, eccitando una serie di superlativi, dal "nuovo '29" alla crisi del secolo. E anche i forti rimbalzi che seguono le forti cadute non sono tali da diradare timori e tremori. Ecco qui di seguito dieci domande e dieci risposte per cercare di sbrogliare questa intricata matassa.

1
) Come ci siamo messi in questo pasticcio?
All'origine ci sono le case, e in particolare le case americane. La casa fa parte dell'American dream, del sogno americano (e non solo americano). E per facilitare l'acquisto delle case la finanza americana, non adeguatamente supervisionata, cominciò a offrire allettamenti incredibili: mutui pari al 100% del valore, mutui a rate basse perché l'interesse si pagava solo alla fine, soprattutto mutui senza accertare l'affidabilità di chi riceveva i soldi. Ma perché le banche davano soldi a chi non poteva restituirli? Perché, e qui sta il secondo problema, il rischio del nonpagamento veniva trasferito ad altri. Le banche impacchettavano questi mutui in obbligazioni che venivano poi vendute sul mercato ad altri investitori; così gli istituti finanziari potevano rientrare subito dei soldi prestati, e fare altri prestiti. E così si alimentava la bolla immobiliare, mentre veniva peggiorando la qualità dei mutui. La cosa non poteva durare, e non durò: nell'agosto del 2007 i nodi vennero al pettine e quei titoli appoggiati sui mutui persero di valore. Il mercato si accorse che molti mutuatari non avrebbero potuto restituire i soldi, e questo timore contagiò tutte quelle obbligazioni, sia quelle che avevano dietro mutui cattivi che quelle che avevano dietro mutui buoni. E c'è di più: quell'idea di trasferire il rischio non riguardava solo i mutui immobiliari. Anche altri impieghi delle banche erano stati impacchettati e trasferiti in obbligazioni vendute sul mercato: prestiti per l'acquisto di auto, carte di credito, prestiti per finanziare fusioni e acquisizioni.

2) Di chi è la colpa di tutto quello che è successo?
La colpa è fondamentalmente dei supervisori. In America la supervisione non è accentrata, c'è un numero incredibile di supervisori delle banche, alcuni a livello federale e molti a livello statale. La complessità di questa sorveglianza a più strati rende difficile sapere quello che succede veramente. Inoltre, c'era una mentalità permissiva, fondata sulla fiducia nella capacità del sistema finanziario di regolarsi da solo.

3) Quali sono i rischi per l'economia?
Il rischio è la sfiducia. Quanti sono i mutuatari che non pagheranno, e quali saranno le vere perdite delle banche una volta che avranno venduto la casa per rientrare del mutuo non pagato? Nessuno lo sa, ma qualsiasi ragionevole ipotesi è senz'altro inferiore a quel che suggeriscono i prezzi dei titoli che hanno dietro i mutui. È possibile calcolare che in molti casi quei prezzi stimano implicitamente una probabilità di perdite pari al 70% dei soldi dati dalle banche per i mutui: un numero assurdo. Ma il mercato ha paura, non vuole toccare quei titoli, i prezzi crollano, il portafoglio di tante società finanziarie e fondi pensione deve registrare quelle perdite, il mercato abbassa il valore degli istituti che hanno dentro quei titoli tossici, e la palla di neve diventa una valanga. La sfiducia si allarga e rischia di infettare le decisioni di spesa di famiglie e imprese, ciò che potrebbe portare verso la recessione.

4) Che cosa si deve intendere per «azzardo morale»?
Quando una banca viene salvata dai poteri pubblici c'è un rischio. Il rischio che così facendo, evitando alla banca la punizione del fallimento, si incoraggino altre banche a correre rischi: tanto, c'è chi le salverà& Tuttavia questa faccenda dell'azzardo morale è molto sopravvalutata. Anche con il salvataggio, i massimi responsabili dell'istituto salvato perdono il posto e gli azionisti delle banche perdono la camicia. Non si può quindi dire che il salvataggio fomenta l'azzardo morale. Sia nel caso della Bear Stearns che nel caso di Fannie Mae-Freddie Mac la punizione di dirigenti e azionisti è stata pesante.

5) Perché le banche falliscono?
Quelle che sono fallite sono soprattutto banche d'investimento, cioè banche che non hanno una base di depositi. Per prestare soldi devono farseli dare prima a prestito: questo porta a un rapporto fra debito e capitale proprio molto alto. Questo "effetto leva" mette quegli istituti in una situazione pericolosa: se la provvista di fondi si inaridisce, e/o i prestatori di fondi alle banche di investimento non rinnovano il prestito, la banca di investimento va in crisi di liquidità. E se i suoi impieghi - per esempio in quelle obbligazioni "tossiche" menzionate sopra - perdono di valore, si può trovare non solo in crisi di liquidità, ma anche in crisi di solvibilità.

6) È realmente in atto una stretta creditizia?
Quando le banche devono registrare perdite sui titoli in portafoglio, queste perdite vengono a ridurre il capitale proprio (anche se le perdite sono solo sulla carta). Riducendo il capitale, proprio, che deve mantenere un certo rapporto con gli impieghi, le banche sono costrette a ridurre i loro prestiti (o ad aumentare il capitale cercando nuovi soci). Di qui il pericolo di una stretta creditizia. Tuttavia questa stretta non vi è stata per quanto riguarda i prestiti alle imprese, che hanno continuato a crescere a tassi a due cifre. I prestiti per mutui sono scesi, ma non perché le banche si rifiutino di farli. Sono scesi perché c'è meno domanda e le bolle immobiliari in giro per il mondo si vanno sgonfiando. Gli impieghi delle banche sono scesi là dove era bene scendessero, per tanti prestiti fatti per operazioni finanziare non produttive.

7) Sarà il contribuente a pagare il conto della crisi?
I salvataggi di banche fatti in America e in Inghilterra hanno suscitato molto biasimo perché, si dice, «pagherà Pantalone ». Tuttavia, questo non è affatto detto. Per esempio, all'inizio degli anni Novanta la Svezia conobbe una gravissima crisi bancaria che portò a massicci salvataggi pubblici e alla nazionalizzazione di molte banche. Queste alla fine vennero rivendute al mercato e lo Stato ci guadagnò sopra. Anche nel caso del salvataggio della Chrysler nel 1979, il contribuente americano alla fine ne ebbe un vantaggio: i prestiti furono rimborsati, e i warrant ricevuti dal Governo furono venduti con profitto. Il salvataggio delle Savings&Loan americane ebbe un costo lungo i molti anni delle procedure della Resolution Trust Corporation, ma un costo relativamente modesto, pari allo 0,6% del Pil del periodo. È perfettamente possibile che il Governo americano finisca con il guadagnare nel caso del salvataggio della Aig e di Fannie Mae-Freddie Mac.

8) I salvataggi fanno aumentare il debito pubblico?
Questa è una leggenda metropolitana. Le passività delle banche nazionalizzate non diventano debito pubblico. Lo dice il buon senso e lo dicono le regole della contabilità nazionale. Fosse così, quando le banche italiane erano pubbliche, i depositi della Comit, per esempio, avrebbero dovuto far parte del debito, pubblico, cosa che certamente non era il caso. Il debito aumenta solo se e quando il processo di smobilitazione delle attività delle società salvate porti a vere perdite, e ciò che non è affatto detto (vedi punto precedente).

9) Cosa deve fare il risparmiatore?
Sul Sole 24 Ore del 19 settembre Marco Liera ha pubblicato un "Decalogo per non farsi travolgere dai crolli". Il decalogo dice essenzialmente di non farsi tentare né dalle fughe né da acquisti speculativi. E di mettere da parte la lezione sulla volatilità dei mercati e sulla necessità di guardare al lungo termine senza farsi tentare da guadagni facili o angosciarsi per i periodi difficili.

10) Che succederà alle nostre pensioni?
Con il diffondersi della previdenza complementare molti, anche se non sanno esattamente in che cosa ha investito il loro fondo pensione, sono preoccupati per il futuro. Bisogna ricordare, tuttavia, che, a parte qualche poco meritevole eccezione, i fondi pensione hanno investimenti molto diversificati e sono in grado di tenere titoli per lungo tempo. In particolare, per quanto riguarda il mercato azionario, nel lungo periodo questo si è rivelato sempre più remunerativo di altri investimenti. Tanto più oggi quando, con un'opportuna diversificazione per aree geografiche, si può beneficiare della voglia - e della capacità - di crescita dei Paesi emergenti.

L'insuccesso dell'UE-crisi

Siamo in un periodo di rievocazioni risorgimentali. I versi de L’Orlando Furioso sono relativi alla conquista dell’Italia, dovuta a litigi interni. Lodovico il Moro si sentiva attaccato dal re di Napoli e chiamò in aiuto Carlo VIII di Francia. Era il 1495. Gli italiani formarono invano una Lega contro gli stranieri, e restammo sotto il “giogo straniero” per molti secoli.

Cos’è l’Europa di oggi?
E’ sempre la figlia di un re libanese, rapita da Zeus travestito da toro, con una vocazione mediterranea? Oppure è figlia della ostpolitik russotedesca? E’ ancora figlia di Cristoforo Colombo, atlantica e occidentale?

E’ il tema economico, a ossessionare le nazioni.
Il quadro internazionale è dominato da due epidemie: l’influenza suina nordamericana (finanziaria) e la nube islandese-greco-spagnola (che riguarda economie nazionali e debiti statali).
Le due pesti si sono diffuse ovunque, escluso in parte il Bric –le economie emergenti di Brasile, Russia, India e Cina.

E’ stata un’invasione barbarica globale. Quali sono le cause?
Uno dei peccati originali europei è –secondo Murray N. Rothbard- il mercantilismo, la credenza che il sistema economico debba essere funzionale a un impero nazionale o sovranazionale. La cifra del successo consisterebbe nella prevalenza dell’export di beni rispetto all’import. Dal punto di vista logico è un ragionamento ineccepibile, e infatti sembra la chiave vincente di Cina, India e Germania, indipendentemente dai governi. Dal punto di vista politico però il mercantilismo è un must socialista e keynesiano, opposto al libero mercato, in quanto mira al protezionismo se non all’autarchia. In sostanza il liberalismo di molte economie sarebbe una truffa: oggi il ruolo della politica consiste nel proteggere i mercati nazionali, pur adorando a parole il libero commercio. Gli stessi no-global opposti al liberismo in realtà si opponevano al mercantilismo, senza saperlo.

Il nodo del centrodestra
Si tratta di capire che cosa convenga di più ai cittadini: un orizzonte fatto di regole condivise e di libero mercato, nella consapevolezza che il commercio è fonte di pace e sviluppo, oppure un modello fondato sui monopoli, sull’iperlink tra Stati e mega-aziende (col rischio di corruzione), sul nazionalismo mascherato.
Il nodo dev’essere risolto dai partiti del centrodestra europeo (Cameron in testa, la Merkel in coda, Medvedev alla finestra, Tremonti al bivio), visto che dominano la scena, oscillando tra modello liberale, neoprotezionismo, e un ritorno allo Stato-nazione dovuto non solo alle celebrazioni del Risorgimento, ma soprattutto ai disastri della UE.

La posta in gioco
I vincoli di Maastricht non sono stati rispettati dagli stati “pigs”, e la Grecia ha falsificato i conti, prima della crisi, col risultato di arrivare a un deficit non più finanziabile dalle banche internazionali. La gestione dell’euro come una “carta di credito” ha portato alcune nazioni al mercantilismo passivo praticato dalla Spagna dei secoli d’oro e dalla Russia e dagli arabi di oggi, grazie alla rendita fondiaria gratuita, proveniente dalle miniere d’oro del Perù, dal gas siberiano, dal petrolio, dalla gestione allegra dell’euro. Ma il mercantilismo passivo provoca la fine della produzione e dello sviluppo: perché mai creare dei modelli “lombardo-veneto”, se si può campare lo stesso coi finanziamenti europei, statali, e coi Titoli di Stato? Così come la regione Campania, la Grecia è naufragata con gli stipendi pubblici che raggiungono il 40% del Pil; con il Bonus per chi arriva in orario al lavoro; con “l’indennità per i forestali che lavorano all’aria aperta”; con l’Ente per la salvaguardia di un lago prosciugato nel 1930. Sono versailleate note anche a noi italiani, che cerchiamo invano di ridurle da decenni.

UE e FMI hanno creato una specie di fondo sovrano per i paesi in deficit, mentre la BCE il debito comprando titoli di stato e pagando le banche commerciali venditrici con un assegno che resterà depositato “presso la banca centrale a rendimento zero”, secondo la lettura di Mario Seminerio.

Salvare la Grecia era fondamentale, la UE ha sbagliato a non intervenire subito. Se la peste dovesse raggiungere altre nazioni, i cui debiti sono posseduti da Francia, Germania e Regno Unito, collasserebbe l’intera Europa. Ma se collassa la UE, salterebbero anche l’economie di Cina, Russia e USAa. Ragion per cui il rischio non è il fallimento, ma il declino, o una ripresa lenta.

Secondo David Ignatius, columnist del Washington Post, “gli europei hanno solo rinviato il redde rationem”. Invece sarebbe stato meglio unificare le economie, dice Ignatius. Sì, ma come la mettiamo col mercantilismo di ognuno degli Stati?

Secondo Ignatius gli stati mediterranei (“Club-Med”) hanno usato l’euro come una carta di credito. Il danno aggiuntivo è costituito dalla socializzazione il debito.

La Gold rush
Investitori come George Soros comprano oro da un anno. Soros ha investito in Spdr Gold Trust e in azioni Citigroup per 313 milioni di dollari. Mentre in Cina arriva l’inflazione, non si punta soltanto sull’oro, tornato in auge dopo l’abbandono del gold standard (ecco un altro peccato originale: abbandonare l’oro come garanzia delle valute).

Molti dei timori e tremori di queste settimane potrebbero essere dovuti alla crescita del Forex (il mercato delle valute). Intanto le Borse e l’euro continuano a scendere, a causa dell'insufficienza delle misure prese a Madrid e a Lisbona. Per giunta il chairman di Deutsche Bank, Josef Ackermann, è incappato in una voce dal sen sfuggita, dicendo che la Grecia potrebbe non essere in grado di rimborsare tutto il suo debito.

E la NATO?
Oltre all’economia, c’è la crisi geopolitica, enorme. Il nuovo segretario generale della NATO, Rasmussen, ha parlato del nuovo ruolo dell’Alleanza, il 5 maggio scorso. Il punto di partenza è costituito dall’integrazione dell’Europa di Sud-est, a partire dalla Bosnia-Erzegovina. Il tentativo NATO di riposizionare la frontiera a sudest, potrebbe essere seguito dalla stessa UE, se questa avesse una programmazione strategica e politica. I fatti sono semplici: i russi hanno esteso la propria area di influenza all’Ucraina e (in parte) alla Turchia, ex baluardo occidentale andato a ramengo per l’islamismo crescente e per il gran rifiuto di Sarkozy (che doveva essere giocato meglio). Questa settimana l’Obama-Cameron russo Medvedev ha siglato con Erdogan accordi per 25 miliardi, ottenendo la fornitura del 70% del gas e del petrolio necessari ai turchi, e il free-pass navale dai Dardanelli, che arriva dopo gli accordi che hanno garantito le basi in Crimea della flotta del mar Nero.

Sul piano politico la Russia ha pianificato una modernizzazione della propria economia, con l’abbandono (a parole?) del mercantilismo e una industrializzazione crescente, cioè aprendo il proprio mercato agli investitori occidentali.

L’Italia diventerà una microcolonia?
Ho posto due domande a David Ignatius del Washington Post. La prima riguardava l’inclusione, nella sua analisi, dell’Italia tra le nazioni “Club-Med”, visto che l’economia reale italiana è più alta di quella ufficiale, a causa della presenza del sommerso, anche se il nostro debito resta mostruoso in termini assoluti. La risposta è stata secca: “Sapremo chi sono i pigs, quando vedremo chi chiederà aiuto”.

La seconda questione ci riporta all’inizio di questo articolo: Siamo sicuri che Francia e Germania stiano svolgendo il ruolo di San Francesco? Stiamo cedendo a loro, sotto la copertura della UE, fette di indipendenza e di libertà nazionale? Siamo oggetto di un microcolonialismo finanziario? Cos’è la Unione Europea? Sono domande che circolano in silenzio da anni, in Europa.
La risposta è stata secca: “I am intrigued by your comment about microcolonialism”.

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Il perno della nuova politica energetica

A dieci mesi dall’approvazione delle delega nucleare e ad oltre 2 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto attuativo, il quadro normativo ed istituzionale per il ritorno all’atomo è ancora un canovaccio senza parti né scenografie.

Entro il 7 febbraio scorso dovevano essere adottate le delibere CIPE per la definizione delle tipologie di impianto realizzabili nel territorio e dei criteri e le misure atti a favorire la costituzione di consorzi per la costruzione e l’esercizio degli impianti. Le delibere del comitato interministeriale sono previste dalla legge energia del luglio 2009 e dovevano essere adottate contestualmente al decreto che disciplina la localizzazione e l’autorizzazione degli impianti (d.lgs 31/10). Ma stanno per scadere anche alcuni dei termini previsti da quest’ultimo, più recente, decreto: entro il 23 maggio dovranno, infatti, essere adottati i decreti ministeriali che definiscono i contenuti delle istanze per la certificazione dei siti e l’autorizzazione delle centrali, nonché i requisiti soggettivi dei proponenti.

In ritardo anche la pubblicazione in gazzetta ufficiale dello Statuto, già firmato dal Presidente del Consiglio a fine aprile, dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare, il perno della nuova politica energetica. Sul lato istituzionale, il puzzle dovrà poi essere completato con l’approvazione del regolamento di organizzazione e funzionamento dell’autorità e con le relative nomine. Se per mesi il braccio di ferro tra i ministeri dell’ambiente e dello sviluppo economico è stato alla base del mancato accordo sugli equilibri da dare all’Agenzia, ora è la poltrona vuota in Via Molise a suggerire cautela.

La prudenza mal si addice all’urgenza. Entro sessanta giorni dall’adozione della strategia nucleare del governo, la nuova authority dovrebbe mettersi al lavoro per definire un primo schema di criteri per l’individuazione delle aree idonee alla localizzazione degli impianti. I termini previsti dal decreto nucleare sembrano comunque destinati a saltare. La strategia, ai sensi della legge, è attesa per il 23 giugno, ma il rispetto del termine è pura utopia. Il sottosegretario all’energia, Stefano Saglia, ha fatto sapere che il Governo intende impegnarsi alla sua elaborazione, in tempi però ben diversi da quelli stabiliti con il decreto 31/10. Non prima di autunno, secondo le previsioni del Governo. L’obiettivo di vedere firmato il primo decreto di autorizzazione in questa legislatura si fa quindi sempre più lontano. Quello, più volte annunciato, di assistere alla posa del primo mattone, non ha mai avuto, invece, alcuna credibilità.

Sia ben chiaro, il vuoto lasciato da Claudio Scajola, convinto promotore dei passi finora compiuti, non lascia spazio a regressioni e ripensamenti. Il Ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo ha fatto sapere che è intenzione del Governo andare avanti per la strada tracciata. Tant’è che il 24 maggio il 24 maggio il ministro si recherà a Trieste per firmare il protocollo d’intesa italo-sloveno sulla sicurezza nucleare e due giorni dopo si recherà a far visita al cantiere dell’impianto Epr francese di Flamanville con i membri della commissione di Valutazione di impatto ambientale.

Proprio il dicastero di Via Cristoforo Colombo sembra destinato a giocare un ruolo decisivo nell’approvazione del documento programmatico del Governo per il ritorno al nucleare. Con la riforma del cosiddetto Codice ambiente, contenuta in uno schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri e prossimamente all’esame delle commissioni parlamentari competenti, si prevede che i pareri espressi dal Ministero dell’ambiente a conclusione della valutazione ambientale strategica diventino vincolante per le autorità procedenti che adotteranno i piani sottoposti a VAS. Tradotto in altri termini, il dicastero di Via Cristoforo Colombo, nell’ambito della valutazione ambientale strategica cui sarà sottoposta la strategia nucleare, potrà dettare condizioni inderogabili per la sua approvazione.

Le novità potrebbero riflettersi in una più difficile composizione degli interessi in gioco; ciò comporterebbe ulteriori ritardi in un iter di per sé lungo e accidentato. Il mancato rispetto dei tempi registrato nell’adozione dei principali provvedimenti per l’avvio della politica nucleare sembra quindi essere un dato destinato a caratterizzare ancora a lungo il processo di ritorno all’atomo.

All’immobilismo della politica e l’impasse del ministero guida risponde l’attivismo degli operatori. Sulla scacchiera la cordata Enel-Edf muove per prima, ma sembra oramai cosa fatta la costituzione di un nuovo consorzio E.On – GdfSuez. Tecnologie diverse e di avanguardia si propongono alla politica energetica italiana. L’intesa franco-tedesca conferma la fiducia riposta dagli operatori nella realizzazione del programma nucleare italiano, nonostante i pezzi ancora mancanti. Al Governo il compito di onorare gli impegni assunti.

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