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lunedì 27 dicembre 2010

SICILIA. Revisioni auto. Quelli fatti in Sicilia non valgono ...


PALERMO – “Le revisioni effettuate dalle officine di autoriparazione della Sicilia e le operazioni tecniche di controllo sui veicoli circolanti nel territorio dell’Isola vengono espletate seguendo rigorosamente le vigenti disposizioni legislative europee e nazionali”. Lo afferma l’assessore regionale alle Infrastrutture, Luigi Gentile, in riferimento a quanto riportato, nei giorni scorsi, da alcuni giornali siciliani, secondo i quali la Regione si accaparrerebbe, in maniera ingiustificata, i diritti di motorizzazione.
“Per l’espletamento di tali operazioni tecniche – spiega Gentile – la Regione siciliana si avvale di un sistema telematico, il “portale Pagonline”, gestito dal proprio istituto cassiere, ovvero il Banco di Sicilia Unicredit Group. Cio’ consente di continuare ad acquisire alle casse regionali, i diritti dovuti per ciascuna operazione di revisione, e quindi, di compensare i costi sostenuti per l’esercizio delle attivita’ di rilascio della concessione, per l’effettuazione dei controlli sulle officine, per l’adozione di sanzioni, per l’esame dei ricorsi, per la stampa dei tagliandi di revisione e per la fornitura dei servizi di trasmissione dati”.
“A mio avviso – continua l’assessore – risulta legittimo, il diniego della Regione siciliana ad utilizzare un sistema di revisione dei veicoli gestito (per effetto del decreto dirigenziale emanato dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti il 10 luglio 2009) in regime di monopolio e quindi, in violazione del principio di concorrenza, da Poste italiane. E’ chiara, dunque, la motivazione che spinge la Regione siciliana ad opporsi a questo provvedimento, sollevando tra l’altro un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale”.
“In attesa che il conflitto di attribuzione si risolva, la Regione siciliana continua a farsi carico di tutti gli oneri connessi al trasferimento del personale e al funzionamento degli uffici. Rimane tuttavia indiscussa – conclude l’assessore Gentile – la disponibilita’ della Regione a trovare una soluzione condivisa del problema ma che dovra’ tener conto dei costi che sostiene la Regione per l’esercizio delle funzioni trasferite”.

giovedì 23 dicembre 2010

Il «porcellum» da eliminare di Giovanni Sartori



Il «porcellum» da eliminare
di
Giovanni Sartori

L’ultima malefatta di Berlusconi è stata il porcellum, la legge elettorale varata sotto elezioni che il suo stesso estensore ha definito una «porcata». Tutti d’accordo, oggi, nel ripudiarla. Ma tutti in disaccordo, al solito, su come rifarla. Temendo l’ormai consueto impantanamento, un valente costituzionalista, Giovanni Guzzetta, ha lavorato di cesello sul testo del porcellum ricavandone due quesiti referendari «abrogativi» già depositati — per l’accertamento di ammissibilità — in Cassazione.
Il primo referendum propone che venga abrogata la facoltà di collegamento elettorale tra partiti; dal che consegue che il premio di maggioranza previsto dalla legge vigente sarebbe attribuito al singolo partito più votato invece che all’attuale coalizione di liste. Il secondo referendum propone l’eliminazione delle candidature multiple che oggi coinvolgono addirittura un terzo dei nostri parlamentari. A mio avviso questo secondo referendum è sacrosanto. Candidati che fanno da acchiappavoto in tutto il Paese sono un palese imbroglio degli elettori attratti dal capolista, da Pinco, e poi si ritrovano insediato un ignoto Pallino; e creano anche un plurieletto che è signore del destino di candidati «sudditi» eletti grazie alla sua benevolente rinunzia.
La valutazione del primo referendum è invece più complessa. Come ripeto da sempre, stabilire una soglia di sbarramento (attualmente del 4 per cento alla Camera e dell’ 8 per cento al Senato) e poi consentire coalizioni elettorali è un controsenso: perché le coalizioni vanificano lo sbarramento. Pertanto la proposta di vietare i collegamenti elettorali è anch’essa sacrosanta. Solo così gli sbarramenti funzionerebbero e andrebbero a ridurre drasticamente la nostra frammentazione partitica. Le mie perplessità vertono invece sull’implicazione che—vietate che siano le alleanze — il premio di maggioranza spetta soltanto al primo vincitore. Il sottinteso di questa proposta è meritorio: incentiva l’aggregazione dei partitini in un «partitone » in grado, appunto, di vincere il premio.
Fin qui benissimo. Salvo il rischio — già segnalato da Mannheimer — che il premio venga sdoppiato nelle due Camere tra due partiti diversi. Ma questo è un rischio che ritengo minore. Il più grave è che un partito di maggioranza relativa — attualmente Forza Italia — possa vincere in entrambe le Camere il premio senza aggregarsi con nessuno, e così conseguire una maggioranza assoluta (di seggi) tutto da solo: il che prefigura, in ipotesi, un inedito strapotere di Berlusconi. Si capisce che se la sinistra si fonderà (parzialmente) nel Partito Democratico, in tal caso anche Berlusconi dovrà cercare una amalgama parziale.
Ma il punto è che le aggregazioni a sinistra sono molto più difficili delle aggregazioni a destra. A sinistra le fusioni producono scissioni, e poi il suo cespugliume massimalista non ha nessuna intenzione di lasciarsi fagocitare. Dal che risulta che il premio di maggioranza pone alla nostra sinistra più problemi di quanti sia mai stata in grado di risolvere. La soluzione ideale sarebbe di abolire il premio di maggioranza. Occorre davvero? In Germania il premio non c’è, e la soglia di sbarramento del 5 per cento ha funzionato come doveva. Da noi potrebbe azzerare o quasi una diecina di partitini. Sì, certo, i referendum abrogativi proposti dal professor Guzzetta sono di gran lunga meglio che niente. Ma sarebbero ancora più utili se costringessero i politici a darsi una mossa abrogando anche, ripeto, un premio di maggioranza troppo rischioso o deformante.

del 01 novembre 2006

THE PRINCE Machiavelli ( English Version)


The "Prince" basically sets the rules that are necessary to establish a sovereign state and preserve it. For example, Machiavelli says that a prince should prefer being feared to being loved, he must sacrifice the power interests of the state, shall, when requested by the political necessities, ability also miss the word: I realize that means were sad, but in those troubled times and moved it believed necessary to achieve the great goal that the author was the subject of his meditations: the unification of Italy. Theory that the end justifies the means, was later criticized as being immoral, but, for me, Machiavelli wanted to go back to the true reality of things, that has seen things as they are not as they should be. It is not that he does not appreciate the virtues, but in an age of violence and bullying only a strong and ruthless prince could have been an Italy united and powerful. And this is the ideal that is uppermost in the thoughts of Machiavelli. Let us analyze the various chapters in his book: it begins with a dedication to the Magnificent Lorenzo de 'Medici the Younger. It 's impossible that Machiavelli recognizes this poor gentleman in his ideal prince. The letter is so direct so virtuous man who can implement his teachings. The first chapter speaks of the nature of their rulers and how they fought for. They can be inherited or new, but those stand out among the new entirely new, like Milan with Francesco Sforza, or those that are added to a principle that gains them, as the King of Spain Naples. You win or with their own weapons or those of others, or luck or virtue. Machiavelli makes to the success of every human action fortune, top element to the human will, and virtue, the sum of personal skills. However for the Florentine, the virtuous man can overcome the obstacles put to it by luck. He, in fact, considers his luck as an opportunity to exploit the virtuous person knows. Then the second chapter in particular, the Crown Prince and the third titled "The Mixed principalities," how difficult it is to maintain a new principle, as happened to Louis XII with his duchy of Milan. This chapter also talks about two types of mixed principalities: the near and similar customs to the principality conqueror, who are also the easiest to maintain, and those distant and different, which are the most difficult. According to Machiavelli, it's best to keep the second kind of principle, which are sent to the colonies and that the prince resides there, what exactly did that Louis XII. E 'in this chapter that we see the political thought of Machiavelli: the people in arms may reject even the most battle-hardened armies. In the fourth chapter he explains why the reign of Darius rebelled against the successors was an absolute reign, that the difficulties were in winning, because the people, united and with no idea of rebellion was always subdued and controlled by a single prince, and so it was more difficult to bribe, but once subject and destroyed the dynasty of the ruling there was no one who possessed authority over the people. In contrast, another kind of kingdom, according to the French system, it was easier to conquer, as the king lived in the midst of a crowd of gentlemen loved and recognized by their subjects. These barons, still dissatisfied, they could open yourself up the way for the conquest, but once conquered the kingdom and destroyed the head of the ruling family were also addressed. The fifth chapter describes how we should govern those cities and those principles, which were free before being captured and had their own laws. Machiavelli gives us three ways: to destroy completely, as did the Romans with Capua, Numantia and Carthage. This is the most effective in person or go to reside within them to create a government made up of friends, as the Spartans with Athens and Thebes, but lost. In the sixth chapter we talk about how much more stable won with a new principle in their weapons and capabilities, namely, the virtue of a conquered with luck. This is demonstrated by the examples of Cyrus, Romulus, Moses. The seventh chapter speaks of the fragility of the princely states won with luck, as Cesare Borgia, who, having lost fortune (his father's support of Pope Alexander VI), also lost its status. Among the various methods to win a state that is also through murder of the previous ruling, as did Agathocles of Syracuse. In this chapter, the eighth, we note the distinction between momentary cruelty, cruelty necessary and permanent, not necessary. Machiavelli speaks of civil principality when a private citizen, helped by the people and nobles, a prince of his country. This is the topic of the ninth chapter. There are differences if you are a prince with the help of the nobles or the people: with the help of the nobles have more difficulties because they are considered equal to the prince, but they are easier to defeat because they are few. However the main thing, in either case, you immediately become a friend of the people. When you do not have their own military forces, one must also know how to defend and strengthen their fortifications and implementing a defensive strategy, but such a principle can not be strong reputation (Chapter X). There are also the principles that govern and not have been that subjects who do not command. These are the ecclesiastical princes. The only problems that arise are the first to possess the kingdom, but after the religious institutions, with their strength, help the prince to stay in power even if it's okay. In this chapter, the eleventh, Machiavelli also makes considerations about the various popes who have followed and estimated to have raised: the first of Alexander VI, the papacy enjoyed little credit, but all he did for his son Cesare Borgia, which we discussed earlier, it was over, and the death of his son, to benefit the papacy that inherited the conquests. Then came the time of Julius II as well as being a very large state of the Church, devised a way to make money never implemented first: the sale of indulgences. He also conquered Bologna, subdued the Venetians and expelled the French from Italy. In order for a principle is to lay solid foundations for good, or good laws and good armies. This chapter (XII) is Almighty. They may own or mercenaries, auxiliaries and mixed. For Machiavelli the mercenary forces are one of the most serious drawbacks to the principles that use them, because they are not faithful and concerned only the salary. All his work as a historian and political writer is a battle against the mercenary. He also speaks of Venice and Florence, which they increased their power through mercenary troops. This only happened for a number of favorable conditions. The type of auxiliary troops (Chapter XIII), namely those provided by foreign realms, are the worst, because if you lose is your downfall and if you win you do to the risk that their prisoner and that he did not go away as more Emperor of Constantinople succeeded with ten thousand Turks. Among other things, are even more united and organized than mercenary. The fourteenth chapter focuses on the relationship between the prince and weapons in general: the only task that absolutely must play a prince to keep the state's command and dedicate themselves to arms even in peacetime, as did Francesco Sforza, becoming, by simple citizen, Duke of Milan. To keep in training often must practice hunting and get to know the nature of the place where he lives. A good prince must know how to mimic that in the past that did the best principles, as with Achilles and Alexander the Great with Scipio Cyrus. The author takes as an example of perfect prince Filipomene, which questioned the way wherever he went, in that situation, to withdraw, the enemy withdrew to chase and attack. Fifteenth chapter begins by examining the spiritual qualities of the prince who is the central problem of the Treaty. Machiavelli says that a prince in this chapter, to remain in power, must behave in a manner that is not good regardless of the bad name derived from this behavior. In fact, it is inevitable that a man who wants to lead by good people do good in the midst of going broke. For the author, a prince should put on the same moral level of those who govern. In the sixteenth chapter speaks of generosity and frugality. The bounty is considered in a negative way: at the beginning makes you have a good reputation, later, did the money, it forces you to levy taxes and therefore to be hated by his subjects and not rated by others for poverty. The only time when we should be generous and takes possession of property of others, as did Cyrus and Caesar. Parsimony, however, even if at first you do not enjoy a good reputation, after seeing that you are able to defend themselves and win even without burdening the population, we will consider generous man. They cited the examples of Pope Julius II, who used the bounty only to ascend to power, after devoting himself to the war, Louis XII, who succeeded because of its great frugality, to do a lot of wars with no extra fees. In short, one of the most important defects that help to reign is the stinginess. The seventeenth chapter focuses on the question: better to be loved rather than feared or feared than loved? Fiorentino for a prince to keep his subjects united and faithful, may be considered cruel and should be feared, and will not be either hated or loved. However, the cruelty is essential in war. In the eighteenth chapter speaks of loyalty. It is a very laudable, but not necessary for the purposes of big business, indeed, experience shows that those who were cured of loyalty have always prevailed. This chapter also lists two methods of fighting with the laws and the one with the force. These two methods complement each other and a good prince must have both. The men watch a lot of appearances, so a good ruler must appear fair, merciful, religious, honest and human, even if it is not, but must always be ready to change itself into the exact opposite. So a prince must take care not to result to the means by which we arrive. The nineteenth chapter is a summary of all the features that a prince must be willing to get well: it must not appropriate the things of the people, should not be superficial, effeminate and timid, but must appear brave, and very great strength of character . If this would not achieve self-image, must have two fears: the subjects and foreign powers. From the plots may be the only help from the people, because they do not always reflect the will of all the conspirators, but to defeat an enemy you must have a good army. As usual, Machiavelli makes many historical examples of which I mention a conspiracy involving a failure: Messer Annibale Bentivoglio, Bologna was killed by the Prince of Canneschi. Immediately after the murder, the people of Bologna killed the entire family of Canneschi and he placed a distant relative of the Bologna Bentivoglio, son of a blacksmith. In conclusion, a prince must be careful not to tighten the nobles and to meet the people so as not to be afraid of conspiracies. In this chapter, the twentieth, we talk about what it will be useful to disarm the factions popular subjects or food or building forts. We say that with regard to the disarmament of his subjects, it could be useful when you are faced with a new Prince with a new principality, because they are gratified that those weapons, and if you act contrary are offended, however, when a prince wins a province must disarm, excluding of course those who have been on your side, but also over time weakening the latter. Turning to the factions, the author, internal divisions have never been a good thing, indeed, make the city more vulnerable to the enemy. Continuing with the fortified since ancient times there has been used to build these buildings, but more recently people like Niccolò Vitelli Guidobaldo da Montefeltro and the dismantling. Why is that? Machiavelli says that people are more afraid of the enemies of the people who built fortresses, who otherwise do not build them, and reiterates, saying that the fortress is safer not to be hated by the people. The twenty-first chapter speaks of how even a prince can make a good self-image, an image of a man of great talent and excellent. In domestic policy should be decided, to reward or punish in an exemplary manner. In foreign policy should be admired and be surprised by the subjects with large companies such as Ferdinand of Aragon, but above all it must always stand in favor of someone and never remain neutral so that your ally feels bound by a pact of friendship and gratitude and never lets you down. To give a good image, the prince must also establish the party and participate in meetings of the district but always with great majesty and dignity. Very important is also the choice of ministers. This selection can be seen from the intelligence of a man, surrounding himself with foolish men, the verdict on him can never be good. These ministers should be so devoted to their master to him to think first about themselves and if a prince has the luck to find one so if you must have with gifts and praise. The twenty-third chapter speaks of flatterers. A prince must rely on only a few people who have sincere and genuine choice within his state. He should feel only they and not the final decision must always wait for him. In the twenty-fourth chapter is like a rebuke to the Italian princes who lost their state, as Frederick of Aragon, King of Naples, Ludovico il Moro, Duke of Milan. The reasons are varied, but common: they did not have an army, they were detested by the people or the nobles. Then their fault, not luck. In the twenty-fifth chapter Machiavelli uses a simile to describe his luck. It is like a river if it were fully destroyed everything in, but when it's calm men can build dikes to channel and tame such a force. But luck runs her fury knows where banks were not created to address it. A prince, who lives just relying on it can suddenly go broke, that's because the luck has changed direction. Thus, for Machiavelli is one who has successfully adapted to the times. After several instances this chapter ends with another simile: luck is compared to a woman. Only the impetuous can dominate. In fact it is the companion of the young, fearless and less cautious. The last chapter is an exhortation addressed to the prince of the House of Medici to unite Italy healing wounds, putting an end to looting and taxation continue to tear it. Account that the Swiss and Spanish armies are not as terrible as they say, he could create a third army that will win. Machiavelli concludes reassuring that a new ruling would be welcomed by all with open arms. The last verses are taken from "My Italy" by Petrarch. It appears as a further inducement to the new prince addressed even if just by Petrarch wrote about two hundred years ago: The face under the fury of foreigners, the fight is short because the old value that was in the Italian heart of the Roman people is not dead yet.
Thanks for reading.

La 2° analisi de Il Principe di Machiavelli

Leggi la mia 1° analisi su il Principe.
In questa mia 2° analisi, molto più meno tecnica, il "Principe" espone fondamentalmente le norme che sono necessarie a un sovrano per fondare uno stato e conservarlo. Ad esempio, il Machiavelli dice che un principe deve preferire l’essere temuto all’essere amato; deve sacrificare la virtù all’interesse dello stato; deve, quando lo richiedono le necessità politiche, saper anche mancare la parola data: mi rendo conto che erano tristi mezzi, ma in quei tempi burrascosi e movimentati si credevano necessari per raggiungere il grande scopo che l’autore faceva oggetto delle sue meditazioni: l’unificazione dell’Italia. La teoria che il fine giustifica i mezzi, fu più tardi criticata e ritenuta immorale, ma, per me, il Machiavelli ha voluto andare dietro alla realtà vera delle cose, ha cioè considerato le cose come sono e non come dovrebbero essere. Non è già che egli non apprezzi la virtù, ma in quell’età di prepotenze e di violenza soltanto un principe energico e senza scrupoli avrebbe potuto far dell’Italia uno stato unito e potente. Ed è proprio questo l’ideale che sta in cima ai pensieri di Machiavelli. Passiamo ad analizzare il libro nei suoi vari capitoli: si comincia con una dedica al Magnifico Lorenzo De’ Medici il Giovane. E’ impossibile che il Machiavelli riconosca in questo mediocre signore il suo principe ideale. La lettera è perciò diretta all’uomo così virtuoso che sappia attuare i suoi insegnamenti. Nel primo capitolo si parla di che tipo sono i principati e come si conquistano. Possono essere ereditari o nuovi, ma tra i nuovi si distinguono quelli nuovi del tutto, come Milano con Francesco Sforza, o quelli che vengono aggiunti ad un principato che li conquista, come Napoli col re di Spagna. Si conquistano o con le proprie armi o con quelle di altri, o per fortuna o per virtù. Il Machiavelli mette alla base del successo di ogni azione umana la fortuna, elemento superiore alla volontà umana, e la virtù, la somma delle capacità personali. Comunque per il Fiorentino, l’uomo virtuoso può vincere gli ostacoli postigli dalla fortuna. Egli, insomma, considera la fortuna come un’occasione che l’uomo virtuoso sa sfruttare. Quindi il secondo capitolo tratta in particolare dei principati ereditari e il terzo dal titolo "I Principati Misti", di quanto sia difficile mantenere un principato nuovo, come accadde a Luigi XII con li ducato di Milano. In questo capitolo parla anche di due tipi di principati misti: quelli vicini e simili per usanze al principato conquistatore, che sono anche i più facili da mantenere, e quelli lontani e diversi, che sono i più difficili. Secondo Machiavelli, la cosa migliore per conservare il secondo tipo di principato, è che vengano mandate delle colonie e che il principe vi risieda, cosa appunto che Luigi XII non fece. E’ in questo capitolo che si nota il pensiero politico del Machiavelli: il popolo in armi può respingere anche il più agguerrito degli eserciti. Nel quarto capitolo egli spiega perché il regno di Dario non si ribellò ai successori: era un regno assoluto, cioè le difficoltà venivano nel conquistarlo, in quanto il popolo, unito e senza idea di ribellarsi, era sottomesso e comandato sempre da un solo principe, e quindi era più difficile da corrompere, ma una volta assoggettato e distrutta la dinastia del regnante non c’era più nessuno che possedesse autorità sul popolo. Al contrario l’altro tipo di regno, quello secondo il sistema francese, era più facile da conquistare, in quanto il re viveva in mezzo a una moltitudine di signori amati e riconosciuti dai rispettivi sudditi. Questi baroni, sempre scontenti, potevano aprirti la strada per la conquista, ma una volta conquistato il regno e distrutta la famiglia regnante potevano anche capeggiare delle rivolte. Il quinto capitolo descrive il modo in cui si debbano governare quelle città e quei principati, che prima di essere conquistati erano libere e avevano leggi proprie. Il Machiavelli ci da tre metodi: distruggerla totalmente, come fecero i Romani con Capua, Numanza e Cartagine. Questo è il metodo più efficace; andarci a risiedere personalmente o creare all’interno di essi un governo costituito da amici, come gli Spartani con Atene e Tebe, che però persero. Nel sesto capitolo si parla di quanto sia più stabile un principato nuovo conquistato con le proprie armi e capacità, cioè con la virtù, di uno conquistato con la fortuna. Questo lo dimostrano gli esempi di Ciro, Romolo, Mosè. Il settimo capitolo parla della fragilità dei principati conquistati con la fortuna, come Cesare Borgia che, persa la fortuna (appoggio del padre papa Alessandro VI), perse anche lo stato. Tra i vari metodi per conquistare uno stato c’è anche quello attraverso l’omicidio del regnante precedente come fece Agatocle siracusano. In questo capitolo, l’ottavo, si nota anche la distinzione tra crudeltà momentanea, necessaria e crudeltà permanente, non necessaria. Machiavelli parla di principato civile quando un privato cittadino, aiutato dal popolo o dai nobili, diventa principe della sua patria. Questo è l’argomento del nono capitolo. Vi sono delle differenze se si diventa principe con l’aiuto del popolo o dei nobili: con l’aiuto dei nobili si hanno maggiori difficoltà perché essi si considerano uguali al principe, però sono più facile da sconfiggere perché sono pochi. Comunque la cosa principale, in un caso o nell’altro, è farsi subito amico il popolo. Quando non si possiedono delle forze militari proprie, bisogna anche sapersi difendere, rafforzando le proprie fortificazioni e attuando una tattica difensiva, ma un tale principato non si può reputare forte (cap. X). Vi sono anche dei principi che possiedono stati che non governano e sudditi che non comandano. Questi sono i principi ecclesiastici. Le uniche difficoltà che trovano si presentano prima di possedere il regno, ma dopo le istituzioni religiose, con la loro forza, aiutano il principe a restare al potere anche se non fa niente. In questo capitolo, l’undicesimo, Machiavelli fa anche delle considerazioni sui vari papi che si sono succeduti e sulla stima che hanno suscitato: prima di Alessandro VI, il papato godeva di poco credito, ma con tutto quello che egli fece per il figlio Cesare Borgia, di cui abbiamo parlato prima, finì, alla morte sua e del figlio, per avvantaggiare il papato che ne ereditò le conquiste. Poi venne il tempo di Giulio II che oltre a trovarsi uno stato della Chiesa molto grande, escogitò un modo per fare soldi mai attuato prima: la vendita delle indulgenze. Egli inoltre conquistò Bologna, sottomise i Veneziani e cacciò i Francesi dall’Italia. Affinché un principato sia solido deve posare su buone fondamenta, ovvero buone leggi e buoni eserciti. Questo capitolo (XII) tratta degli eserciti. Essi possono essere propri o mercenari, ausiliari e misti. Per il Machiavelli le milizie mercenarie costituiscono uno dei più gravi inconvenienti per i principi che se ne servono, perché poco fedeli e interessate solo allo stipendio. Tutta la sua opera di storico e di scrittore politico è una battaglia contro le compagnie di ventura. Egli parla anche di Venezia e Firenze che accrebbero il loro potere grazie a truppe mercenarie. Accadde ciò solo per una serie di condizioni favorevoli. Le truppe di tipo ausiliario (cap. XIII), cioè quelle fornite da regni stranieri, sono le peggiori, in quanto se perdi è la tua rovina e se vinci ai il rischio che ti facciano loro prigioniero e che non se ne vadano più via come successe all’imperatore di Costantinopoli con diecimila Turchi. Tra l’altro sono anche più unite e organizzate di quelle mercenarie. Il quattordicesimo capitolo verte sul rapporto tra il principe e le armi in generale: l’unico compito che un principe deve assolutamente svolgere per tenersi lo stato che sta comandando è dedicarsi alle armi anche in tempo di pace, come fece Francesco Sforza diventando, da semplice cittadino, duca di Milano. Per tenersi in allenamento deve praticare spesso la caccia e imparare a conoscere la natura dei luoghi dove vive. Un buon principe deve saper imitare quello che in passato fecero i principi migliori, come Alessandro Magno con Achille e Scipione con Ciro. L’autore porta come esempio di principe perfetto Filipomene, che dovunque andasse si interrogava sul modo, in quella situazione, per ritirarsi, per rincorrere il nemico ritirato e per attaccare. Comincia dal capitolo quindicesimo l’esame delle qualità spirituali del principe che costituisce il problema centrale del trattato. Il Machiavelli afferma in questo capitolo che un principe, per restare al potere, deve comportarsi anche in maniera non buona senza curarsi della cattiva fama derivata da questo comportamento. Infatti è inevitabile che un uomo che si vuole comportare da buono in mezzo a gente non buona vada in rovina. Per l’autore, un principe si deve mettere sullo stesso piano morale di chi governa. Nel sedicesimo capitolo si parla della munificenza e della parsimonia. La munificenza è considerata in maniera negativa: all’inizio ti fa avere una buona fama, dopo, finiti i soldi, ti costringe a imporre tasse e quindi ad essere odiato dai sudditi e poco stimato dagli altri per la povertà. L’unico momento in cui bisogna essere munifici è quando ci si impadronisce di beni altrui, come fecero Ciro e Cesare. La parsimonia invece, anche se all’inizio non ti farà godere di buona fama, dopo, vedendo che si è capaci di difendersi e di conquistare anche senza gravare sulla popolazione, ti farà considerare uomo generoso. Vengono citati gli esempi di Papa Giulio II che usò la munificenza solo per salire al potere, dedicandosi dopo alla guerra, Luigi XII che riuscì, per la sua grande parsimonia, a fare tante guerre senza tasse extra. Insomma uno dei vizi più importanti che aiutano a regnare è la taccagneria. Il diciassettesimo capitolo è incentrato sulla domanda: meglio essere amati piuttosto che temuti o temuti piuttosto che amati? Per il Fiorentino un principe, per tenere i suoi sudditi uniti e fedeli, può essere ritenuto crudele e deve essere temuto al punto da non essere né odiato né amato. Comunque la crudeltà è indispensabile in guerra. Nel diciottesimo capitolo si parla di lealtà. Essa è una cosa molto lodevole, ma non necessaria al compimento di grandi imprese, anzi l’esperienza insegna che coloro che non si sono curati della lealtà hanno sempre prevalso. In questo capitolo sono elencati anche due metodi di combattimento quello con le leggi e quello con la forza. Questi due metodi si completano a vicenda e un buon principe deve possedere tutti e due. Gli uomini guardano molto alle apparenze, quindi un buon regnante deve apparire leale, clemente, religioso, onesto e umano anche se non lo è, ma deve essere sempre pronto a mutarsi nell’esatto contrario. Insomma un principe deve badare al risultato non ai mezzi con cui ci arriva. Il diciannovesimo capitolo è come un riassunto di tutte le caratteristiche che un principe deve avere per farsi ben volere: non deve appropriarsi delle cose del popolo, non deve essere superficiale, effemminato e pauroso, ma deve apparire coraggioso, grande e con molta forza di carattere. Qualora non offrisse questa immagine di sé, deve avere due paure: i sudditi e le potenze straniere. Dalle congiure l’unico aiuto può venire dal popolo, in quanto non sempre i congiurati rispecchiano il volere di tutti, invece per sconfiggere un nemico devi possedere un buon esercito. Come al solito il Machiavelli fa molti esempi storici di cui ne cito uno riguardante una congiura fallita: Messer Annibale Bentivoglio, principe di Bologna fu ucciso dai Canneschi. Subito dopo l’omicidio, il popolo di Bologna uccise tutta la famiglia dei Canneschi e mise a capo di Bologna un lontano parente del Bentivoglio, figlio di fabbro. In conclusione un principe deve stare attento a non inasprire i nobili e a soddisfare il popolo in modo da non temere le congiure. In questo capitolo, il ventesimo, si parla di quanto possa essere utile disarmare i sudditi o alimentare le fazioni popolari o costruire fortezze. Diciamo che per quanto riguarda il disarmo dei sudditi, si può rivelare positivo quando si è di fronte a un principe nuovo con un nuovo principato, in quanto vengono gratificati quelli che armi, mentre se agisci al contrario vengono offesi, invece quando un principe conquista un provincia è necessario disarmarla, escludendo naturalmente quelli che sono stati dalla tua parte, ma col tempo indebolendo anche quest’ultimi. Passando alle fazioni, per l’autore, le divisioni interne non sono state mai qualcosa di positivo, anzi rendono le città più fragili di fronte al nemico. Continuando con le fortezze fin dai tempi antichi si è avuta l’abitudine di edificare queste fortificazioni, ma gente più recente come Niccolò Vitelli e Guidobaldo da Montefeltro le smantellò. Perché questo? Il Machiavelli dice che chi ha più paura del popolo che dei nemici costruisce fortezze, chi il contrario non le costruisce e ribadisce dicendo che la fortezza più sicura è il non essere odiati dal popolo. Il capitolo ventunesimo parla ancora di come un principe possa dare una buona immagine di sé, un’immagine di uomo grande e di ingegno eccellente. In politica interna deve essere deciso, deve premiare o castigare in maniera esemplare. In politica estera deve farsi ammirare e deve stupire i sudditi con grandi imprese come Ferdinando d’Aragona, ma soprattutto deve sempre schierarsi a favore di qualcuno e mai restar neutrale in modo che il tuo alleato si senta legato da un patto di amicizia e di riconoscenza e non ti abbandoni mai. Per dare una buona immagine, il principe deve anche istituire delle feste e partecipare ai raduni di quartiere sempre però con grande maestà e dignità. Molto importante è anche la scelta dei ministri. Si nota da questa selezione l’intelligenza di un signore; circondandosi di uomini stolti, il giudizio su di lui non potrà essere mai buono. Questi ministri devono essere così devoti al loro signore da pensare prima a lui che a loro stessi e se un principe ha la fortuna di trovarne uno così se lo deve mantenere con doni e elogi. Il ventitreesimo capitolo parla degli adulatori. Un principe deve fidarsi solo di poche persone sincere e veritiere che avrà scelto all’interno del suo Stato. Deve sentire solo loro e comunque l’ultima decisione deve aspettare sempre a lui. Nel ventiquattresimo capitolo vi è come un rimprovero verso i principi italiani che persero il loro Stato, come Federico d’Aragona, il re di Napoli e Ludovico il Moro, duca di Milano. Le motivazioni sono varie, ma comuni: non possedevano un esercito proprio, erano detestati dal popolo o dai nobili. Colpa loro quindi, non della fortuna. Nel venticinquesimo capitolo il Machiavelli adopera una similitudine per descrivere la fortuna. Essa è come un fiume che quando è in piena distrugge tutto quello che trova, ma quando è calmo gli uomini possono creare argini in modo da incanalare e domare tale forza. Ma la fortuna dirige la sua furia dove sa che non sono stati creati argini per indirizzarla. Un principe, che vive fidando solo su di essa, all’improvviso può andare in rovina, questo perché la fortuna ha cambiato direzione. Quindi, per il Machiavelli ha successo colui che si adatta ai tempi. Dopo vari esempi questo capitolo si conclude con un’altra similitudine: la fortuna viene paragonata a una donna. Solo gli impetuosi la possono dominare. Infatti è compagna dei giovani, impavidi e meno cauti. L’ultimo capitolo è un’esortazione rivolta al principe di Casa dei Medici affinché riunisca l’Italia sanando le ferite, ponendo fine ai saccheggi e alle imposizioni fiscali che continuano a lacerarla. Contando che gli eserciti svizzeri e spagnoli non sono così terribili come si dice, egli potrebbe creare un terzo esercito che li vinca. Il Machiavelli conclude rassicurando che un nuovo regnante sarebbe accolto da tutti a braccia aperte. Gli ultime versi sono tratti da "Italia mia" del Petrarca. Appare come un ulteriore incitamento rivolto al nuovo principe proprio dal Petrarca anche se scritto circa duecento anni prima: La virtù affronterà la furia degli stranieri; il combattimento sarà corto perché l’antico valore che fu del popolo romano nei cuori italici non è ancora morto.
Grazie e alla prossima.

Analisi de Il principe di Machiavelli


Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio 1469, in una realtà storico-politica complessa. Siamo a cavallo tra il XV e XVI secolo e la situazione dell'Italia si fa sempre più drammatica, frantumata in diversi principati e stati regionali, in conflitto tra di loro e al contempo dilaniati da frequenti tensioni interne. Il quadro storico che fa da sfondo al suo primo affacciarsi alla vita civile è quello, dopo la morte di Lorenzo il magnifico, della Firenze repubblicana, Savonarola e post-piagnona, e quindi nuovamente medicea. Inoltre importanti furono le incursioni francesi e spagnole in territorio italiano e le interminabili tensioni tra i vari stati della penisola. Machiavelli, svolgendo numerose cariche diplomatiche e amministrative, è a diretto contatto con la difficile condizione italiana. Inviato a più riprese presso le potenze estere come incaricato d'affari, svolge con intelligenza e saggezza le sue missioni. E' designato pure a trattare numerosi affari e questioni presso varie città italiane, Pisa in primo luogo. Dopo l'assunzione a segretario della seconda cancelleria, egli trascorre più tempo in viaggi che negli uffici. Da tutte le legazioni egli ricava senza dubbio importanti lezioni di vita e di politica, fondamentali per la formazione della sua personalità e soprattutto del suo pensiero. Con le missioni e i vari incarichi si arricchiscono giorno dopo giorno in Machiavelli l'esperienza politica e la conoscenza di uomini e situazioni. La forzata sosta a partire dal 1512, con la destituzione e l'esilio, spinge Machiavelli a riversare tutto il suo interesse e la sua passione politica nell'attività teoretica, elaborando un'innovativa visione della politica, che pone le salde fondamenta per quella moderna. Egli, distaccandosi dalla linea ideale tipicamente umanista, si orienta verso la feconda tendenza realistica diretta alla rappresentazione più oggettiva della realtà, del quotidiano, all'osservazione attenta e spregiudicata del reale in ogni suo aspetto. Per Machiavelli il mondo reale è quello della storia e della politica: in questi due campi concreti egli affonda l'arma della sua intelligente analisi e del suo spirito pratico, per cogliere nella loro verità i fatti e le azioni degli uomini, prescindendo da ogni visione religiosa e trascendente e da ogni valutazione di natura morale. Per lui la storia e la politica altro non sono che gli uomini reali nelle ragioni e nelle finalità del loro agire, gli uomini di ieri (storia) e di oggi (politica) studiati sulla base di quanto scritto dagli autori antichi e alla luce dell'esperienza diretta. Machiavelli intuisce una sostanziale continuità tra la storia antica e i fatti contemporanei, ovvero tra storia e politica. La storia è il modello perenne a cui il politico può attingere. Essa è il piano e il frutto dell'agire umano autonomamente concepito, reso indipendente da presupposti morali e religiosi, è il prodotto dell'attività dell'uomo con finalità intrinsecamente pratiche.
Il Principe è un’operetta molto breve, scritta in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero; si articola in ventisei capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino, secondo la consuetudine trattistica di quel periodo. La materia è divisa in diverse sezioni. Nei capitoli dal I all’XI si esaminano i vari tipi di principato e mira ad individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra principati ereditari, a cui è dedicato il II capitolo, e nuovi; questi ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo stato ereditario di un principe, capitolo III, o nuovi del tutto, capitolo IV e V; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie, capitolo VI; oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui, capitolo VII in cui viene proposto come esempio il Duca Valentino. Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze; qui il Machiavelli distingue la crudeltà in due modi: bene e male. La “crudeltà bene” è quella impiegata solo per assoluta necessità e che si conviene nella maggiore utilità possibile per i sudditi; mentre la “crudeltà male” è quella che cresce col tempo anziché cessare ed è compiuta per l’esclusivo vantaggio del tiranno. Nel capitolo IX si affronta il principato civile, in cui il principe riceve il potere dai cittadini stessi; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell’XI si parla dei principati ecclesiastici, in cui il potere è detenuto dall’autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I capitoli dal XII al XIV sono dedicati al problema delle milizie. Machiavelli giudica negativamente l’uso degli eserciti mercenari perché combattevano solo per denaro, sono infidi e pertanto costituiscono una della cause principali della debolezza degli stati italiani e delle pesanti sconfitte da essi subite nelle recenti guerre; per il Machiavelli la forza di uno stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattono per difendere i loro averi e la loro vita. Nei capitoli dal XV al XXIII tratta dei modi di comportarsi del principe coi sudditi e con gli amici. E’ la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente è più radicale e polemico, in cui Machiavelli, anziché esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe, va dietro alla scelta effettuale delle cose. Sono questi capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore, e hanno tirato per secoli su Machiavelli l’esecrazione e la condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella crisi successiva al 1494, hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è essenzialmente l’ignavia dei principi, che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava e porvi i necessari ripari. Da qui scaturisce naturalmente l’argomento del capitolo XXV, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre gli argini alle variazioni della fortuna, paragonata ad un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L’ultimo capitolo, cioè il XXVI, è un’appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energetico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l’Italia dai barbari.
La vasta esperienza che Machiavelli ebbe modo di approfondire sugli affari di stato e di governo lo portò a delineare la figura di un governante ideale, in grado di reggere uno stato forte e di affrontare con successo sia gli attacchi esterni sia le sollevazioni dei sudditi all'interno. Nella maggior parte dei suoi scritti tratteggiò un'analisi politica molto realista della situazione a lui contemporanea, confrontandola con esempi tratti dalla storia, soprattutto da quella romana.
Nella sua opera più famosa, Il Principe (1513-14, ma pubblicato a stampa solamente nel 1532), analizzò i vari generi di principati e di eserciti, e cercò di delineare le qualità necessarie a un principe per conquistare e conservare uno stato, e per ottenere il rispettoso appoggio dei sudditi. Secondo Machiavelli, ciò che permette a un principe di mantenere il controllo del proprio stato non va cercato in un comportamento corretto o morale; occorre bensì guardare la "realtà effettuale della cosa": se questa è dominata dalla lotta, il principe dovrà imporsi con la forza.
L'affermazione, che è stata spesso interpretata come una difesa del dispotismo e della tirannia di principi quali Cesare Borgia, si basa sulla convinzione che chi governa non debba essere vincolato dalle tradizionali norme etiche: è meglio essere amato che temuto, oppure è meglio il contrario? La risposta è che sarebbe auspicabile essere entrambe le cose ma, dovendo scegliere, poiché risulta difficile unire le due qualità, per un principe è molto più sicuro essere temuto che amato. Il concetto è così tradotto nell'asciutta prosa di Machiavelli: "Nasce da questo una disputa: s'elli è meglio essere amato che temuto, o 'l converso. Respondesi, che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma, perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell'uno de' dua".
Secondo Machiavelli, un principe dovrebbe interessarsi solo del potere e sentirsi vincolato solo da quelle norme (tratte dalla storia) che conducono le azioni politiche al successo, superando gli ostacoli imprevedibili e incalcolabili posti in gioco dalla Fortuna.

Primo capitolo

È una sintesi di tutta la trattazione;l’esordio è classificatorio:una volta distinte le forme di governo, viene brevemente delineata la tipologia dei principati, che possono essere ereditati o nuovi:per nuovi si intende sia misti (formati dalle aggiunte di nuove conquiste) o del tutto nuovi.Come esempio di principato del tutto nuovo viene riportato quello della conquista di Milano da parte del capitano Francesco Sforza, mentre come esempio di principato misto viene riportata la conquista dei Napoli da Ferdinando il cattolico.Infine vengono elencati i mezzi per realizzare tale conquista.
Terzo capitolo

Si considerano i principati misti.Machiavelli valorizza la sua esperienza personale nella segreteria e nella concezione d’esemplarità della storia romana. L’occupazione di Milano serve a esemplificare le difficoltà dei principi nuovi. La condotta tenuta dai romani serve ad additare a ogni principe saggio la condotta da tenere nelle regioni conquistate.Balza in primo piano la necessità di prevenire tempestivamente gli ostacoli futuri.
Sesto capitolo

Illustra la situazioni di coloro che al principato pervengono con armi proprie.L’attacco del capitolo segna una svolta:si avvia la discussione sui principati del tutto nuovi, sia per dinastia che per tipo di governo. L’attenzione si sposta sulla ricerca della corretta azione politica.Per raggiungere tale obbiettivo bisogna ispirarasi ai grandissimi esempi di Mosè, Ciro. Teseo, Romolo, i quali seppero istituire i nuovi ordini. Come esempio negativo viene citato Savonarola che non ricorse all’uso della forza, ritenuto necessario da Machiavelli perché tutti e’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinarono
Settimo capitolo

Coloro che conquisteranno una stato con l’aiuto altrui, lo manterrano con grandissime difficoltà. Lo Stato così realizzato è paragonabile ad un albero cresciuto troppo in fretta, privo delle radici e vulnerabile alla prima tempesta.Nelle cose dello stato però, è posibile forzare i tempi e combattere nelle più estreme difficoltà. A rappresentare adeguatamente il caso limite è il Valentino, indicato come modello da chi voglia fare e mantenere uno stato, ma anche lui, fondandosi sulla fortuna altrui, ruina, sebbene avesse sterminato i suoi avversari e avesse cercato d’essere previdente rispetto al futuro:per far eleggere in successione al padre un papa non ostile, tentò di controllare il seggio, tentò di costruire un vasto stato centro italiano.Tuttavia sia il padre che lui si ammalarono troppo presto.Un errore fatale fu quello di non aver ostacolato l’elezione di Giulio II Della Rovere
Nono capitolo

A favorire il privato cittadino nella conquista dello stato è il consenso del popolo o quello dei ceti medi. Ricorrendo ad un termine caro alla propria concezione biologica e naturalistica della società, Machiavelli due umori in seno alle lotte sociali:il popolo e i grandi: si tratta di due appetiti antagonisti: quello del popolo che resiste all’oppressione e quello dei grandi che vuole opprimere. Chi perviene al principato con il consenso dei grandi mantiene il potere con maggiore difficoltà rispetto a cxhi gode del consenso popolare.
Quindicesimo capitolo

Ha inizio la riflessione sulla concreta prassi politica.Il principe che voglia mantenere deve essere buono o non buono a seconda della necessità. E’ perciò da respingere il catalogo delle qualità e dei vizi da perseguire o da fuggire, come compariva nella precedente trattazione politica.Sul terreno della prassi politica ciò che talora è qualità, altre volte può essere vizio.Il vizio adoperato per difendere lo stato risponde ad un’esigenza collettiva.Le virtù morali usate a sproposito risultano causa di ruina
Diciottesimo capitolo

Machiavelli con una figura biologica disegna due diversi modi di combattere:quello dell’uomo e quello della bestia.Il primo ha come risulatato le leggi, il secondo la violenza.Quando le leggi non sono sufficienti si deve ricorrere alla violenza. Poiché il principe deve per necessità impiegare anche la parte bestiale, Machiaveli illustra in due modi in cui essa si manifesta:ricorre alle figure della volpe e del leone, immagini dell’astuzia accorta e simulazione e dell’impeto violento, con i quali è possibile evitare i tranelli e vincere la violenza degli avversari.Per il principe è più utile simulare pietà, fedeltà, umanità che osservarle veramente.Le doti etiche sono pure illusioni nella lotta politica.Il dovere del principe è vincere e mantenere lo stato.Il volgo guarderà solo le apparenze, mentre pochi che non giudicheranno dalle apparenze non riusciranno a imporsi perché la maggioranza è dalla parte del principe.
Venticinquesimo capitolo

La fortuna è arbitra di metà delle azioni umane mentre l’altra metà resta nelle mani degli uomini;la fortuna è paragonata ad un fiume rovinoso che allaga le pianure e distrugge gli alberi e le case: gli uomini previdenti devono disporre per tempo gli argini. Tuttavia si possono vedere principi salire al potere o rovinare senza che essi abbiano modificato il proprio comportamento, Machiavelli ricorre alla mutevolezza continua delle circostanze storiche e della fortuna, non ruina colui che riesce a mettersi in sintonia con la qualità dei tempi.

E' in questa nuova e innovativa ottica, che Machiavelli si dedica alla stesura del Principe, l'emblema della nuova concezione machiavellica.
L'opera, in quanto forma letteraria, è da ascrivere al genere didascalico e, all'interno di questo, al sottogenere della trattatistica; come tale, si rifa a una tradizione che risale al medioevo, ma che per le sue novità tematiche e metodologiche, invece, si proietta verso la più ardita modernità e anticipa la moderna saggistica e trattatistica politica.

Il Principe si compone di una Dedica e ventisei capitoli di varia lunghezza.
Come per ogni opera, anche per il Principe si può parlare di genesi esterna e di genesi interna, intendendo con la prima, le ragioni più immediate ed estrinseche che ne ispirano la stesura e con la seconda, le ragioni più intime e profonde, quelle che affondano nella personalità e nella formazione culturale dell'autore. Le cause esterne sono da ricercare, quasi sicuramente, nella notizia diffusa in quegli anni circa il disegno politico del papa mediceo Leone X: il papa accarezza il progetto di dar vita ad uno stato per i nipoti Giuliano e Lorenzo e quindi Machiavelli sembra essere spinto sia dalla volontà di riconquistare il favore dei Medici, sia soprattutto dal fatto che intravede con chiarezza la possibilità reale dell'azione di un principe come egli prefigura. Le ragioni più profonde dell'ispirazione coincidono con le due coordinate fondamentali della formazione e della meditazione politica di Machiavelli: lo studio e l'interpretazione della storia antica, di quella romana in particolare e l'esperienza della realtà contemporanea, frutto di 15 anni di servizio pubblico nei vari uffici e incarichi.

Il Principe rappresenta il culmine raggiunto dal processo di "fondazione" della scienza politica, in cui Machiavelli si propone di voler considerare la politica e lo Stato esclusivamente come realtà di fatto, come verità "effettuali", per poi esaminare la natura ed affermare decisamente la piena autonomia della politica da ogni altra forma di attività. Machiavelli traccia la figura del perfetto uomo politico: colui che sa raggiungere il fine che si propone, che sa adeguare la sua azione alle norme proprie dell'agire politico, diverse da quelle della morale, e sa fondare e mantenere lo stato.

Numerose sono le tematiche toccate dall'autore nella stesura dell'opera:

- Guerra e pace
La pace è fondata sulla guerra esattamente come l'amicizia è fondata sull'uguaglianza, quindi in ambito internazionale l'unica uguaglianza possibile è l'uguale potenza bellica degli Stati. La forza della sopravvivenza di qualsiasi Stato (democratico, repubblicano o aristocratico) è legata alla forza dell'esercizio del suo potere, e quindi deve detenere il monopolio legittimo della violenza, per assicurare sicurezza interna e per prevenire una 'potenziale' guerra esterna. (in riferimento ad una delle lettere proposte al Consiglio Maggiore di Firenze (1503), con la speranza di Machiavelli di convincere il Senato fiorentino l'introduzione di una nuova imposta per rafforzare l'esercito, necessario per la sopravvivenza della Repubblica Fiorentina)

- Virtù-fortuna
La virtù e la fortuna sono due forze e la politica rappresenta il campo di scontro tra di esse.
Per l'instaurazione e la conservazione di uno stato sono indispensabili le virtù di un singolo, del principe appunto. La virtù in senso machiavellico è essenzialmente politica, riguarda il cittadino ed è rivolta a beni e conquiste pratici e terreni. Ma è pure intesa nel senso antico di virtus, cioè come insieme delle qualità proprie del vir, dell'uomo forte, capace, attivo: la forza, l'energia, il dinamismo, che possono qualificare azioni e comportamenti anche in contrasto con la morale cristiana. Di contro all'esercizio di tali virtù l'ostacolo principale è rappresentato dalla presenza di una forza oscura, che si frappone sempre fra l'agire umano e politico e che sfugge facilmente alla presa: la fortuna, la quale indica per Machiavelli il mutamento casuale e incontrollabile degli avvenimenti, e non un agente o un'entità soprannaturale e neanche, come la definisce Dante, ministra di Dio, della sua Provvidenza.
Machiavelli intende racchiudere in questo concetto tutto ciò che appartiene al caso, tutti gli elementi imprevedibili che sono presenti nella vita dell'uomo e che sembrano muovere e trasformare gli eventi al di la e a volte anche contro la volontà umana. Non si tratta comunque di una forza fredda e impersonale, ma è descritta come capricciosa e inconoscibile. Ma in ogni caso, alla virtù è assegnata la possibilità di far fronte alla fortuna. Machiavelli ritiene che l'intervento attivo degli uomini negli eventi non è necessariamente votato al fallimento. Le probabilità di successo dipendono dalla virtù di chi agisce, e il politico deve trovare in essa lo stimolo costante ed operare attivamente e coraggiosamente per frenare e limitare l'influenza della fortuna: contro la necessità del caso deve essere opposta la forza umana. La virtù umana si può poi imporre alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti di calma l'abile politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari ripari.

- "Il fine giustifica i mezzi"
Il Principe prende le distanze dai trattatisti dell'Umanesimo, dai vari Alberti, Salutati, Pontano, e si discosta anche dai classici. Vista la differenza abissale tra come si vive e come si dovrebbe vivere, riconosciuta la natura malvagia degli uomini, l'autore decide di attenersi alla realtà, e di elaborare una nuova posizione governativa nell'ottica secondo la quale la politica rappresenta un territorio autonomo di studio. In questo senso trova spazio la massima "il fine giustifica i mezzi". Per Machiavelli tale dritta è da applicarsi solo ed esclusivamente nel settore politico che discerne da tutti gli altri ambiti. Egli ritiene che per acquistare e conservare il potere sia necessario scavalcare l'etica e la morale, e plasmare le proprie azioni sulla natura e sulle necessità dell'uomo. Per questo un buon Principe deve essere uomo, ma animale allo stesso tempo, racchiudendo in se le caratteristiche di 2animali simbolo: la volpe e il leone, nel senso che deve essere forte e autoritario, ma anche astuto e furbo. Machiavelli asserisce inoltre ch'egli debba, adattandosi al popolo, essere un bravo simulatore e dissimulatore, cioè far credere grandi qualità d'integrità e nascondere la proprio vera natura. Il principe, in sostanza, non può permettersi di essere buono, quando questo sia controproducente. La valutazione morale e le utili norme di comportamento viaggiano su strade separate. Non si tratta di una nuova morale, né di una doppia morale; si tratta piuttosto dell'
enunciazione dell'a-moralità come necessaria legge politica.

Se per la maggior parte delle sue tesi Machiavelli con il suo Principe si rende innovativo, originale e anche perspicace nel comprendere a fondo la realtà e nell'opporvi rimedi giusti e tuttora attuali rimedi, è vero anche che guardate da altre prospettive alcune delle sue teorie possono rilevarsi abbastanza inefficaci. Evidente è lo scontro tra il realismo della descrizione politica a lui contemporanea e l'utopia nella rappresentazione di un principe inattuale e quasi figura di un eroe mitologico.
Nella stesura del Principe si coglie inoltre una sorta di sopravvalutazione della virtù del Principe-Stato, inteso qui come il redentore di un peccato originale della collettività, risiede il limite più vistoso e storicamente determinato da Machiavelli: l'esasperazione individualistica del bene politico. Il Principe è solo a scagliarsi contro l'immane forza della natura e della fortuna; la storia è svolgimento di atti virtuosi o viziosi individuali, è la lotta in cui l'uomo vince o perde solo in grazia della sua abilità di rapporto con la realtà effettuale.

La “Golpe” e il “Lione”
Machiavelli esamina il problema della fedeltà o meno alla parola data.
Inizia affermando quanto sia degno di lode il principe che mantiene la parola data, però
tutti i grandi principi dei suoi tempi hanno tenuto poco conto di ciò.
Esistono due tipi di lotta politica:

Con l’ausilio delle leggi, metodo tipico dell’uomo

Con la forza, tipico delle bestie

Un principe non può affidare il suo potere solo ad uno di questi metodi ma devono usarli entrambi, anche gli scrittori classici affermano allegoricamente questo, scrivono infatti che i principi dei loro tempi erano educati da centauri, creature mitologiche metà uomo e metà cavallo.
Un principe deve prendere a modello, tra gli animali, la volpe, simbolo di furbizia, e il
leone, simbolo di forza.
Non può un signore osservare la parola data quando questa gli sia sfavorevole o quando
siano esaurite le ragioni di tale promessa. A motivazione dice:
1. Se gli uomini fossero tutti buoni ciò sarebbe sbagliato, ma poiché sono malvagi e non
manterrebbero la parola data a te, anche tu non ne hai l’obbligo
2. Non sono mai mancati, ne mancheranno, a un principe pretesti legali per giustificare la
mancata osservanza della parola data
Ritiene però necessario mascherare bene l’essere “volpe” in modo che colui che inganna

troverà sempre chi si lascerà ingannare, ad esempio Alessandro sesto.
Ad un principe, quindi, non è necessario essere fedele, umano, pietoso, religioso e onesto,
qualità che potrebbero risultargli dannose, ma è necessario che lo sembri.

Un signore non può osservare tutti i principi per i quali vengono definiti buoni gli uomini, deve, quando necessario, operare contro questi principi e deve sapersi volgere a seconda del caso e delle circostanze.

Deve quindi un principe dire sempre parole piene delle cinque qualità soprascritte, soprattutto religiosità, in quanto quasi tutti vedono quello che si sembra (le persone volgari si lasciano sempre convincere dall’apparenza delle cose o dalla riuscita delle azioni), o che si vuol sembrare, ma pochi vedono quello che si è realmente. Questi non potranno opporsi all’opinione dei molti soprattutto se difesi dallo stato. Esempio Ferdinando il Cattolico, re di Spagna.
Grazie e alla prossima se vuoi puoi leggere la mia seconda analisi sul Il Principe.

Il significato del Focus group


Un focus group è una forma di ricerca qualitativa, in cui un gruppo di persone è interrogato riguardo all'atteggiamento personale nei confronti di un tema specifico. Le domande sono fatte in un gruppo interattivo, in cui i partecipanti sono liberi di comunicare con altri membri del gruppo. Il focus group è una tecnica particolarmente usata nella ricerca pubblicitaria e nel marketing, come strumento utile per lo sviluppo di nuove idee e per l'acquisizione di feedback riguardo ai nuovi prodotti. In particolare, permettono alle imprese e alle agenzie di discutere, osservare o esaminare il nuovo prodotto prima che esso sia messo a disposizione del pubblico.

Il focus group, però, nasce originariamente come tecnica usata nella ricerca sociale per poter arrivare a comprendere gli atteggiamenti, i comportamenti e i significati degli attori riguardo un certo tema d’analisi (il focus): compito del ricercatore è favorire la discussione e dirigerla verso i temi ritenuti più interessanti per l’oggetto di studio. Attraverso questa tecnica basata molto sulla libertà di espressione dei membri del gruppo può accadere spesso che emergano aspetti del tema dibattuto non ancora considerati dallo studioso.
Vi sono differenti tipi di focus group, tra i quali: il focus group a due vie (ossia un gruppo osserva un altro focus group e discute sulle interazioni e sulle conclusioni osservate); il focus group con due moderatori (i due moderatori assolvono a due compiti differenti: uno assicura lo sviluppo uniforme della discussione, l’altro garantisce che tutti gli argomenti siano presi in considerazione); il focus group con moderatore partecipante (quando a un membro del gruppo o a più membri viene chiesto di comportarsi temporaneamente come un moderatore).
La tecnica di rilevazione dell’informazione basata sui focus group (1), rappresenta uno degli strumenti classici di ricerca qualitativa nell'ambito delle scienze sociali.
Si presentano di seguito i principali assunti teorici e operativi sui quali si fonda.
Il focus group è un metodo di intervista di gruppo non strutturato elaborato dal sociologo americano Robert Merton durante la II guerra mondiale per valutare il morale dei soldati coinvolti nel conflitto bellico (2). Questo metodo ha preso via via piede nei decenni successivi nell'ambito delle ricerche di mercato (ad esempio, per comprendere i gusti dei consumatori prima del lancio di una nuova linea di prodotti) e più recentemente nel settore pubblico e nel volontariato sociale (ad esempio, per comprendere l’efficacia di un determinato intervento di assistenza sociale con gruppi di soggetti vulnerabili) (3, 4).

Aspetti teorici e indicazioni operative
L’idea di fondo di questo metodo è che l’interazione sociale che si crea durante la realizzazione del focus group costituisce una risorsa importante nel trasmettere informazione, consapevolezza dei propri ruoli e crescita culturale dei partecipanti e di chi conduce il focus. Questo aspetto rappresenta la prima importante caratteristica sostantiva del metodo e per questo motivo si differenzia dalle tradizionali interviste di gruppo dove l’interazione avviene di volta in volta tra i partecipanti e il moderatore.

I focus group rispondono a precise regole di preparazione, organizzazione e gestione. Coinvolge normalmente un numero di partecipanti variabile tra i 6 e 10 a seconda della complessità e delicatezza del tema che viene trattato. E’ importante infine costituire gruppi con partecipanti omogenei dal punto di vista delle loro caratteristiche sociali e culturali in modo da facilitare la partecipazione e la discussione di tutti i membri del gruppo. Sempre a seconda della complessità degli argomenti discussi, i focus group hanno solitamente una durata variabile tra 1 e 2 ore.
Essi sono gestiti da due figure professionali con funzioni tra loro complementari: il conduttore e l’osservatore.
Il conduttore, nella fase che precede la conduzione dei gruppi di lavoro, redige le linee guida del primo focus group intorno ad un’ipotesi di lavoro maturata dal confronto e della discussione con esperti, partecipanti al gruppo di ricerca e testimoni privilegiati, affrontando aspetti sia di contenuto sia quelli più propriamente legati alla comunicazione nel gruppo e con il gruppo.
Nella fase di svolgimento del focus group ha il compito di introdurre il tema dell’indagine con i partecipanti al focus, di guidare e pilotare gli intervistati verso gli argomenti che più interessano seguendo la tecnica dello stimolo-risposta, assicurandosi che gli intervistati non divaghino, eludano o fraintendano il significato delle domande. Può risultare utile, soprattutto quando i temi che si affrontano sono delicati perché portano i partecipanti a ‘spogliarsi’ di fronte agli altri su argomenti socialmente riconosciuti come privati e personali, sottoporre un’immagine -una fotografia o un breve filmato- in modo da introdurre il tema della discussione, preparando i partecipanti al tipo di questioni che si affronteranno, facendole apparire come situazioni comuni sulle quali ci si è già confrontati in altre sedi e contesti.

Il conduttore deve avere bene interiorizzato la griglia di domande che sottoporrà agli intervistati con l’accortezza di considerare tale griglia non più che un canovaccio dal quale partire e al quale fare riferimento senza però attenersi ad esso in modo rigido, ma adattandolo alla dimensione psico-sociale del gruppo e al tipo di relazione che si è instaurata tra i suoi membri e con il conduttore.
La griglia di domande aperte sottoposte durante i focus group deve essere rivista e rielaborata nella sua forma e nel suo contenuto con il procedere delle rilevazioni: il ricercatore deve riformulare le domande in modo da renderle più comprensibili e adattabili al contesto di cui ha gradualmente preso coscienza, eventualmente arricchendo la griglia con nuovi temi che sono emersi durante la discussione.
L’osservatore svolge mansioni di tipo logistico e organizzativo prima, durante e dopo la costituzione del gruppo. Nella fase che precede la realizzazione del focus group ha il compito di costituire il gruppo di discussione e di individuare una sede di svolgimento ‘neutra’ che non sia connotata in modo negativo da un punto di vista sociale. Durante lo svolgimento del focus group svolge un ruolo di assistenza al conduttore: dalla registrazione dell’incontro, all’annotazione di indicazioni e commenti sulla conduzione da parte del conduttore, all’osservazione delle dinamiche e del clima che si instaura all’interno del gruppo. In una fase successiva, immediatamente dopo la conclusione del focus group, l’osservatore deve comunicare al conduttore le impressioni ‘a caldo’ su conduzione e dinamiche del gruppo in modo da tenerne conto nella gestione dei focus group seguenti.

Campionamento teorico: quanti soggetti si intervistano?
Nell’ambito dei metodi di tipo qualitativo, il concetto di campionamento probabilistico e di piano campionario di tipo statistico non vengono applicati perché spesso ci si trova a lavorare con una popolazione la cui dimensione è ignota e, nel caso lo fosse, le risorse solitamente disponibili non permettono la realizzazione di un numero di interviste adeguato alla numerosità dei campioni casuali utilizzati nei metodi di tipo quantitativo. Il concetto che prende corpo in questi casi è quello di saturazione del campione e delle tematiche in studio(7) ed è particolarmente importante perché sta alla base delle tecniche di campionamento sulle quali si fondano tutti i metodi di tipo qualitativo.
In tutti questi metodi la rappresentatività del campione consiste nella saturazione delle tematiche oggetto di studio. Quasi sempre i soggetti che vengono intervistati fanno parte di universi non facilmente circoscrivibili e quantificabili e quindi, lo si ripete, di dimensioni ignote. Il campione si definisce saturo e rappresentativo di una comunità che si vuole esplorare quando, attraverso una costante analisi comparativa, vengono esplorate e colmate tutte le tematiche oggetto dello studio. In altri termini, si può ragionevolmente affermare di aver saturato il campione quando si acquisisce la consapevolezza che ulteriori incontri non portano ad un arricchimento di conoscenza del fenomeno oggetto di analisi, ma tendono a confermare e ribadire concetti, situazioni, atteggiamenti, modalità comportamentali già toccati nei precedenti colloqui. Normalmente un campione dell’ordine delle decine di unità, sotto cioè i 50-70 intervistati permette di saturare le tematiche in studio.

Analisi dei risultati
La fase successiva consiste nella trascrizione dei testi tramite fedele sbobinatura e nella loro codifica e analisi. In questa fase, l’osservatore svolge ancora un ruolo importante perché, avendo partecipato al focus group, riesce meglio di esterni a cogliere e riportare particolari del colloquio che probabilmente sfuggirebbero o sarebbero considerati superflui da un trascrittore esterno.
Il metodo da seguire è quello suggerito dagli autori della grounded theory (6,7). Il concetto di fondo si basa su una lettura attenta dei testi trascritti secondo un approccio di tipo induttivo che da singoli eventi, situazioni, opinioni aiuti a costruire concetti e categorie interpretative generali (6,7).L’analisi dei testi segue un processo di scomposizione e segmentazione delle interviste riducendole a brani ai quali vengono attribuiti opportuni codici che ne definiscono il significato. Attraverso un processo di graduale integrazione e selezione dei codici che si ritiene essere legati tra loro per affinità di significato, si procede gradualmente a costruire concetti più generali. Sempre seguendo un approccio di tipo induttivo, integrando e selezionando i concetti si procede a creare delle categorie interpretative che li comprendono e che suggeriscono uniformità tipiche di comportamento o di contesto. Le categorie interpretative così costruite permettono la formulazione di un’interpretazione generalizzabile a situazioni e contesti allargati(5, 6, 7).

Riferimenti bibliografici
1. Krueger R. Focus Group Kit. London: Sage Publications; 1998.
2. Merton R K et al. The Focused Interview. London: The Free Press; 1956.
3. Morgan D. Focus Group as Qualitative Research. London: Sage Publications; 1988.
4. Kitzinger J. Introducing focus groups. British Medical Journal 1995, 311-29: 299-302.
5. Giorgino E. PACR-Prevenzione dell’aids in contesti a rischio, Rapporto di ricerca, Istituto Superiore di Sanità; 1996, n.: 179.
6. Glaser B, Strauss A. The Discovery of Grounded Theory. Chicago: Alcan; 1967.
7. Glaser B. Theoretical Sensitivity. San Francisco: Sociology Press; 1978.

Regali dal carcere, una bella idea.

mercoledì 22 dicembre 2010

Turnover : ricambio generazionale. L'Italia che spera nei giovani.


Chi ci garantisce che un giovane sia meglio di un anziano? Possiamo fidarci della semplice radice etimologica del sostantivo iuventus, che viene dal verbo “giovare”? L’urgenza del ricambio generazionale come strumento di innovazione non si giustifica tanto sulla base di presunte proprietà o caratteristiche giovanili, quanto sulla loro capacità di immaginare e produrre una reale revisione del presente.

Volevo un uditorio composto di volti giovani, bramosi di racconti di avventura e passione e amore; e di menti fresche, ancora sensibili al fascino di orrori soprannaturali e amori epici». Costretto a tenere viva l’attenzione del suo pubblico raccontando storie, pena la morte, il protagonista del romanzo del grande, e giovane, scrittore indiano Chandra, “Terra rossa e pioggia scrosciante”, decide senza incertezze di puntare su un pubblico giovane, certo della sua maggiore attenzione ed emozione.
Al contrario dell’interprete di questa sorta di mille e una notte indiana, non sono in molti a condividere la ferma convinzione che preferire i giovani porti giovamento alla nostra economia, alla cultura, alla politica e in generale al nostro paese, magari evitandone, appunto, la scomparsa. «Il giovanilismo è un caso da manuale di miopia e stupidità predittiva», ha scritto Giovanni Sartori, commentando così la proposta di mettere tetti nell’accesso a determinate cariche: «Ho conosciuto moltissimi maestosi imbecilli di ogni età».

Le serpi da piccole non fanno male?

Un’argomentazione che dimostri l’opportunità di accantonare gli anziani per lasciare spazio a chi viene dopo all’interno di organizzazioni sociali di vario tipo (azienda, partito, università ecc.), dovrebbe in effetti farsi carico di una dimostrazione impegnativa. Spiegare, cioè, perché mettere un cervello giovane (e un corpo, per non esser troppo cartesiani) in un posto x all’interno di un’organizzazione y, produrrebbe naturaliter più innovazione, con un generale incremento del bene comune. Una tesi solo apparentemente autoevidente: chi ci garantisce, infatti, che un giovane sia meglio di un anziano? Possiamo fidarci della semplice radice etimologica del sostantivo iuventus, che viene dal verbo “giovare” (ma, appunto, la gioventù giova a chi? A chi è giovane o a chi si prende il giovane?).
Anche la ricerca di specifiche “proprietà” o capacità proprie ai giovani in quanto tali, caratteristiche di cui le altre età sarebbero prive, non ci viene molto in soccorso. Ammesso che si possano trovare aspetti ricorrenti della gioventù, e che soprattutto tali aspetti siano associabili ad un’età biografica, ci troveremmo di fronte a tratti non certo univoci. «Fiorente, florido », ma anche «immaturo, non stagionato, inesperto» di contro ad «abile, provetto, esperto, perito», suggeriscono le definizioni.
Se dal punto di vista cognitivo, spiega l’etologo Enrico Alleva, «il cervello giovanile apprende con una velocità successivamente impossibile, mentre un senso come l’udito comincia a diminuire già al doppio, o poco più, degli anni dello sviluppo sessuale, quello “senile” è in grado di compiere operazioni più difficili per i giovani – penso alla gestione di un terremoto – in virtù dell’esperienza accumulata».
Dal punto di vista morale, la tradizione, supportata dalla biologia, assegna a chi viene dopo i caratteri dell’innocenza e della propensione a spendersi e, quindi, a dare (e osare) di più. «Curiosità di conoscere la differenza tra il vero e il falso, tra il giusto e l’ingiusto, curiosità degli altri e della vita, generosità del buttarsi, sperimentare, dare, cercare», scriveva negli anni Novanta Goffredo Fofi. «Parvulae serpentes non nocent», «Le serpi da piccoline non fanno del male», dicevano, con ironia, i latini. Ma al topos dell’innocenza giovanile fa da ovvio controcanto quello della saggezza degli anziani, un vero leitmotiv della letteratura morale. Saggezza che, se talvolta sfuma nella furbizia e nel cinismo («volpe vecchia non si fa prendere in trappola»), è stata nella storia sempre oggetto di altissima venerazione.
In breve, la ricerca di presunte “essenze” generazionali – quella giovanile, come quella femminile d’altro canto – è piuttosto incerta e discutibile. Siamo sicuri, ad esempio, che il candore giovanile non equivalga anche ad ottusità, con conseguente facilità ad essere infiammati da ideologie estremiste di ogni sorta? Inoltre, e soprattutto, l’essenzialismo si scontra con l’osservazione della realtà e con la mutevolezza dei valori rispetto alla storia e all’evoluzione sociale. In una recente ricerca sui valori dei giovani europei, ad esempio, i sociologi francesi Olivier Galland e Bernard Roudet demoliscono il mito dell’altruismo giovanile, mostrando come i ventenni, specie di alcuni paesi, siano assai più in sensibili ai destini delle categorie più sfortunate degli adulti. Mentre per quanto riguarda realismo e cinismo, i trentenni di oggi appaiono campioni di cinismo e disincanto ben più dei loro genitori.

Se il ricambio produce utopia.

Stiamo allora forse fornendo frecce al nostro avversario antigiovanilista? Non proprio. Ma l’urgenza del ricambio generazionale come strumento di innovazione non si giustifica sulla base di presunte proprietà o caratteristiche giovanili. Il punto, infatti, non è la qualità di chi entra, ma il fatto che chi entra sia diverso da chi lo ha preceduto.
In questo senso, il succedersi delle generazioni, scrive il sociologo Karl Mannheim, produce di per sé innovazione, nella misura in cui consente un accesso non per forza migliore, ma certamente nuovo, al patrimonio culturale. Un accesso che equivale ad «un nuovo rapporto di distanza con l’oggetto, una nuova impostazione nell’assimilazione, elaborazione e perfezionamento dell’esistente». Senza questo sguardo inedito, prosegue Mannheim, «i modelli sociali fondamentali sarebbero sempre conservati », per cui, per compensare la mancanza di nuove generazioni, gli uomini dovrebbero imparare a dimenticare.
Oppure trasformarsi in individui dotati di una coscienza utopistica totale, da un lato «capaci di sperimentare tutto lo sperimentabile, e sapere tutto il conoscibile », dall’altro possedere «l’elasticità di sapere sempre cominciare da capo». Non essendo questo possibile, è evidente che il succedersi di generazioni produce una revisione del presente e ci insegna, conclude Mannheim, «a desiderare ciò che non è stato ancora ottenuto».
Il ricambio generazionale è l’unico che può alimentare, di conseguenza, un orizzonte utopico che, viceversa, si spegnerebbe. Senza i giovani, nota il sociologo Carlo Carboni, «ci priviamo di potenziali esploratori di futuro, e la capacità di visione, di decisione e di innovazione delle nostre classi dirigenti non può che accusarne l’assenza».

Biodiversità e innovazione

L'argomentazione di Mannheim costituisce un sottoinsieme di una teoria più vasta, quella che stabilisce un rapporto di causa-effetto tra varietà e innovazione e, per converso, tra ogni forma di monismo o di riduzione della diversità e conservazione dell’esistente. La dimostrazione più famosa di questa tesi è costituita dal naturalismo darwiniano, che fa discendere il miglioramento delle specie proprio dalla ricchezza della biodiversità. Non è forse proprio grazie all’eccentrico, al casualmente nuovo che le specie si migliorano, grazie ad una selezione della variante più efficace alla sopravvivenza?
Questa argomentazione, mutuata dalla biologia, si ritrova in realtà sotto forma di riflessione filosofica nella teoria politica liberale, che in fondo da questo punto di vista rappresenta una versione storica della tesi naturalista. È stata proprio la teoria liberale, infatti, a fare della tutela del pluralismo il compito principale della democrazia e più in particolare delle istituzioni politiche; le quali non dovrebbero curarsi della ricerca della verità, e cioè del bene in sé, ma della creazione di condizioni in cui ciascuna verità-componente possa esprimersi, in un contesto di libertà che genera di per sé cambiamento verso il meglio. Viceversa, ogni forma di soppressione del diverso, ma anche di semplice riduzione del pluralismo, non può che generare una conservazione dello status quo (dunque la morte dell’innovazione), quando non sfociare in un suo peggioramento o in un esito ancor più tragico.
Da questo punto di vista, allora, come possiamo non giudicare un’anomalia e persino un’aberrazione il “totalitarismo generazionale” che caratterizza trasversalmente il nostro parlamento, i partiti, le aziende, il mondo della cultura e in particolare l’università, l’editoria, persino ironicamente le stesse forze armate?

Le vittime del mancato pluralismo

Il richiamo a forme di potere non plurali, e quindi non pienamente democratiche, è a maggior ragione giustificato quanto più si sposta l’attenzione dal piano dell’immobilismo e della mancata innovazione a quello dell’equità tra generazioni; e, ancor più, delle conseguenze sulle vittime del mancato pluralismo, in questo caso le generazioni escluse.
Talmente drammatica è divenuta la situazione di queste ultime che persino il nostro dibattito pubblico-mediatico, refrattario fino all’ultimo alla tragedia della disoccupazione e delle contraddizioni dei nostri contratti atipici, già evidenti alla fine degli anni Novanta, è passato da slogan quali «Un paese fermo e stanco», «Élite immobili invecchiate », a denunce assai più appassionate: «Per i giovani non c’è lavoro », «I giovani rischiano il dramma sociale», «In Italia otto milioni di poveri e a pagare ora sono i giovani», «La crisi ha infierito sui giovani. Sparito anche il lavoro precario». Titoli che di solito seguono i periodici “bollettini di guerra” dell’Istat, del Censis, dello Svimez, della Banca d’Italia, o gli appelli accorati di pochi, tra i quali, per lo più inascoltato, il capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Sugli esiti pratici e psicologici di una disoccupazione continua o di lavori di pochi mesi, mal pagati, e privi di qualsiasi forma di tutela, sulle esistenze individuali molto si è scritto. Più interessante è, qui, ricordare un aspetto meno considerato: la devastazione etica che consegue alla diffusione del cattivo lavoro. L’ha descritta egregiamente, anche se forse involontariamente, un giovane e poco noto scrittore italiano, che in un racconto immagina un protagonista cui è stato offerto un lavoro di 500 euro al mese per otto ore al giorno (il compenso di molte commesse) e al quale tale offerta scatena l’idea immaginaria di uccidere alcune mamme di bambini, con i seguenti pensieri: «Quei bambini penseranno che mamma non può morire? E invece mamma può morire, se io posso lavorare per 2,84 euro l’ora. (…) Uccidere, ho detto uccidere, perché se agli altri non fa paura offrirmi lavori a 2,84 euro (“prendere o lasciare, come te ne trovo mille per strada”) a me non fanno paura i miei pensieri e quindi li nomino».
Da questo punto di vista, il ricambio è – oltre che auspicabile per il rinnovamento – anche urgente dal punto di vista veritativo, nel senso che, restituendo equità e riequilibrando quel rapporto di dominio e potere delle generazioni anziane su quelle più giovani, ristabilisce un sistema di valori e di giustizia. Ed evita il degenerare nella violenza che, ancora attutita dal residuale welfare dei genitori, è dietro l’angolo quando non si ha più davvero nulla da perdere.

A proposito di tetti e quote

Ma anche ammesso che il ricambio generazionale sia un bene, tutti gli strumenti che lo favoriscono lo sono altrettanto? Come giudicare, ad esempio, l’introduzione di tetti di età nell’accesso a cariche, i prepensionamenti forzati, l’eventuale introduzione di “quote verdi” analoghe alle rosa?
Di fatto, sono in molti a sostenere non solo che si priva così la società di persone con elevatissima esperienza, senza avere la garanzia che ne entrino di migliori, ma soprattutto che il prepensionamento forzato non produce affatto un aumento delle opportunità giovanili, per le quali, appunto, bisognerebbe an zitutto puntare su aspetti cruciali quali appunto la mobilità sociale e, grazie ad una seria e condivisa cultura della valutazione, la meritocrazia. Altrimenti si corre il rischio di mandar via persone di esperienza, che magari si sono fatte da sole, per lasciar spazio a incapaci “figli di”, cooptati e raccomandati.
Quanto all’idea di “quote” per garantire la presenza giovanile, di cui in verità si è scarsamente parlato, ben si conoscono le critiche a quelle rosa – definite discriminatorie al contrario e controproducenti – sulla falsariga delle critiche alle politiche dell’affirm - ative action dei paesi anglo sassoni.
Si tratta di accuse in parte ragionevoli: tetti e quote sono misure dal sapere poco liberale, impensabili in società in cui tutte le generazioni sono rappresentate e il ricambio avviene naturalmente. Tuttavia, la violazione della parità di opportunità delle categorie “fortunate” appare assai meno inconcepibile se la si confronta con la letterale assenza di quelle da troppo tempo escluse e con la sistematica violazione del pluralismo di genere e generazionale del nostro paese, di cui quasi nessun liberale, incredibilmente, si scandalizza. Da questo punto di vista, si tratta di misure di emergenza, certo temporanee, fino a che la distribuzione di risorse e cariche diventi un po’ meno immoralmente unigenerazionale e il pluralismo si generi in maniera fisiologica.
D’altro canto, se le risorse sono sempre le stesse e la crescita del paese è ferma, come possono entrare i più giovani se non si incide, almeno un poco, su alcuni tra i diritti acquisiti, generosamente distribuiti in passato e pure giudicati intoccabili? Se ad esempio, come sembra imporre la riforma Gelmini, si possono assumere ricercatori solo in caso di pensionamento di professori, come farlo se gli anziani non escono? Forse si potrebbe chiedere a questi ultimi, perché non lascino la società priva del loro sapere, di continuare ad insegnare, o lavorare, gratis. Oppure, come suggerisce meno demagogicamente Alessandro Rosina, «prevedere per essi un’uscita flessibile con adeguati contratti rinnovabili». Settantenni con contratti co.co.co., ma in vista di una certissima pensione, e giovani assunti (o, per non esagerare, almeno impiegati).
Una proposta immorale e lesiva, di fronte a milioni di giovani – perché di milioni ormai si tratta nel nostro paese – che, come ha ricordato Camilleri in una battuta divenuta nota, non hanno tanto il problema di diventare bamboccioni quanto quello, letterale, di non finire come barboni.

Capitale sociale. Dal familismo amorale al familismo immorale..

In un’Italia in cui abbondano i “bamboccioni” e in cui emerge una tendenza ad “ereditare” anche gli incarichi pubblici tornano in auge le riflessioni sull’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella sfe­ra pubblica. Ad un familismo che avrebbe ormai as­sunto i caratteri dell’amoralità – se non dell’immo­ralità – viene imputato il mancato radicamento dell’etica pubblica nel nostro paese. Quanta realtà e quanta mistificazione vi sono nel delineare questa presunta antitesi fra familismo e civismo?

Periodicamente la famiglia torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, indagata come possibile matrice dei mali del “bel Paese”, scrutata come depositaria e riproduttrice delle virtù e, più spesso, dei vizi del carattere nazionale. In una recente intervista a “La Repubblica”,[1] in cui vengono sintetizzati i risultati di una ricerca storica collettiva dedicata alle famiglie italiane nel Novecento,[2] Paul Ginsborg ha riproposto nuovamente il tema del familismo come una possibile chiave di lettura della realtà italiana contemporanea.[3] In un’Italia ripiegata su se stessa, in cui le giovani generazioni faticano a staccarsi dalle mura domestiche per progettare un futuro autonomo (i bamboccioni del ministro Brunetta), in cui ruoli politici e candidature passano disinvoltamente di generazione in generazione come fossero ereditarie (il figlio del ministro Bossi), e in cui recenti scandali coinvolgono responsabilità genitoriali (la «casa per la figlia» del ministro Scajola), conviene interrogarsi ancora – sostiene lo storico inglese naturalizzato italiano – sul concetto di familismo. Familismo è un’espressione famosa nel lessico delle scienze sociali, soprattutto dopo che nel 1958 lo studioso statunitense Edward Banfield ebbe coniato il concetto di «familismo amorale» per designare i comportamenti, descritti come angustamente individualistici, della gente di Montegrano (in realtà Chiaromonte, un isolato villaggio lucano).[4] Lo studio di Banfield ha avuto una larga eco nel dibattito pubblico sulla questione meridionale, divenendo per alcuni (ma in modo assai contestato) una delle possibili spiegazioni delle carenze dello spirito pubblico nel Sud del paese. Successivamente, da Carlo Tullio Altan a Robert Putnam,[5] è stato una ricorrente fonte di ispirazione per tutti coloro che si sono impegnati in schemi dualistici di raffigurazione della storia italiana. Ora Ginsborg lo recupera e, pur criticandolo, ne allarga la portata, fino ad usarlo per descrivere l’intero atteggiamento del “paese Italia”: anzi, richiamando il ben noto detto del «tengo famiglia» – e definito sorprendentemente non uno stereotipo ma la sintesi di «una filosofia antica e tipicamente italiana» – egli attribuisce al familismo, non più solo amorale ma ormai scopertamente immorale, il mancato radicamento di un’etica pubblica, di quel senso della collettività che è invalso nelle scienze sociali chiamare civicness.
La tesi di Ginsborg, modellata sugli schemi dicotomici cari a tanta sociologia classica, è a prima vista suadente, e sembra anzi farsi forza di una sorta di riconoscimento immediato, un asseverarsi intuitivo che si nutre di evidenze: in Italia oggi saremmo di fronte alla ricorrente tendenza al tradimento della fedeltà allo Stato per arricchire parenti e consanguinei. Il familismo amorale, tracimando, si mescolerebbe così con l’uso delle risorse pubbliche per interessi privati, con il clientelismo. Può essere interessante rilevare – osserva Ginsborg – come nell’Europa mediterranea «questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione nell’Italia di oggi è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro diventa fondamentale la relazione con il potente che garantisce determinati accessi per te e per i tuoi figli, da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia».[6]
Al fondo starebbe dunque una verità nascosta: insieme alla tardiva formazione dello Stato democratico, la chiave di volta dell’eccezione italiana, quel qualcosa che impedisce alla nazione di essere un paese normale, sarebbe il familismo, e cioè l’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il familismo svolge così nella visione di Ginsborg quel ruolo che un tempo era assegnato dalla retorica nazionalista al «particolarismo», un principio distruttivo e disgregatore di più ampie e morali solidarietà. La contrapposizione non potrebbe essere più netta: da una parte l’individualismo egoista nutrito nella culla familista e dall’altra l’etica pubblica solidaristica, cresciuta nell’alveo della società civile; da un lato una ricorrente tentazione alla gretta chiusura familistica e dall’altro una società civile colta, indipendente, reattiva, pronta ad organizzarsi e ad esprimere valori universalistici di partecipazione e di associazione; e ancora, per un verso un assetto sociale in cui il rapporto dominante è quello tra l’individuo e la famiglia, per l’altro compagini in cui al centro della vita individuale sta la relazione, variamente disposta, con lo Stato.[7]
A questa contrapposizione idealtipica corrisponde puntualmente una distribuzione geografica, o meglio una geopolitica dei valori. Secondo Ginsborg sarebbe familista l’Europa mediterranea: un insieme variegato e composito formato in buona sostanza dall’area dei cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) più i paesi mediorientali di tradizione islamica, descritti – questi ultimi – come comunità endogamiche, use al frequente matrimonio tra cugini primi e alla coabitazione delle coppie sposate coi genitori del maschio: tratti familiari che, uniti alla strutturazione clanica, avrebbe condizionato in senso negativo la crescita della società civile. In buona sostanza, l’accostamento di regioni così diverse funziona solo in negativo: esse sarebbero tutte segnate da una debole civicness a causa di strutture familiari troppo forti; sorta di controprova del successo del core nordeuropeo dello sviluppo economico (e insieme morale). In questa parte privilegiata del mondo (Inghilterra, Olanda e Scandinavia, più alcune aree della Germania e degli Stati Uniti) l’esistenza di famiglie più deboli e meno gerarchiche avrebbe permesso agli individui la libertà, gli spazi e i tempi per la partecipazione alla vita pubblica, da Ginsborg identificata con «la possibilità di sperimentare ed esplorare liberamente il variopinto mondo dell’associazionismo».[8]
La tesi della contrapposizione tra famiglie forti e famiglie deboli si può dimostrare, sostiene Ginsborg – che riprende qui tesi avanzate dal demografo David Reher – grazie all’analisi di tre piani distinti: quello delle strutture di coresidenza, dei sistemi demografici familiari e dei valori casalinghi.
L’analisi comparativa delle strutture familiari di coresidenza è stata introdotta nel dibattito delle scienze sociali da Peter Laslett, uno dei padri della moderna storia della famiglia. Nella sua visione le famiglie inglesi (ma non irlandesi o scozzesi) e più in generale nordeuropeo-occidentali sarebbero state caratterizzate dal Cinquecento in poi da alcune caratteristiche specifiche: struttura nucleare, età tardiva della sposa, residenza neolocale.[9] Grazie a queste caratteristiche, la famiglia inglese, portatrice di comportamenti virtuosi secondo l’etica maltusiana (con un’età tardiva al matrimonio cui corrispondeva un minor numero di figli) sarebbe stata il vero motore occulto della marxiana «accumulazione originaria», prodromo della rivoluzione industriale. A questo idealtipo dello sviluppo corrisponde, nella tipologia di Laslett, un idealtipo dell’arretratezza, costituito da famiglie variamente allargate, patriarcali, conviventi per più generazioni sotto lo stesso tetto, ordinate da strutture gerarchiche e costrittive, modellate sulle descrizioni fornite da antropologi anglosassoni dell’Europa meridionale e orientale: famiglie di pastori berberi o balcanici, di mezzadri toscani, di contadini calabri, di pescatori cantabrici. Va da sé che questi due modelli risultano – in quella visione – inscritti in un percorso evolutivo, un processo che prevede il passaggio da forme ritenute tradizionali o primitive ad altre reputate moderne.
Questo schema semplificato e riduttivo è stato da tempo criticato e in gran parte abbandonato, ma la sua influenza continua ad avvertirsi nel discorso delle scienze sociali e nel dibattito pubblico.[10] Malgrado l’evidenza, ad esempio, che in gran parte del Mezzogiorno la famiglia nucleare sia stata storicamente prevalente e le strutture di famiglie estese e complesse siano state invece minoritarie, l’idea che si possa trovare nella composizione familiare la chiave dell’arretratezza, il santo Graal della backwardness, non è stata mai abbandonata. È accaduto così che, scoperta negli anni Ottanta la cosiddetta Terza Italia, l’area valligiana centrosettentrionale a piccola impresa industriale diffusa, ci si è chiesti se non fosse da cercare nella struttura complessa, gerarchica e patriarcale della famiglia estesa mezzadrile, nella sua abitudine alla cooperazione nell’uso delle risorse comuni (il podere) il segreto del successo economico di questa parte del paese; laddove alla famiglia nucleare meridionale, descritta “alla Banfield” sarebbe venuta a mancare questa fondamentale risorsa cooperativa.[11] In breve, patriarcale o nucleare che sia la famiglia, il risultato non cambia mai, se si continua inutilmente a porre la struttura familiare come pietra filosofale nell’eterna ricerca alchemica delle ragioni del sottosviluppo economico (o civico).
Il secondo piano chiamato in causa da Ginsborg è quello dei sistemi demografici familiari. Si tratta di uno schema interpretativo elaborato a suo tempo dal demografo John Hajnal, che aveva prospettato l’esistenza nell’Europa moderna (dal XVI secolo in poi) di due sistemi familiari prevalenti e opposti fra loro: il primo, quello nordoccidentale, contraddistinto da una elevata età al matrimonio (soprattutto femminile) e strutture di residenza neolocali, e caratterizzato dall’abitudine di abbandonare presto la casa paterna per andare a servizio; il secondo, mediterraneo e orientale, a bassa età al matrimonio, segnato dalla preferenza per la convivenza di più generazioni nella stessa casa e dalla riluttanza a lasciare la famiglia d’origine. Questo schema, fuso in vari modi col precedente e formulato ancora una volta per spiegare le ragioni (virtuose) del primato economico nordoccidentale, divideva l’Europa secondo un’immaginaria linea disposta tra San Pietroburgo a Trieste, sì da isolare l’Europa nordoccidentale, vincente, e separarla dalla meno corretta, attardata e perdente “altra Europa” meridionale e orientale. Anche in questo caso le critiche all’impostazione di Hajnal non sono mancate, e hanno toccato sia l’inesistenza di una correlazione tra strutture neolocali ed età al matrimonio, sia l’inefficacia di isolare l’età al matrimonio come unica variabile indipendente e cioè senza considerare il regime demografico (soprattutto i tassi di mortalità) in cui è inscritta.[12] Ma se l’applicabilità dello schema di Hajnal all’Europa preindustriale è assai dubbia, l’opportunità di isolarne solo un tratto (come l’età di abbandono della casa dei genitori) per determinare l’esistenza di famiglie “forti” o “deboli” oggi, a “rivoluzione demografica” da tempo conclusasi (con la conseguente completa equiparazione di tutti gli indicatori demografici fondamentali), appare alquanto controversa.
Il dubbio grava specialmente sull’intento di inferire dalla comparazione delle diverse età nella fuoriuscita dalla famiglia di origine non un diverso livello delle opportunità, una differente struttura delle chances di mobilità, una variabile disposizione del mercato delle abitazioni, dei servizi e così via (tutte carenze rispetto a cui le strutture familiari possono funzionare da “ammortizzatori”) ma argomenti a sostegno di una tendenza culturale, riassumibile nello stereotipo indimostrato dell’italiano “mammone”,[13] ovvero la predisposizione italica (ma poi, a seconda dei casi, meridionale, mediterranea oppure orientale) a convivere fino all’età adulta sotto lo stesso tetto dei propri genitori, una specie di tara insita nel carattere nazionale.[14] Viceversa, la tendenza inglese di mandare presto i figli fuori di casa, un tempo a servizio, oggi a studiare, non viene collegata ad un sistema ereditario, quello dello one sole heir, che prevede la possibilità per i genitori di concentrare l’asse ereditario su un unico figlio a scelta, con la conseguente necessità di far sì che gli altri si costruissero una propria strada fuori dalle mura domestiche; e v’è da chiedersi se tale plurisecolare tradizione giuridica, decisamente volta alla conservazione del patrimonio familiare in barba a principi di elementare equità non possa con qualche ragione essere qualificata, essa sì, come “familista”.
Infine, Paul Ginsborg, sulla scorta dei suoi studi precedenti,[15] propone di dividere le famiglie in “aperte” e “chiuse”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una polarità. Da una parte ci sono le famiglie che «sviluppano al loro interno, nelle loro conversazioni e tradizioni, un’apertura nei confronti della società e dei suoi problemi, una disponibilità dei componenti ad impegnarsi in associazioni e movimenti, un concetto della casa come spazio domestico poroso e accogliente»; mentre dall’altra «quelle che considerano la famiglia come una fortezza e vivono la vita familiare come un bene prezioso in costante pericolo»: queste ultime famiglie sono autoreferenziali e non aperte, come è evidente dalle loro case, che rifletterebbero questi atteggiamenti «sia nell’architettura sia nei sistemi di protezione».[16] Anche in questo caso nessuna relazione è ipotizzata tra architettura e sistemi di protezione abitativa e livelli di reddito e di criminalità (reali o percepiti) del contesto sociale. Quest’ultima polarità si affiancherebbe così alle prime due, anche se con modalità piuttosto oscure, sicché non è chiaro se sia lecito aspettarsi una relazione positiva tra una certa struttura familiare, un dato sistema familiare e determinati valori casalinghi.
È interessante notare come questa ripresa della chiave interpretativa familistica avvenga tuttavia in un clima intellettuale profondamente diverso da quello in cui essa fu forgiata: durante il mezzo secolo di storia del concetto di familismo amorale il tema cardine verso cui si è indirizzata l’analisi è stato quello dello sviluppo economico – verso il quale esso finiva per svolgere in negativo più o meno lo stesso ruolo che l’etica protestante svolge nella celeberrima tesi di Max Weber relativa allo sviluppo del capitalismo. Oggi, tuttavia, tale prospettiva appare per molti aspetti usurata. È significativo che sia stato proprio Ginsborg a rigettare l’avventurosa affermazione formulata da Francis Fukuyama in un suo libro intitolato “Trust”[17] secondo la quale il familismo andrebbe in sostanza considerato un freno al dispiegarsi della fiducia collettiva e dunque alla qualità dello sviluppo economico capitalistico, con la conseguente classificazione delle liberaldemocrazie in più moderne e sviluppate (Germania, Giappone, Stati Uniti) e meno moderne (Cina, Corea del Sud, Francia e Italia). Nello stroncare tali elucubrazioni, fondate sulla ripresa di un concetto carico di «insensato determinismo antropologico», Ginsborg ricordava giustamente come tutta l’industria più avanzata e attiva sia in Italia, e non solo in Italia, a base familiare.[18] È interessante in questa discussione il ruolo che finiva per giocare il Meridione come antitipo della modernità. Fukuyama infatti – basandosi ancora una volta su Banfield – indicava il Sud dell’Italia come un caso estremo, come l’area limite dell’Europa progredita, quella in cui la fiducia collettiva non poteva dispiegare i suoi benefici effetti sull’economia a causa di un tratto culturale familista che egli qualificava in modo assai bizzarro come «confucianesimo»: affermazione che oggi nessuno si sentirebbe di ripetere, non perché il confucianesimo non sia stato un credo che abbia privilegiato il ruolo della famiglia, ma perché, nel frattempo, lo straordinario successo industriale cinese ha insinuato più di qualche dubbio non solo sulla veridicità ma anche sulla semplice sensatezza di queste contrapposizioni. Vi è in queste tesi un tratto evidentemente paradossale: il comportamento degli abitanti di Montegrano, così scopertamente orientato a massimizzare l’utile, diviene il prototipo di un’etica in fondo anticapitalistica; e ciò dopo che – com’è stato acutamente notato[19]– sin dai filosofi morali scozzesi del Settecento la retorica liberista ha teorizzato l’ostinato e angusto perseguimento di fini personali come necessaria premessa al dispiegarsi del bene collettivo, secondo la celebre palingenesi dei vizi privati in pubbliche virtù.
Il familismo resuscitato da Ginsborg non è più dunque quello di una volta; non costituisce più una chiave per spiegare il maggiore o minore successo economico: egli ne opera una vistosa revisione, torcendo il concetto in senso culturalista ed etico. Opponendosi a quelle concezioni del capitale sociale[20] che da un lato puntano a sganciarlo dal sistema dei valori, e dall’altro a farne una base per nuove tassonomie economiche, questa visione tende a qualificare il capitale sociale come impegno civico, e a ribadire un nesso tra civismo e alcune pratiche associative, distinte sul piano valoriale e, verrebbe da dire, politico. La società civile viene infatti descritta come un essere fragile e in pericolo, assediata da mali antichi e nuovi, che hanno il nome di clientelismo, corruzione, familismo, nepotismo, monopolio mediatico. Si tratta, in altre parole, di un malato, per il quale Ginsborg propone la cura della democrazia partecipativa economica, citando l’esempio dei soviet ma sostituendo il soggetto portatore delle speranze di rinnovamento: non più evidentemente la classe operaia ma «la popolazione urbana istruita del Nord del mondo», solo provvisoriamente (anche se alquanto volontariamente) «assoggettata al capitalismo consumista e all’arricchimento personale».
Evidentemente non tutti i modi di partecipare alla vita sociale risultano, in questa prospettiva, «civici» allo stesso modo: non lo sono i rapporti di vicinato, una partecipazione che «non equivale al vero impegno civico», non l’appartenenza alle associazioni di categoria, inficiate da evidenti interessi particolaristici, non i legami comunitari e l’affiliazione a movimenti di rivendicazione locale a base identitaria, sospetti di razzismo e xenofobia, e non (si suppone) quel vasto mondo, alquanto elitario, di club e associazioni di ex allievi, sorta di compagnonnage delle professioni liberali così diffuso in quella cultura anglosassone che affida al college una parte importante della formazione dei giovani. Ma soprattutto sembra esservi in questa concezione del civismo uno spazio limitato per la partecipazione basata su schemi ideologici o ideologico-religiosi: dovendosi in questo caso prendere in considerazione non solo i dimostranti di Teheran e di Bangkok e i partecipanti all’universo del volontariato ma evidentemente anche i membri dei movimenti del risveglio religioso cristiano, i fanatici antisionisti, gli iscritti a partiti che propugnano l’ineguaglianza sociale o l’esaltazione di figure di leader telegenici dal senso civico alquanto incerto.
E dire che nella raccolta di saggi contenuti in “Famiglie del Novecento” vi erano esempi molto diversi, in grado di allargare la visione a famiglie cattoliche familiste ma disobbedienti ai precetti dell’enciclica “Humanae Vitae” del 1968[21] o a famiglie comuniste fortemente coese (entro quelle reti di vicinato e di comunità intessute di tradizione politica costitutive delle cosiddette Regioni rosse) ma al contempo devote al partito, controfigura e promessa dello stato socialista che verrà, e in un modo così assoluto da fare esclamare a Marina Sereni: «Il Partito si è fuso per me con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti».[22]
Solo una visione fortemente limitata della società civile permette di opporla specularmente al familismo, un’attitudine di cui non viene spiegato sulla base di quali parametri possa essere indagata. Gli studi condotti in questo senso dai sociologi mediante interviste qualitative volte a comprendere cosa la gente pensi della propria famiglia e della società che la circonda offrono migliori spunti di riflessione. Loredana Sciolla,[23] ad esempio, ha argomentato con forza che, scomponendo il concetto di cultura civica nelle sue componenti diverse (valoriale, fiduciaria, identitaria) la supposta antitesi tra familismo (l’atteggiamento di chi ha fiducia esclusivamente nella famiglia) e civismo risulta falsa, che gli italiani non mostrano un abnorme attaccamento alla famiglia ma simile o anche inferiore a quello di popoli di radicata cultura civica, che le regioni meridionali sono meno familiste della media nazionale e più inclini ad avere fiducia nelle istituzioni. Sicché non resta che concludere con Giulio Bollati che «ogni discorso sull’indole, la natura, il carattere di un popolo appare come un’equivoca combinazione di conoscenza e di prescrizione, di scienza e di comando. Quello che un popolo è (o si crede che sia) non si distingue se non per gradi di dosaggio da ciò che si vuole debba essere».[24]

[1] S. Fiori, Familismo. Ginsborg: perché l’Italia non ha un’etica pubblica, “La Repubblica”, 8 marzo 2010, p. 37.

[2] E. Asquer, M. Casalini, A. Di Biagio, P. Ginsborg (a cura di), Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni, Carocci, Roma 2010.

[3] Il tema è stato un filo rosso della sua ricostruzione della storia contemporanea italiana. Si vedano Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi: società e politica 1943-88, Einaudi, Torino 1989; ID, L’Italia del tempo presente: famiglia, società civile, Stato: 1980-1996, Einaudi, Torino 1998.

[4] Pubblicato nel 1958 negli Stati Uniti il libro di Banfield, presto tradotto (1961) suscitò un intenso dibattito. Esso è ora disponibile in D. De Masi (a cura di), Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 1976. Per un inquadramento e i successivi esiti della discussione vi veda G. Gribaudi, Il paradigma del «familismo amorale», in P. Macry, A. Massafra (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 337-354; M. C. Agodi, L’immagine del Mezzogiorno nella sociologia degli ultimi cinquant’anni, in “Meridiana”, 47-48/2003, pp. 23-64; M. Minicuci, Antropologi e Mezzogiorno, ivi, pp. 139-74; A. Blando, Il ritorno di Banfield, in “Meridiana”, 59-60/2007, pp. 307-24.

[5] C. T. Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unita ad oggi, Feltrinelli, Milano 1986; R. D.Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993; su cui si vedano le osservazioni contenute in S. Lupo, Usi e abusi del passato: le radici dell’Italia di Putnam, in “Meridiana”, 18/1993, pp. 151-68.

[6] Fiori, op. cit.

[7] Ginsborg, Scrivere la storia delle famiglie del Novecento: la connettività in un quadro comparato, in Asquer, Casalini, Di Biagio, Ginsborg (a cura di), op. cit., p. 25.

[8] Ivi, p. 29.

[9] Per una ricostruzione del tema si veda F. Benigno, Famiglia mediterranea e modelli anglosassoni, in “Meridiana”, 6/1989, pp. 29-61.

[10] M. Huysseune, Modernità e secessione. Il discorso politico della lega Nord, Carocci, Roma 2004.

[11] Macry, Rethinking a Stereotype. Territorial Differences and Family Models in the Modernization of Italy, in “The Journal of Modern Italian Studies”, 2/1997, pp. 188-214; Benigno, The Southern Family. A Comment on Paolo Macry, ivi, pp. 215-17.

[12] Benigno, Famiglia mediterranea, cit.

[13] L. Sciolla, Italiani: stereotipi di casa nostra, Il Mulino, Bologna 1997, p. 31 sgg.

[14] Ma si noti come, nel contesto italiano, i dati sulla localizzazione abitativa delle nuove coppie in prossimità dei genitori descriva una maggiore vicinanza nel Centro-Nord e una minore al Sud. Si veda a questo proposito G. A. Micheli, R. Rettaroli, Esiste una specificità demografica del Meridione?, in “Meridiana”, 61/2008, pp. 92-93.

[15] Ginsborg, Il tempo di cambiare. Politica e potere nella vita quotidiana, Einaudi, Torino 2006; ID, La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino 2006.

[16] Ginsborg, Scrivere la storia delle famiglie, cit., pp. 31-32.

[17] Pubblicato nel 1995 il saggio di Fukuyama è apparso in italiano l’anno successivo. Si veda F. Fukuyama, Fiducia, Rizzoli, Milano 1996.

[18] A. Altichieri, Fukuyama. La storia si è fermata ad Eboli, “Corriere della sera”, 12 febbraio 1996, p. 25.

[19] Sciolla, op. cit., p. 19.

[20] R. Cartocci, Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, Il Mulino, Bologna 2007; su cui veda ora Lupo, Il conio del capitale sociale: La questione meridionale dopo il meridionalismo, in “Meridiana”, 61/2008, pp. 21-42.

[21] B. Bocchini Camaiani, Famiglia e sessualità nel Magistero dal concilio Vaticano II a Giovanni Paolo II, in Asquer, Casalini, Di Biagio, Ginsborg (a cura di), op. cit., pp.198-205.

[22] Casalini, Ritratti di famiglia nell’Italia degli anni Cinquanta, ivi, p. 168.

[23] N. Negri, L. Sciolla (a cura di), Il paese dei paradossi. Le basi sociali della politica in Italia, Nuova Italia Scientifica, Roma 1996; Sciolla, op. cit..

[24] G. Bollati, L’Italiano, in R. Romano, C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, p. 958.

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