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martedì 29 marzo 2011

Che cos'è la Lobbycrazia?


Normalmente a scuola viene spiegata la differenza che passa tra le varie forme di governo: dittatura, monarchia, aristocrazia, oligarchia, democrazia ecc., ma viene, invece, taciuta una realtà politica che coinvolge molti paesi cosiddetti democratici: la lobbycrazia o castacrazia.
Con tale termine dev'essere intesa una forma di governo in cui alcuni gruppi di potere (anche occulto) condizionano l'amministrazione dello Stato. Di conseguenza le leggi promulgate sono il risultato di manovre fortemente desiderate da questi esponenti che costituiscono vere e proprie lobby.
Cercherò di spiegare meglio il concetto. Con il termine democrazia s'intende comunemente la sovranità del popolo. Il potere appartiene quindi a quest'ultimo che lo delega ai vari rappresentanti mediante democratiche votazioni politiche e amministrative. Questo però sulla carta, perché se esaminiamo con attenzione ad esempio la realtà italiana, che è la più vicina, possiamo scoprire molte incrinature nella democrazia del Bel Paese. Il sindaco viene eletto dai cittadini, ma entro una ristrettissima rosa di nomi già definiti dall'apparato partitico. Un cittadino (ad es. un medico conosciuto, un conduttore tv, un ortolano, un professore ecc.) che si ponesse all'attenzione degli elettori, indipendentemente dalla logica dei partiti, non potrebbe essere votato. E ciò vale anche per i candidati politici a tutti i livelli; basta pensare ad esempio alle polemiche scoppiate sulla forzata imposizione di candidati in collegi sicuri, in barba alle aspettative degli elettori di zona. Se pensiamo poi alla modifica elettorale introdotta con il “porcellum” in forza della quale i cittadini (sic!) non possono più esprimere preferenze, la sudditanza italiana sta facendo l’en plain. In base al “porcellum” a scegliere i canditati, infatti, non sono più i cittadini ma i segretari dei vari partiti che inseriranno nelle liste elettorali i loro uomini in base ad amicizie, convenienze, “fratellanze”, alcove ecc. Gli “eletti” saranno legati mediante un filo indissolubile con i segretari del partito ai quali risponderanno infischiandosene degli elettori. La scelta prioritaria dei cittadini indipendentemente dalle logiche di partito è stata, quindi, resa vana da tutte le riforme approntate fino ad ora. Il capo della polizia di una città non è una carica elettiva, come non lo è il prefetto e neppure il procuratore generale della stessa città. L'autorizzazione per i politici, accusati di violazioni normative, ad essere giudicati da un tribunale della repubblica italiana non viene concessa da una giuria popolare, composta da cittadini scelti a campione tra quelli in possesso dei diritti civili e politici, ma dagli stessi colleghi di parlamento.

Anche un giudice accusato di violazioni normative non viene giudicato da una giuria popolare (come sarebbe auspicabile) da affiancare al giudice togato ma, salvo reati di competenza della Corte d'Assise, dai colleghi di altre città. Ovviamente di casi se ne potrebbero fare altri e ciascuno può rilevarli. Questi esempi dimostrano che i nostri sistemi democratici sono molto virtuali dato che, in pratica, le persone che occupano posizioni di potere esulano dalla scelta e dall'elezione diretta dei cittadini. Di conseguenza il concetto che la sovranità appartiene al popolo è pura fantasia.

Allora chi comanda nelle democrazie occidentali? Si chiederà qualcuno, dal momento che lo Stato promulga leggi ed attiva, mediante i suoi organi, quanto necessario al suo funzionamento. Leggendo la numerosa pubblica informazione riportata nel nostro link Libri consigliati ed altra che, ogni tanto, compare in sordina su alcuni mass media, ma soprattutto in internet, è assai facile arguire che lobby di potere, ben lontane dai valori cristiani su cui è stata costruita l'Europa, riescono a condizionare il funzionamento dello Stato in modo da poter perseguire le proprie teorie o i propri interessi indipendentemente dal comune sentire. Non solo, ma cercano con vari mezzi a disposizione di condizionare il "comune sentire" tentando anche, in molti casi, di normalizzare ciò che di solito viene considerato sconveniente. Anche in questo caso si potrebbero citare molti esempi, ma preferiamo far riferimento, come caso emblematico, a quanto successo in Belgio a proposito di pedofilia dove, stando alla numerosa documentazione pubblica esistente (riportata in parte anche nel nostro link Libri consigliati), alcuni "potenti" sono riusciti a schivare la galera. Tornando in Italia possiamo chiederci come mai le leggi a tutela dei minori dai programmi considerati nocivi per il loro sviluppo fisico e morale vengono tranquillamente violate, nonostante le numerose proteste dei cittadini che compaiono nelle varie "lettere al direttore" di quotidiani e riviste. Possiamo, inoltre, domandarci per quali motivi la famiglia subisce il peggior trattamento d'Europa oppure perchè le nostre leggi permissive (in contrasto con la volontà della maggioranza dei cittadini!) consentono a numerosi delinquenti multietnici di agire praticamente indisturbati. Lascio al lettore il diletto di trovare altri esempi che dimostrano come il termine democrazia sia un concetto virtuale!

Esiste solo un rimedio a tale infernale situazione: porre Dio e la Sua Parola al centro della nostra vita personale e familiare. E' necessario quindi pregare "…. per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità…" (1 Tm. 2,2). Il resto a nostro parere è solo esercizio dialettico o esposizione di teorie sociologiche che non modificano la situazione! Un popolo che ha deciso di eliminare dal comune sentire il senso di Dio è destinato alla condanna di cui ci parla lo Spirito Santo mediante S. Paolo " Essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa" (Rm. 1,21 seg.).

[1]Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini,

[2]per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità.

1 Tm. 2,1

I mass media inducono alla violenza?


La televisione si limita a ritrarre una violenza già esistente o al contrario ne favorisce lo sviluppo e la diffusione attraverso una programmazione mirata ad accrescerla ed esasperarla? (Alcuni esempi: crime-fiction, violenza nei dibattiti, TV del dolore, cinematografia violenta, messaggi subliminali in videogames e cartoni animati, etc.)
La violenza rappresenta anche oggi uno dei problemi più diffusi ed al contempo uno dei temi più discussi, oggetto di analisi psicologica, sociologica. Il concetto stesso di violenza è tutt’altro che univoco, ma tende ad esser correlato sia al momento storico sia al contesto sociale e culturale di un popolo, di un paese. Domandarsi se la televisione ritragga la violenza reale o se, al contrario, ne favorisca lo sviluppo e la diffusione attraverso una programmazione mirata ad accrescerla ed esasperarla, sembra un po’ come chiedere se sia nato prima l'uovo o la gallina. Le due tesi, oltretutto, non sembrano mutuamente esclusive, nel senso che possono coesistere ed anzi rafforzarsi l’una con l'altra. Una fra le definizioni più interessanti e indicative di violenza, che potrebbe esserci di aiuto in questa breve analisi è la seguente: la violenza è l’atto più grave dovuto ad inconsapevolezza che un essere umano possa compiere nei confronti di un altro essere umano, di un animale, dell’ambiente naturale. Inconsapevolezza, per una ragione molto semplice. L’individuo violento non è evidentemente in grado di riconoscere una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza: l’unità. Qualsiasi persona incontriamo per la strada, ascoltiamo, o semplicemente osserviamo in televisione o su un monitor del nostro computer, per quanto possa sembrarci distante, separata, distaccata da noi, è comunque parte di noi. E’ uno con noi stessi. Nonostante le apparenze non esiste alcuna separazione fisica fra noi e gli altri. Il vero problema è che non ne siamo consapevoli, alimentiamo un ego il quale cresce con noi, ci identifichiamo sempre più con esso, facciamo di tutto per rafforzarlo fino al punto di arrivare a trattare tutto ciò che è “altro”, come una potenziale minaccia. Qualsiasi cosa è potenzialmente una minaccia alla nostra sicurezza. L’ego è molto abile e cerca di difendersi attaccando tutto e tutti, e così nasce l’atteggiamento violento.

LA VIOLENZA NEL MEZZO RADIOTELEVISIVO
Già dal 1954, anno in cui la RAI inizia a trasmettere regolarmente le prime trasmissioni, il mondo politico italiano si rende conto subito delle enormi potenzialità della televisione, al contrario del mondo intellettuale. La grande preoccupazione sembra quella di educare il pubblico. Assistiamo all’invadenza delle forme pedagogiche all’interno dell’ambito dell’intrattenimento, e anche la fiction, come ogni altro genere televisivo, viene visibilmente influenzata dagli intenti pedagogici. Ma la violenza nel media televisivo fa la sua comparsa più tardi, con l’avvento delle televisioni private intorno al 1975, dove si inizia ad importare fiction di produzione straniera, in particolare di provenienza nord e sudamericana. Negli anni ’70 compaiono in Italia i primi cartoni animati giapponesi, basati sull’archetipo dell’eroe salva mondo e la sua eterna lotta contro il male. La violenza mediatica, in questi anni pare comunque confinata all’ambito dell’intrattenimento. E’ comunque qualcosa di distante dalla realtà contingente e dall’attualità. In Italia i problemi sono altri, inizia a diffondersi la droga e l’insofferenza sociale sfocerà negli anni di piombo, senza dubbio grandi fattori di stress per le masse.

Nel 1984 si ha una grande svolta per quanto riguarda il panorama televisivo italiano. Per la prima volta viene trasmessa la serie televisiva “La Piovra”, in cui viene messa in scena la lotta alla mafia. Uno dei più grandi successi della fiction italiana certamente dovuta all’abilità nell’unire lo stile da telefilm americano all’attualità italiana, la lotta alla cosiddetta criminalità organizzata. L’archetipo dell’eroe del bene assume le fattezze di un commissario che decide di combattere qualcosa molto più grande di lui. Dall’altra parte, il male viene impersonato dal boss mafioso spietato e carismatico. Una delle caratteristiche principali del programma è la serialità, che è caratteristica delle forme narrative per la massa, per cui si crea un’abitudine, un appuntamento fisso all’interno del tempo sociale, che ben presto va a consolidarsi. La piovra raggiunge il suo apice nel 1989: il 20 marzo, quando quasi diciotto milioni di italiani assistono all’assassinio del commissario Cattani.
Da lì in poi, il filone monopolizza di fatto la scena dell’intrattenimento violento. Nel 1985 arriva in Italia il serial di fantascienza Visitors e poco dopo, nel 1989, Hunter, un poliziesco in cui la dose di violenza aumenta considerevolmente rispetto agli altri prodotti di genere analogo, riscuoterà grande successo. Gli anni ’90 segnano un’evoluzione netta nella presenza di violenza come intrattenimento televisivo. Nel 1995 dagli Stati Uniti arriva N.Y.P.D., serie poliziesca durissima che negli Stati Uniti scatena polemiche per la violenza sia verbale che visiva. Nel 1996 entra in scena il “maresciallo Rocca” e giunge in Italia E.R., l’apoteosi della rappresentazione del dolore in forma di dramma medicale.

Dopo l’anno 2000 fino ai giorni nostri accade qualcosa di nuovo e per certi versi inedito. Assistiamo ad un processo di ibridazione. Se prima la fiction rappresentava il paradosso, l’irreale, l’artefatto, ora il divario fra il reale e la fiction va sfumando sempre più, complici anche i drammatici avvenimenti della cronaca. Per citarne uno, i fatti dell’11 settembre. Il reale quindi si ibrida con la fiction in una sorta di tutt’uno in cui la mente fa fatica a distinguere l’uno dall’altro. Non dimentichiamo che il subconscio è molto più ricettivo e performante rispetto alla mente consapevole. Va anche scomparendo l’effetto differita, cioè la rappresentazione sceneggiata di un evento che si è già svolto e concluso nel passato. Ora tutto avviene simultaneamente. La paura simulata e indotta dal mezzo mediatico è la stessa paura che si prova nei confronti del mondo esterno, fuori dalla porta di casa nostra. La violenza simulata in tv è la stessa violenza che potrebbe colpirci nel quotidiano, quando meno ce l’aspettiamo. Se infatti la TV, controllata dal potere, ha lo scopo prevalente, anche se non dichiarato, di plagiare il cervello dei cittadini orientandone i gusti e le preferenze, il plagiato deve innanzitutto essere nella condizione migliore per rendersi aperto alla manipolazione totale. Le tattiche sono:
- induzione dello stress
- accrescimento della frustrazione
- induzione di un senso di paura
Questi fattori rendono la persona desiderosa di staccare la spina, e la persona effettivamente la stacca la spina, ma come? Rilassandosi. Ecco preparata la torta avvelenata. Tonnellate di programmi aiuteranno il cittadino a svuotare la mente ed abbandonare il suo stress, la frustrazione, la paura.

LA CINEMATOGRAFIA VIOLENTA
Le emozioni forti diventano un’esigenza che deve essere soddisfatta, e la TV, o il cinema, inducono un bisogno e poi si occupano di fornire la dose quotidiana di intrattenimento e violenza necessari a soddisfare il bisogno stesso. I film, piuttosto che i programmi televisivi, aiutano a staccare la spina offrendo sensazioni forti a buon mercato che si concretizzano principalmente, per quanto riguarda la cinematografia, in violenza e orrore. Il film horror, nasce come genere all’inizio ‘900, ma ne corso degli anni ‘60 si sposta decisamente verso il genere psicologico. Poco più tardi, dato il crescente interesse del pubblico all'occulto, viene prodotta tutta una serie di pellicole dai toni forti, spesso con contenuti sessuali. Uno dei cambiamenti cruciali degli anni ‘60, per quanto riguarda le sceneggiature, è il cambiamento nel protagonista negativo delle vicende. Nel cinema dell’orrore classico, il mostro era un essere del tutto inumano, o non più umano (pensiamo a Dracula o gli zombie), mentre ora diviene essere umano, a volte in cerca di vendetta, oppure impazzito o assetato di sangue. La paura subisce quindi una trasformazione, cioè non è più nei confronti di ciò che non si conosce, bensì verso qualcuno che si conosce bene, ma di cui non ci si dovrebbe del tutto fidare (il proprio vicino di casa, o addirittura noi stessi). Negli anni ’90, si ha una nuova transizione, non è più la persona conosciuta a seminare il panico in una comunità o in un gruppo più ristretto di personaggi, ma è l’intera società ad essere malata e assassina. Oltre all'umanizzazione di personaggi negativi classici (il conte Vlad) avviene anche una sorta di generalizzazione del male. Il mostro è un uomo, ma questa volta non si è più certi di chi sia esattamente. Chiunque è imputabile e di chiunque è possibile dubitare. E’ la stessa società malata che crea e poi nasconde il mostro. Anche in questo caso, la caratteristica comune con l’horror classico è la forte dualità bene contro il male.

Nell’ultimo decennio la violenza è sempre più esposta, e al di là della rappresentazione del sangue e della morte violenta nasce l’interesse nel mostrare la sofferenza. La morte è quindi solo l'ultima tappa di un lungo e orribile percorso. Molti horror attuali aggiungono un gusto per la sofferenza sia psicologica che fisica, cosa che manca nei decenni precedenti. Inoltre vi è un’ulteriore progressione in quel processo di umanizzazione del mostro iniziato negli anni ’60, arrivando all’idea di un male esteso alla società, prima ancora che al mostro. I personaggi sono calati in una società identica a loro nei metodi e nei comportamenti, anche se con fini diversi. I poliziotti spesso non sono molto differenti dai criminali. E’ la società ad essere un mostro e i criminali non sono che una sua estensione. Il bene, sostanzialmente, non esiste più. Nell’ambito della cinematografia violenta, ma non solo in quell’ambito, potremmo affermare uno dei punti focali della nostra discussione: i mass media non inducono alla violenza, massivamente, ma la utilizzano come strumento per impegnare il cervello in un’attività intensa di creazione di emozioni strumentale sempre e comunque al distacco da un senso critico legato alla realtà che il soggetto vive. D’altra parte ci poniamo però, ancora una volta, il dubbio: siamo sicuri che la violenza messa in scena o ricreata cinematograficamente o attraverso certi videogames non si insinui a poco a poco nel subconscio dello spettatore, al punto da indurre atteggiamenti o comportamenti violenti?

LA VIOLENZA NELL’INFORMAZIONE DI MASSA
L’impressione che abbiamo è che ciò di cui ci siamo nutriti nel corso dei decenni scorsi abbia formato e condizionato profondamente il gusto e le scelte di consumo delle ultime generazioni. La violenza diventa spesso il linguaggio dell’informazione che i mass media ci propongono. La violenza nei toni e nei metodi approda nei dibattiti televisivi. La sofferenza prima relegata alla cinematografia entra oggi negli studi televisivi grazie alla tv del dolore. I risvolti sociologici possono essere numerosi. Possiamo citare anche le torture di abu-ghraib, o l'esposizione ostentata dei video con le uccisioni che vedevano protagonisti alcuni fondamentalisti islamici. Oggi, nel 2011, a che serve e a chi giova tutta questa violenza mediatica?

L’ARTE DI COSTRUIRE UNA MINACCIA
Il sociologo Zygmunt Bauman afferma: "La paura è un capitale voluminoso per i mass-media." Ma la paura potrebbe anche essere definita come l’aspettativa di una potenziale violenza. E quest’ultima, a sua volta, richiede necessariamente l’esistenza di una minaccia. Oggi la minaccia (presunta) è l’altro, il vicino, il diverso, la malattia, il virus; è il terrorista, è il mafioso, oppure ciò che ci è ignoto. Come abbiamo già visto, i media nel corso dei decenni hanno trattato ampiamente le principali minacce. Dunque, il modo più efficace per creare paura è quello di creare una minaccia, stabilire un nemico, un obiettivo e costruirvi sopra una rappresentazione di violenza. Una volta parlavamo con gli sconosciuti e confidavamo nelle loro buone intenzioni. Oggi sono tutti potenziali predatori. I bambini hanno bisogno di un cellulare in tasca e vivono nella paura di essere rapiti dal mostro di turno. Siamo ormai una società educata e basata sulla violenza e sulla paura, e questa ossessione si è insinuata in ogni aspetto della nostra vita, compresi i passatempi. Siamo seduti al cinema o davanti alla tv con gli occhi sbarrati mentre seguiamo le macchinazioni di un serial killer o qualche altro malcapitato mentre viene decapitato da una motosega. Senza soluzione di continuità parte l’aggiornamento del notiziario che ci ricorda di preoccuparci per questa o quella catastrofe in arrivo. L’informazione nei mass-media oggi è estremamente pervasiva. Tra l’altro non dobbiamo dimenticare che qualsiasi comunicazione prodotta dalla televisione o dagli altri media mainstream (cioè le grandi ‘testate’), per sua natura parte col piede sbagliato perché è monodirezionale e prevede che i due interlocutori, colui che trasmette e colui che riceve, siano entrambi convinti che il primo ne sa più del secondo. Parlando di carta stampata, questa è una premessa che regge esclusivamente sul prestigio della testata pubblicante (prestigio che si trasmette in automatico alla firma) e che i lettori – checché ne dicano - accettano in toto ed incondizionatamente.

UN CIRCOLO VIZIOSO
La televisione ritrae senz’altro scene di violenza dalla realtà, ma ne stimola anche, a sua volta, lo sviluppo, sia attraverso la semplice diffusione di scene di violenza tratte dalla vita reale, che attraverso la creazione di scene di violenza immaginarie e virtuali. D'altronde, anche la sola scelta di quale aspetto della realtà si desidera che venga focalizzato, fa in un certo senso da zoom ad effetto moltiplicatore dell'aspetto stesso, poiché, estrapolando un frammento di realtà, si tralascia di conseguenza tutto il resto. Dunque, ogni focalizzazione è uno stimolo per quegli aspetti della vita e per quei valori che vengono focalizzati. Ma i nostri occhi e il nostro cervello non fanno lo stesso? Se assistiamo costantemente a scene di violenza, non ne siamo comunque condizionati e molto spesso portati a emularle? Vogliamo anche soffermarci su un’altra questione importante, che riguarda la veridicità dello strumento televisivo. La parola stessa, tele-visione, credo che sia tradotta letteralmente in quasi tutte le lingue (es. fern-sehen in tedesco) e significa, letteralmente, guardare lontano. Come se la televisione fosse, cioè, una sorta di cannocchiale sul mondo. Che ci permette quindi di vedere realtà a noi remote pur rimanendo seduti comodamente in pantofole in poltrona. Ma siamo proprio sicuri che la televisione ci porti a vedere realtà a noi lontane e che sia quindi uno strumento per conoscere realtà distanti? O, piuttosto, è la televisione a portare noi, che la guardiamo, nel suo mondo?

Effettivamente, la televisione, cambiando continuamente forma e apparenza, sembrerebbe rispondere sempre ai nostri desideri e alla nostra fame di piacere visuale. D’altra parte, sembra che non faccia altro che proiettarci nel suo mondo, un mondo artefatto. Apparentemente siamo sempre noi a decidere e a detenerne il controllo, poiché abbiamo il telecomando in mano. Ma nella sostanza, perdiamo sempre, un po’ alla volta, la nostra identità mentre identificandoci sempre più in ciò che viene trasmesso, ne diventiamo condizionati a livello emotivo. Infatti, se non la guardiamo con una certa regolarità, secondo le nostre abitudini, avvertiamo una sensazione di mancanza di qualcosa. Quel "qualcosa" che sembra mancare è in realtà una piccolissima crisi d'astinenza che sperimentiamo: un po' come la mancanza del fiasco di vino per l'alcolizzato. Siamo diventati schiavi senza nemmeno accorgercene. E, per di più, per nostra libera scelta. E come se non bastasse, spesso siamo pronti a pagare per l’acquisto di nuovi servizi televisivi e nuovi programmi tali da darci più piacere. Sicuramente un circolo vizioso tra violenza reale ad esposizione alla violenza tramite mass media esiste, ma la televisione, essendo pensata a scopo di lucro, non fa altro che rispondere ad una domanda (come per il mercato). Oggi, non tutte le proposte televisive vengono accettate dal pubblico, probabilmente soltanto quelle che soddisfano una necessità, più o meno indotta. Il cittadino ha bisogno di incollarsi al telegiornale quando si parla di dolore altrui, e più la notizia è invadente e drammatica più avrà successo tra gli spettatori.

La domanda ricorrente è: perché? cosa cerchiamo? (che poi è la stessa riflessione che faremmo pensando ai film dell'orrore ed alla loro diffusione). Una risposta definitiva non esiste. Possiamo prendere atto che un certo tipo di prodotto ci piace, lo consumiamo, ma al contempo spingerci oltre con lo sguardo cercando di diventare consapevoli delle meccaniche psicologiche e sociologiche che hanno causato e determinato il grande problema della violenza reale e nei mass-media. Forse il discorso è diverso quando lo spettatore è un bambino. Non che egli abbia la testa vuota, ma sicuramente dispone di una mente non ancora contaminata, che forse non è il caso di riempire a suon di arancia meccanica. Da qui l’importanza di un’educazione consapevole, che spesso, come opzione possibile, può passare attraverso una chiusura temporanea del rubinetto mass-mediatico, per dedicarsi ad altre attività più ispiranti anche se meno battute dalla massa. Oggi, certa realtà supera ampiamente la fantasia, in quanto a violenza, e il comportamento reale spesso non trae più ispirazione dalla televisione, ma si spinge ben oltre, purtroppo.

UNA POSSIBILE SOLUZIONE AL PROBLEMA
Quantunque questi elementi di condizionamento possano ormai essere entrati nel nostro dna e riaffiorino quando meno ce l'aspettiamo, dovremmo molto probabilmente imparare a controllarli e a sviluppare interessi alternativi. A riflettere, ad esempio, su temi importanti. Ad osservare senza fretta qualsiasi cosa, anche le più banali. Magari un albero, il mare, il tramonto o un uccello che vola. Se viviamo in un Universo vibrazionale, se tutto vibra e con-vibra, certamente le suggestioni di violenza, crimini, ruberie e furbizie per aggirare i controlli e i sistemi possono entrare dentro le menti. Le menti fragili. Ma come costruire una mente e un sé stabile e centrato? Come fare in modo che queste vibrazioni non penetrino e non provochino disturbi o, peggio, istigazione a delinquere?

Ognuno di noi è mente singola ma è anche parte di una mente collettiva. Jung la chiamava inconscio collettivo, e tutti vi siamo immersi. Ciascuno di noi può lavorare su di sé e raggiungere un equilibrio, senza dubbio attraverso le prove dell'esistenza, sia attraverso la soluzione di conflitti esterni ed interni, attraverso un raggiungimento di un equilibrio psico-fisico che la famiglia ed educatori equilibrati potranno indicare come via percorribile. Ma nessuno crediamo possa impedire ad un altro individuo di fare le esperienze che gli servono! Tenere sotto una campana di vetro le farfalle le farà impazzire per il desiderio che hanno di volare e di conoscere spazi e fiori, ed altri elementi della Natura. Forse bisognerebbe favorire l'auto analisi, la comprensione che il mondo esterno non è altro che il riflesso del nostro interno! Allora colui che è equilibrato riuscirà a comprendere che le piazzate di certi talk-show fanno parte di noi e sono le nostre parti che si aggrediscono a vicenda, perché squilibrate. Tutto è uno spettacolo messo in scena perché possiamo smetterla di farci creare dai mass media e dalla loro violenza, e assumerci finalmente la piena responsabilità della nostra vita, per fare scelte di vita diverse che ci aiutino a equilibrare istinti, sentimenti, pensieri, emozioni per vivere al meglio. Certo, se la televisione fosse più equilibrata e condotta con saggezza potrebbe alternare il bene e il male, e mostrare come essi possano essere considerati parte di un Tao, e quindi come tutto quello che è squilibrato fuori debba tornare in equilibrio dentro, per poter essere tutti individui sereni e felici, e che non hanno bisogno di aggredirsi per convivere, ma possono benissimo, con humour e tolleranza, e senza aggressività, osservare a distanza il mondo esterno cercando di migliorare il proprio mondo interno.

Il problema delle masse è che si lasciano suggestionare più da messaggi che li illudono che la felicità sia il risultato di acquisti, oggetti di lusso, il superfluo presentato come necessità. L’educazione, la filosofia, la psicologia, la spiritualità, i grandi insegnamenti spiegati in maniera semplice alle masse potrebbero costituire un grande cambiamento. Ma il cambiamento di coscienza avverrà comunque, perché ormai la comunicazione in rete sta superando i mass media unidirezionali. Inoltre, organizzare dei periodi di oscuramento consapevole dell'in-formazione ed invitare la gente a maggiori scambi interpersonali tramite eventi di piazza, concerti, notti bianche, musica, arte, ed altre iniziative, potrebbe ulteriormente essere di grande aiuto.

lunedì 28 marzo 2011

Il Contratto con gli Italiani del 2001 era una farsa!

Il Contratto con gli Italiani siglato da Silvio Berlusconi a Porta a Porta l’8 maggio 2001, dinanzi al notaio Bruno Vespa, era uno scherzo. «Non era un contratto», «non ha mai avuto alcuna rilevanza giuridica»…

Insomma un semplice «atto politico» dotato di una «totale improduttività di effetti per nullità-inesistenza». È nullo, non è mai esistito. Chi lo dice? Un antiberlusconiano sfegatato? Un demonizzatore accanito? No, lo dice lo stesso autore del Contratto-non contratto: Silvio Berlusconi in persona. Dove? Negli atti difensivi depositati dai suoi legali nella causa intentata due anni fa da un giovane rompiscatole, A.C.: l’unico italiano ad aver preso sul serio il Contratto con gli Italiani. Al punto da recepirlo formalmente, recapitando al Cavaliere il 10 febbraio 2006 ­ penultimo giorno della penultima legislatura – un “atto di accettazione”. In quella letterina piena di riferimenti giuridici, A.C. rammentava all’ allora premier che quello siglato sulla celebre scrivania di ciliegio “può essere qualificato come un contratto con obbligazioni del solo proponente (art. 1333 Codice civile)”.

Quindi, non essendo “stato da Lei mai revocato”, è “giuridicamente vincolante” e sottoposto alla verifica della magistratura. Da quel momento si è perfezionato il contratto unilaterale fra Berlusconi e gli italiani (che non avevano firmato nulla), perché almeno uno di essi l’ha accettato. E, con quella firma, è scattata la trappola. Il rompiscatole e i suoi avvocati Alessandro Frittelli e Giuseppe Marazzita ricordano al Tribunale civile di Milano che il Cavaliere s’era impegnato a “non ripresentarmi alle elezioni del 2006 se, al termine dei 5 anni di governo, almeno 4 su 5 traguardi non fossero stati raggiunti”.

Impegno violato nel 2006 e nel 2008, quando Berlusconi s’è ricandidato per ben due volte, pur avendo mancato tutti e 5 i traguardi “contrattuali”. Lo stesso Cavaliere ­ osservano i legali di A.C. ­ séguita a ripetere di aver rispettato “l’85% degli impegni”, mentre in casa Vespa aveva promesso di realizzarne interamente 4 su 5. Dopodichè le aliquote fiscali sono rimaste 4, non 2; le pensioni minime non sono aumentate a 516 euro per tutti, ma solo per qualcuno; i delitti non sono diminuiti, ma aumentati; la disoccupazione non s’è dimezzata; il 40% di grandi opere non è partito.

Perciò il tignoso cittadino si sente preso in giro e chiede i danni: 5 mila euro simbolici per mancata ottemperanza dell’”obbligo di non facere”. Cioè di ritirarsi a vita privata. La difesa Berlusconi ribatte che il Contratto è “nullo”, dunque nessuno può pretenderne il rispetto: era un semplice “programma politico”.

Ma A.C. dimostra che il programma della Cdl era tutt’altra cosa rispetto al Contratto, come lo stesso Cavaliere proclamò solennemente a Porta a Porta.

La difesa Berlusconi ammette addirittura che gl’impegni non furono rispettati, anche se accampa le solite scuse: “Se il mancato raggiungimento di una o più parti del programma politico si è verificato, cioè è dovuto a fattori politico-economici imprevedibili e indipendenti dalla volontà del dr. Berlusconi: a partire dell’attentato alle torri gemelle fino al buco di 37 mila miliardi di lire scoperto dopo l’insediamento del Governo…”.

Poi, a scanso di equivoci, invoca l’immunità parlamentare: il Contratto-non contratto rientrerebbe “nell’attività insindacabile” protetta dall’”art.68 della Costituzione” che “comporterebbe l’improcedibilità del giudizio o la sospensione del processo” in attesa dell’autorizzazione a procedere della Camera.

Ma qui il rompiscatole A.C. piazza il colpo che potrebbe essere decisivo: “Se il dr. Berlusconi sapeva che il Contratto era inesistente e dunque nullo, perché non ne ha dato notizia fin dall’inizio” a lui e agli altri 58 milioni di italiani?

di Marco Travaglio

Parliamo qui della condanna di Andrea Casamassima per aver accusato il premier di aver fatto dichiarazione mendace davanti ad un pubblico. Clicca qui.

domenica 27 marzo 2011

"Modus operandi" del blog

Se qualcuno avesse anche la necessità di contattarmi non esiti a farlo scrivendomi una e-mail: 
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Il blog dà spazio a tutti coloro che vogliono dire la loro riguardo i temi di politica e di lavoro.

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Dott. Mag. Giacomo Palumbo

I siciliani che sfidano Cosa nostra

Il potere dell’organizzazione criminale sull’isola è ancora molto forte. Sempre più spesso gli imprenditori si rifiutano di pagare il pizzo e i beni dei boss vengono confiscati.


Fino a poco tempo fa Ernesto Bisanti non avrebbe mai immaginato di poter affrontare Cosa nostra. Nel 1986 Bisanti avviò una fabbrica di mobili a Palermo. Subito dopo l’inizio dell’attività andò a fargli visita uno dei mafiosi del quartiere. L’uomo gli chiese l’equivalente di circa seimila euro all’anno, racconta Bisanti, per non avere problemi: “Le costerà meno che assumere una guardia privata”, disse. Poi aggiunse: “Non mi va di vederla ogni mese, perciò verrò a giugno e dicembre e ogni volta lei mi darà la metà”. Bisanti accettò, come quasi tutti i proprietari di negozi e imprese della città.
L’accordo è durato vent’anni. “A volte si presentava con il figlio”, ricorda Bisanti, “e diceva: ‘Dica a mio figlio che deve studiare, perché è importante’. Eravamo quasi entrati in confidenza”. Bisanti, un uomo ben piazzato di 64 anni, sostiene che la somma non era così onerosa: “Nel loro sistema non è importante quanto paghi. È importante che paghi. È una forma di sottomissione”.
Poi, nel novembre 2007, la polizia ha arrestato Salvatore Lo Piccolo, il capo della mafia di Palermo. In un taccuino in suo possesso c’era un elenco di cento proprietari di negozi e imprese che pagavano il pizzo. Sulla lista c’era anche il nome di Bisanti. La polizia di Palermo ha chiesto al commerciante se voleva testimoniare contro l’estorsore. Fino a poco tempo prima sarebbe stato impensabile: una denuncia avrebbe significato una condanna a morte.
Ma negli ultimi anni le operazioni di polizia e le rivelazioni dei collaboratori di giustizia hanno indebolito la mafia, e un movimento di cittadini chiamato Addiopizzo ha organizzato la resistenza contro il racket dell’estorsione. Bisanti ha deciso di sporgere denuncia, e nel gennaio del 2008 ha testimoniato in un’aula di tribunale di Palermo, contribuendo a far condannare il suo estorsore. Da allora la mafia non ha più importunato Bisanti: “Sanno che li denuncerei di nuovo, e hanno paura”.
Quest’isola assolata è sempre stata un posto di identità conflittuali. C’è la Sicilia romantica, celebrata per i suoi agrumeti profumati, le montagne di granito e le rovine lasciate da una serie di conquistatori. L’acropoli di Selinunte, costruita intorno al 630 aC, e la Valle dei Templi di Agrigento – descritta dal poeta greco Pindaro come “la più bella città dei mortali” – sono considerate tra le vestigia più incantevoli dell’antica Grecia, che governò la Sicilia dall’ottavo al terzo secolo aC. Nel nono secolo dC i conquistatori arabi costruirono palazzi affrescati a Palermo e Catania. Poche chiese sono belle come la cappella Palatina di Palermo, eretta tra il 1130 e il 1140 da re Ruggero II di Sicilia durante la dominazione normanna. Anche le meraviglie naturali abbondano: sul lato orientale dell’isola c’è l’Etna, sotto il quale, secondo la mitologia greca, giace il mostro Tifone, intrappolato e sepolto da Zeus per l’eternità.
Ma la Sicilia è famosa anche per essere il luogo di nascita della mafia, forse l’organizzazione criminale più potente del mondo. Il termine è diventato popolare a partire dagli anni sessanta dell’ottocento, all’epoca dell’unificazione d’Italia. Quando le forze alleate invasero l’isola, durante la seconda guerra mondiale, cercarono l’appoggio dei malavitosi italoamericani di origine siciliana, come Vito Genovese, per assicurarsi il controllo del territorio. Nei decenni successivi Cosa nostra ha costruito rapporti con i politici italiani – tra cui Giulio Andreotti (presidente del consiglio per sette volte, tra il 1972 e il 1992) – e ha accumulato miliardi attraverso il traffico di eroina, l’estorsione, gli appalti pubblici truccati e altre attività illegali. Chi osava parlare era messo a tacere con un’autobomba o una scarica di proiettili. Alcuni dei boss più violenti e potenti dell’organizzazione provenivano da Corleone, una cittadina di collina a sud di Palermo.
Giudici coraggiosi
Poi, negli anni ottanta, i coraggiosi procuratori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino riuscirono a convincere molti affiliati a rompere il giuramento del silenzio e a collaborare con la giustizia. I loro sforzi portarono al maxiprocesso del 1986-1987, che mostrò i legami occulti tra criminali e funzionari pubblici e mandò in carcere più di trecento mafiosi. La mafia reagì. Il 23 maggio del 1992, lungo l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, dei killer fecero saltare in aria l’automobile blindata che trasportava Falcone, 53 anni, e la moglie Francesca Morvillo, magistrata di 46 anni, uccidendoli insieme a tre poliziotti della scorta. Borsellino, 52 anni, fu ucciso meno di due mesi dopo da un’altra bomba, insieme ai suoi cinque uomini di scorta, mentre stava entrando a casa della madre, a Palermo.
Ma quegli omicidi non bloccarono il movimento antimafia, anzi, lo rafforzarono. Nel gennaio del 1993 Salvatore “la Bestia” Riina, il capo di tutti i capi di Cosa nostra, fu catturato vicino alla sua villa di Palermo, dopo vent’anni di latitanza. Fu processato e condannato a dodici ergastoli. Riina fu sostituito da Bernardo “il Trattore” Provenzano, che preferì tenere un basso profilo, riducendo gli atti di violenza, pur continuando ad accumulare denaro con il racket dell’estorsione e gli appalti pubblici. Nell’aprile 2006 le forze dell’ordine lo hanno scovato e arrestato in una misera casa di campagna sulle colline sopra Corleone: era latitante da 43 anni. Anche Provenzano è stato condannato a vari ergastoli. Il suo probabile successore, Matteo Messina Denaro, è latitante dal 1993.
Ancora prima dell’arresto di Provenzano, una rivoluzione silenziosa aveva cominciato a trasformare la Sicilia. Centinaia di imprenditori e commercianti di Palermo e di altre città e paesi siciliani si sono rifiutati di pagare il pizzo. Sindaci, giornalisti e altri funzionari pubblici che un tempo facevano finta di non vedere, hanno cominciato a parlare apertamente contro la mafia. Una legge approvata dal parlamento italiano nel 1996 ha permesso al governo di confiscare i beni dei mafiosi condannati e trasferirli, gratuitamente, a organizzazioni di volontariato.
Negli ultimi anni coo­perative agricole e altre associazioni hanno preso in gestione ville e terreni della mafia, convertendoli in centri di aggregazione, alberghi e fattorie biologiche. “Abbiamo aiutato le persone del posto a cambiare il loro modo di vedere la mafia”, dice Francesco Galante, responsabile della comunicazione di Libera terra, un’organizzazione che oggi controlla quasi ottocento ettari di terreni confiscati, soprattutto intorno a Corleone. Il gruppo ha dato lavoro a cento abitanti del posto, coltivando i campi abbandonati. “Le persone non vedono più la mafia come l’unica istituzione di cui possono fidarsi”, dice Galante.
Boss con la valigetta
Dopo essere atterrato all’aeroporto Falcone-Borsellino, noleggio un’auto e seguo la litoranea verso Palermo, passando per Capaci. Uscendo dall’autostrada, costeggio una lunga serie di fatiscenti condomini in calcestruzzo alla periferia di Palermo. Un orrore costruito negli anni sessanta e settanta da società legate alla mafia. “Questa è l’eredità di Ciancimino”, mi dice il mio traduttore, Andrea Cottone, mentre percorriamo via della Libertà, un tempo un viale elegante, dove i caseggiati hanno circondato le ville del settecento e dell’ottocento. Contratti per miliardi di euro furono assegnati a Cosa nostra dall’assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino, morto agli arresti domiciliari a Roma, nel 2002, dopo una condanna per associazione mafiosa.
Superata una barriera di guardie del corpo all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, entro nell’ufficio di Ignazio De Francisci, al secondo piano. Tra il 1985 e il 1989 De Francisci, che oggi ha 58 anni, è stato il vice di Falcone. “Falcone è stato come Cristoforo Colombo. Ha aperto la strada a tutti gli altri”, mi spiega De Francisci. Guardando una foto del magistrato assassinato sulla parete dietro la sua scrivania, si fa silenzioso. “Penso spesso a lui e vorrei che fosse ancora al mio fianco”.
Diciotto anni dopo l’assassinio di Falcone, la pressione sulla mafia non si è allentata. A marzo del 2010 De Francisci ha concluso un’inchiesta che ha portato all’arresto di 26 mafiosi a Palermo e in alcune città degli Stati Uniti, per accuse che vanno dal traffico di droga al riciclaggio di denaro sporco. Poco prima la polizia aveva catturato Giuseppe Liga, un architetto di 60 anni che è uno dei boss più potenti della mafia a Palermo. L’ascesa di Liga illustra la trasformazione della criminalità organizzata. Il potere si è trasferito da killer spietati come Riina e Provenzano a professionisti e personaggi del mondo finanziario che non vengono dalla strada come i loro predecessori e non hanno la loro fame di violenza. De Francisci descrive il movimento Addiopizzo come il simbolo del coraggio mostrato negli ultimi anni dai cittadini.
Al tramonto mi avventuro in viale Strasburgo, un’affollata arteria commerciale dove Addiopizzo ha organizzato una campagna di reclutamento. Una decina di ragazzi sono riuniti sotto un tendone circondato da striscioni che dicono “Possiamo farcela!”. Addiopizzo è nata nel 2004, quando sei amici che volevano aprire un pub – e che avvertivano la debolezza della mafia – hanno affisso in tutta la città dei manifesti che accusavano i siciliani di rinunciare alla loro dignità a favore dell’organizzazione criminale. “La gente diceva: ‘E che è questo?’. Dire a un siciliano che non ha dignità è il peggiore degli insulti”, mi racconta Enrico Colajanni, uno dei fondatori. Oggi il movimento conta più di 46o aderenti; nel 2007 ha dato vita a Libero futuro, la prima associazione antiracket palermitana. I suoi membri hanno testimoniato contro gli estorsori in 27 processi. “È un buon inizio”, dice Colajanni, “ma a Palermo sono ancora migliaia quelli che pagano. Ci vorrà tempo per sviluppare un movimento di massa”.
Secondo uno studio dell’università di Palermo pubblicato nel 2008, circa l’80 per cento delle imprese del capoluogo paga ancora il pizzo, e in Sicilia il racket dell’estorsione frutta alla mafia almeno un miliardo di euro all’anno. Le aggressioni e le minacce a chi si rifiuta di pagare il pizzo continuano: nel 2007 Rodolfo Guajana, un iscritto di Addiopizzo che ha un negozio di ferramenta con un fatturato di milioni di euro, ha ricevuto una bottiglia contenente della benzina e un accendino. Non se ne è preoccupato più di tanto. Quattro mesi dopo il suo magazzino è stato incendiato.
Le famiglie di Partinico
Una mattina vado con il mio traduttore e con Francesco Galante nella valle di Jato, a sud di Palermo, per dare un’occhiata al progetto più recente di Libera terra. Parcheggiamo l’auto lungo una strada di campagna e saliamo per un sentiero fangoso attraverso le colline, con un vento freddo che ci batte in faccia. Sotto, una scacchiera di campi di grano e ceci si estende verso cime frastagliate e spoglie. In lontananza si vede il paese di San Cipirello, con le sue case dai tetti arancioni ammassate intorno a una vistosa cattedrale.
Raggiungiamo filari di vite legati a pali di legno, curati da quattro uomini che indossano tute azzurre con il logo di Libera terra. “Fino a qualche anno fa il vigneto era di proprietà della famiglia mafiosa dei Brusca, ma era stato abbandonato”, dice Galante. Nel 2007 una cooperativa associata a Libera terra ha acquistato da un consorzio di amministrazioni comunali i terreni confiscati, ma faticava a trovare dei lavoratori. “Mettere piede su questa terra, la terra del boss, era un tabù. Ma poi, dopo le prime assunzioni, i lavoratori hanno cominciato ad arrivare”. Galante si aspetta che il vigneto produca 42 tonnellate di uva al suo primo raccolto, sufficienti per trentamila bottiglie di vino rosso da vendere sotto l’etichetta Centopassi (un riferimento a un film su Peppino Impastato, attivista antimafia ucciso da Cosa nostra).
Tra i filari parlo con uno degli operai, Franco Sottile, 52 anni, che viene dalla vicina Corleone. Mi dice che oggi guadagna il 50 per cento in più di quanto prendeva quando lavorava su terreni di proprietà dei boss della mafia. “All’inizio pensavo che potessero esserci dei problemi a lavorare qui”, dice. “Ma ora sappiamo che non c’è niente da temere”.
Avevo sentito dire che la mafia è meno clemente a Partinico, una cittadina di trentamila abitanti a trenta chilometri da Corleone. Ci vado in auto e parcheggio sulla piazza principale, dove vecchi con berretti neri e abiti consunti siedono al sole sulle panchine che circondano una chiesa gotica del cinquecento. Arriva una Fiat scassata e ne esce una figura smilza in abiti eleganti: Pino Maniaci, 57 anni, proprietario e principale giornalista di Telejato, una minuscola emittente di Partinico. Maniaci ha dichiarato guerra alla mafia locale e per questo ha pagato un prezzo molto alto.
L’ex imprenditore ha rilevato l’emittente vicina al fallimento da Rifondazione comunista, nel 1999. “Avevo scommesso con me stesso che potevo salvarla”, mi dice accendendo una sigaretta, mentre dalla piazza percorriamo i vicoli verso il suo studio. All’epoca la città era nel bel mezzo di una guerra tra famiglie mafiose rivali. A differenza di Palermo, la violenza qui non è mai finita: solo negli ultimi due anni sono state uccise otto persone. La posizione chiave della cittadina, tra le province di Trapani e Palermo, ne ha fatto un campo di battaglia continuo. Per due anni Maniaci ha mandato in onda le denunce su una distilleria di proprietà della mafia, che violava i regolamenti antinquinamento della Sicilia e riversava fumi tossici nell’atmosfera. Un giorno si è incatenato al recinto della distilleria per spingere la polizia a chiuderla.
Maniaci ha anche identificato una casa usata da Bernardo Provenzano e dai capi della mafia locale per organizzare omicidi e altri reati. Poi, nel 2006, ha fatto lo scoop della vita, unendosi alle forze di polizia mentre facevano irruzione in una baracca vicino a Corleone e catturavano Provenzano. La mafia ha bruciato l’automobile di Maniaci per due volte e ha minacciato ripetutamente di ucciderlo; nel 2008 un paio di delinquenti lo hanno picchiato fuori dal suo ufficio. Il giorno dopo è andato in onda con la faccia piena di lividi, denunciando gli aggressori. Dopo l’episodio ha rifiutato l’offerta di protezione delle forze dell’ordine, perché questo gli impedirebbe di incontrare le sue “fonti riservate”.
Maniaci mi guida su per una stretta rampa di scale al suo studio al secondo piano. Le pareti sono tappezzate di caricature e ritagli incorniciati delle sue gesta giornalistiche. Si lascia cadere su una sedia vicino a un computer e accende un’altra sigaretta (ne fuma tre pacchetti al giorno). Poi, in vista del suo notiziario quotidiano, comincia a fare una telefonata dietro l’altra. Sta cercando di scoprire chi sono i responsabili dell’incendio delle automobili di due importanti imprenditori locali, bruciate la notte precedente. Telejato, che raggiunge 180mila spettatori in 25 comunità, ha una gestione familiare: la moglie di Maniaci, Patrizia, 44 anni, è la direttrice dell’emittente; i figli Giovanni e Letizia fanno il cameraman e la cronista. “Il mio errore più grande è stato coinvolgere l’intera famiglia”, afferma Maniaci. “Ora sono tutti ossessionati quanto me”.
La speranza di Corleone
L’emittente ha un bilancio ridotto all’osso, con circa quattromila euro al mese di entrate pubblicitarie, che coprono le spese ma non lasciano quasi niente per gli stipendi. “Siamo una fiammella che spera di diventare un grande fuoco”, dice Maniaci, aggiungendo che a volte ha la sensazione di combattere una battaglia persa. Negli ultimi due anni il governo Berlusconi ha introdotto dei provvedimenti che potrebbero indebolire la lotta alla mafia: regole più severe sulle intercettazioni, un condono per chi riporta in patria i capitali depositati all’estero, pagando solo una multa del 5 per cento. “Abbiamo Berlusconi. È questo il nostro problema”, mi dice Maniaci. “Non possiamo distruggere la mafia a causa dei suoi collegamenti con la politica”. Ma non tutti i politici sono legati alla criminalità organizzata.
Il giorno dopo aver parlato con Maniaci, vado a sud di Palermo per incontrare il sindaco di Corleone Antonino Iannazzo, che dopo la sua elezione, nel 2007, si è dato da fare per riabilitare il nome della cittadina. La strada a due corsie scende e risale attraverso la valle di Jato passando vicino a uliveti, fichi d’India e pascoli verde chiaro che si estendono verso affascinanti crinali granitici. Alla fine arrivo nel centro di Corleone. Edifici medievali con le balaustre dei balconi in ferro battuto si affacciano su vicoli che salgono a zig zag lungo un ripido pendio. Due grandi colonne di arenaria svettano su una cittadina di undicimila abitanti. Nella navata centrale di una fatiscente chiesa rinascimentale vicino al centro trovo Iannazzo, un uomo esuberante di 35 anni con la barba rossa e un mozzicone di sigaro in bocca, che sta mostrando alcuni lavori di restauro ai giornalisti e agli imprenditori del posto.
Iannazzo ha adottato un approccio pragmatico verso la mafia. Quando Giuseppe Salvatore Riina, il figlio più giovane del boss, è tornato a Corleone dopo essere uscito di carcere, Iannazzo è andato in tv e ha detto: “Non lo vogliamo qui, non perché abbiamo paura di lui, ma perché non è un buon segnale per i giovani”, mi spiega. “Dopo anni di sforzi per fornire alternative alla mafia, un uomo del genere può distruggere tutto il nostro lavoro”. Poco dopo Riina è tornato in carcere. In ogni caso, aveva “capito che a Corleone non avrebbe più fatto la bella vita”. Ora il principale obiettivo di Iannazzo è trovare un lavoro ai giovani del paese (a Corleone la disoccupazione è al 16 per cento) per “evitare che siano attratti dalla vita mafiosa”.
La villa di Riina
Iannazzo sale in macchina e mi guida attraverso un labirinto di stradine, fino a una casa a schiera di due piani appoggiata sul fianco di una collina. “Qui è nato Bernardo Provenzano”, mi dice. L’amministrazione comunale l’ha confiscata ai Provenzano nel 2005. Lo stesso Iannazzo, allora vicesindaco, contribuì a cacciare i due fratelli di Provenzano. “Presero le loro cose e se ne andarono in silenzio, trasferendosi cinquanta metri più giù”. Iannazzo sta trasformando la casa in un “laboratorio della legalità”: un misto tra un museo, un laboratorio e negozio al dettaglio per cooperative antimafia come Libera terra.
Il sindaco ha perfino partecipato al progetto: le austere ringhiere di ferro fanno pensare alle sbarre del carcere, mentre i fogli di plexiglass sui pavimenti simboleggiano la trasparenza. “Mostreremo l’intera storia della mafia in questa regione”, spiega fermandosi davanti ai resti carbonizzati di un’auto che apparteneva al giornalista Pino Maniaci. Iannazzo ha davanti a sé ancora sfide importanti. In base a una nuova legge approvata dal parlamento italiano a dicembre del 2009, una proprietà confiscata alla mafia deve essere messa all’asta entro novanta giorni se non è stata acquisita da qualche associazione di volontariato. La legge punta a raccogliere denaro per le casse vuote dello stato, ma molti temono che così le proprietà tornino nelle mani della criminalità organizzata.
Novanta giorni sono “un periodo breve”, dice Francesco Galante di Libera terra, spiegando che gruppi come il suo possono aver bisogno anche di otto anni per acquistare i beni confiscati alla mafia. Secondo Galante circa cinquemila proprietà potrebbero tornare nelle mani di Cosa nostra.
Uno dei simboli più potenti dell’oscuro passato dell’isola, l’ex abitazione di Salvatore Riina a Palermo, dove “la Bestia” viveva sotto falso nome insieme alla famiglia prima della cattura, è stata comprata dall’ordine dei giornalisti di Sicilia. L’elegante villa, con un giardino di palme da datteri, sembra la residenza di uno sceneggiatore sulle colline di Hollywood. “In questo posto non incontrava mai nessun mafioso”, mi spiega Franco Nicastro, ex presidente dell’ordine dei giornalisti, spalancando le imposte e permettendo al sole di inondare di luce il soggiorno vuoto. “Era un luogo riservato alla sua famiglia”. Nel 2010 è diventata la sede dell’ordine. Al suo interno c’è una mostra in ricordo degli otto cronisti uccisi dalla mafia tra gli anni sessanta e il 1993. “Riina poteva uccidere i giornalisti, ma il giornalismo non è morto”, dice Nicastro, facendomi strada fino a una piscina vuota e a un patio piastrellato dove il boss preparava i barbecue.
In futuro comprare i beni dei mafiosi potrebbe diventare più difficile. Ma per i siciliani che si sono risvegliati da un lungo incubo imposto dalla mafia non ci saranno marce indietro.
Traduzione di Nazzareno Mataldi.
Internazionale, numero 890, 25 marzo 2011

sabato 26 marzo 2011

L'Unione europea presenterà i test nucleari di sicurezza.


L'Unione Europea sta preparando gli "esami di prova" per le centrali nucleari con i test di sicurezza, se necessario. Rimuovere le strutture è necessario per ridurre il rischio di un incidente come quella vissuta dal Giappone. C'è da dire che "se una centrale non supera questi test, sarebbe stata chiuso", ha assicurato il capo di stato francese Nicolas Sarkozy Venerdì, dopo un vertice Ue a Bruxelles. L'impegno è importante perché la Francia gestisce 58 dei 143 reattori operativi in ​​quattordici dei 27. Tuttavia, 34 di questi impianti hanno più di 30 anni, come la centrale di Fessenheim vicino a Mulhouse (Est), che si trova in una zona sismica e la chiusura del quale è stata chiesta per anni dagli ambientalisti. Il cancelliere tedesco Angela Merkel e il Primo Ministro spagnolo Jose Luis Zapatero sono sulla stessa linea. "Non possiamo fare come se nulla fosse successo" in Giappone ", ha detto la Signora Merkel. La Germania ha già deciso di sospendere per tre mesi in sette dei suoi 17 reattori. "Mentre è chiaro che se un impianto non supera la prova e non può fare nulla, è logico che sia chiuso e fermato", ha detto Zapatero. La Spagna ha sei stazioni e nove reattori. Esperti nucleari da parte della Commissione europea e il Gruppo dei regolatori europei ENSRG, un organismo indipendente creato nel 2007, si riunirà da Lunedi a definire i controlli e le procedure. Dalla Commissione: Le loro proposte sono attese all'inizio di aprile e un catalogo di criteri di sicurezza devono essere sviluppate per il mese di giugno. "Vogliamo gli standard della massima sicurezza", ha sottolineato il presidente dell'Unione europea, Herman van Rompuy. Il Commissario all'Energia, Günther Oettinger si è detto convinto che "più reattori non soddisfano i più elevati standard di sicurezza". La questione rimane in sospeso, ha riconosciuto il presidente della Commissione europea Jose Manuel Barroso. "Non lasciare che gli esperti delle prove sono legati alla lobby nucleare", ha avvertito il primo ministro del Lussemburgo Jean-Claude Juncker.
La posta in gioco è enorme, 24 nuovi reattori sono in programma nella UE, sei dei quali sono già in costruzione: due in Bulgaria, Finlandia, uno in Francia e due in Slovacchia.
La Francia spera di continuare a vendere la sua tecnologia nucleare e impostando nuove norme di sicurezza a prevalere sui suoi concorrenti. L'Italia si dichiara favorevole. "cose da far accapponare la pelle ad Augusto e Tito" e secondo le statistiche anche a molti italiani. Tuttavia, ritornando all'incidente presso lo stabilimento di Fukushima in Giappone in cui ha scalfito l'entusiasmo messo in rivivere i timori nucleari.
La Merkel ha detto che la Germania vuole vedere il più rapidamente possibile il da farsi sul nucleare e all'Italia è stato dato un anno di "riflessione" per decidere se torna al nucleare, abbandonato nel 1987 dal referendum. La fine del nucleare non è per domani. "Quasi il 30% dell'elettricità europea proviene da centrali nucleari e l'energia nucleare rimane una fonte di breve-sourcing, ma anche di medio e lungo termine", afferma Günther Oettinger.
Ancora traumatizzati dalla catastrofe di Chernobyl in Ucraina nel 1986, l'UE vuole spingere i suoi vicini di giocare come trasparenza. "Dobbiamo assicurare che tutti in Europa si impegnino a precisi parametri, ha detto Oettinger, e miriamo al nucleare dei nostri paesi vicini come la Svizzera, Russia, Ucraina, Bielorussia, o anche la Turchia, dove sono in programma tre centrali nucleari.

lunedì 21 marzo 2011

Media, democrazia e sviluppo telematico.


E' interessante dal punto di vista della riflessione sulle problematiche attuali riguardanti la democrazia risulta la considerazione del complesso rapporto che tale forma politica intrattiene con le moderne tecnologie. Sono o possono diventare strumenti di un sistema più democratico o producono invece nuove oligarchie?
La discussione su queste tematiche è molto articolata e lascia spazio a diversi e spesso contrastanti giudizi, tutti egualmente veri ma, allo stesso tempo, assai limitati. Data la relativa novità dell’argomento non esistono schemi già fissati, ma è facile trovare, sui giornali o nella rete, le testimonianze di una presa di coscienza più o meno interessata e strumentale, ma di fondamentale rilevanza: ormai le nuove tecnologie sono parte della vita quotidiana e difficilmente possono essere ignorate, pena l’esclusione dalla società, sia a livello, per così dire "alto", sia a livello di rapporti personali con gli amici e le istituzioni.
A questo proposito un documento importante è costituito dalle parole di Stefano Rodotà, garante per la privacy, che spaziano dalla necessità dell’adeguamento del sistema politico, italiano e non, all’evoluzione dei media, al problema della pubblicità scorretta e condizionante, alla tutela della sfera privata del cittadino, questioni che si rivelano inscindibilmente legate alla democrazia e che solo un paese democratico è in grado di porsi con la pressante necessità di risposte soddisfacenti e al passo con i tempi.

Vizi di forma e luoghi comuni nella discussione sull’evoluzione dei media

Il dibattito relativo all’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, pur indirizzandosi nella direzione di una più piena e consapevole comprensione e osservazione della realtà, rimane ancora prigioniero di vizi di forma e di luoghi comuni da cui è indispensabile liberarsi per affrontare in modo più completo e sereno la questione. Da combattere è innanzitutto la superbia tecnologica ovvero la convinzione che le tecnologie producano da sé le proprie regole senza tenere conto della reazione della società in cui vengono introdotte. Nulla è più falso, basti pensare che al momento dell’introduzione delle prime tecnologie informatiche si sosteneva che non servissero regole, ora invece tali regole stimate inutili sono indispensabili e codificate e anzi, l’Italia costituisce un’anomalia proprio in virtù del suo vuoto legislativo in questo ambito. Le leggi non sono utili soltanto per imbrigliare la "portata rivoluzionaria" delle tecnologie, ma ne valorizzano le potenzialità. Si pensi in particolare alla facilità di accesso alle informazioni; se il diritto all’accesso non fosse stato sancito la tecnologia sarebbe stata sfruttata solo in minima parte, ma sono necessarie regole.
Altro ostacolo all’apertura di un dibattito serio è l’ottimismo del mercato: non tutto, infatti, si risolve con la spontaneità del mercato che, privilegiando ovviamente gli interessi economici può stabilire addirittura categorie di cittadini o intere aree a cui non è conveniente far giungere alcune tecnologie, il che significa, dal momento che oggi si comunica soltanto se si è a conoscenza dell’alfabeto tecnologico, escluderli automaticamente dalla società. Pertanto non può essere il mercato a condurre le sorti della diffusione delle tecnologie ma esso deve essere guidato affinchè renda un servizio universale portando ovunque ciò che ormai è indispensabile per far parte del mondo civile.
Un ulteriore rischio è quello relativo alla semplificazione politico-ideologica per cui sembra che non vi sia nel giudizio riguardo alla nuove tecnologie una via di mezzo: le posizioni oscillano tra una visione quasi miracolistica della tecnologia, grazie al cui intervento la democrazia sarà finalmente democrazia di tutti, la democrazia diretta dell’antica Atene, e una concezione della tecnologia che controlla, spia e ordina ogni cosa imprigionando l’individuo.
Si tratta in tutti e tre i casi di una semplificazione della problematica, sottoposta inoltre all’azione di molti luoghi comuni tra cui i principali sembrano essere la pretesa neutralità delle tecnologie, per cui esse possono assumere un volto positivo o negativo a seconda dell’uso che se ne fa, e il loro carattere liberatorio. In queste considerazioni esiste un fondo di verità, ma nel primo caso si opera una generalizzazione e una deresponsabilizzazione delle tecnologie cui corrisponde invece un’eccessiva responsabilizzazione di chi le utilizza senza tener conto di come la tecnologia effettivamente si comporta: diverso infatti è prendere in considerazione uno strumento come la televisione, dove il messaggio va tendenzialmente da un oratore a milioni di spettatori che lo ricevono passivamente e che è dunque un mezzo "autoritario", dall’osservare invece il meccanismo della rete che consente un’interazione, un dialogo paritario dove pertanto no esistono gerarchie. A questo punto entra in gioco però il secondo luogo comune che vede nell’interattività l’elemento risolutore del sistema autoritario, immagine parzialmente falsa dal momento che, se all’interno di una rete alcuni partecipanti possono solo rispondere senza facoltà di porre domande, ciò rappresenta di certo un passo avanti rispetto al silenzio precedente, ma ancora limitato rispetto alla domanda di partecipazione.

Decisione piramidale e decisione in rete

Le società democratiche attuali sono caratterizzate da un sistema decisionale piramidale che può avere o volere avere influssi sullo sviluppo della rete anche per difendersi dalla portata rivoluzionaria dello strumento.
Per decisione piramidale si intende una decisione che, pur potendo avere alla base molte persone che esprimono la propria opinione, tuttavia viene presa solo dopo un progressivo assottigliamento di questa moltitudine di attori che parlano all’inizio e poi tacciono per sempre. Al vertice rimane insomma uno solo che prende effettivamente la decisione. Il passaggio a un tipo di decisione in rete moltiplica le possibilità di intervento creando uno scambio, un dibattito che, pur prevedendo un indispensabile momento di sintesi finale, lo raggiunge dopo essersi arricchito da tale discussione in rete. Alcune decisioni possono persino essere prese attraverso questa struttura di rete proponendo, ad esempio una serie e di variabili; la decisione è in tal caso immediatamente espressa dalla risultante delle opinioni in merito a tali variabili espresse dai partecipanti alla rete: non c’è quindi in questo caso una proposta fatta da qualcuno prima a cui successivamente altri dicono semplicemente si o no, ma una serie di variabili e il risultato viene da ciò che la rete dice. Certamente da parte dei tradizionali detentori del potere tale possibilità non è accolta con favore; essi tentano pertanto di relegare alla periferia o di dare solo un ruolo consuntivo alle nuove possibilità di decisione.

Il futuro delle culture locali

L’esistenza di una rete globale pone il difficile problema della conservazione e promozione delle culture regionali a favore delle quali negli anni scorsi la Francia ha adottato diverse misure di protezione. La rete è però per definizione uno strumento che abbatte i tradizionali confini, pertanto non funzionano misure protezionistiche. Piuttosto tali culture devono essere mantenute: in Francia un primo intervento in tale direzione è consistito nell’introduzione in rete di opere in lingua francese con l’intento di stimolare la curiosità degli utenti che si imbattono in questi documenti. Si tratta di una intelligente risposta all’incondizionato dominio linguistico da parte dell’inglese che rischia di diventare anche e soprattutto dominio culturale. La rete tende piuttosto a rafforzare interessi minuti, in precedenza sostenuti da sparuti gruppuscoli non in grado di aggregarsi e di formare un fronte forte; ora la rete consente a uomini geograficamente molto lontani gli uni dagli altri un dialogo che li unisce e accresce enormemente la loro incidenza all’esterno. La globalizzazione può dunque trasformarsi in nuova linfa per identità locali e gruppi limitati che, peraltro, erano già in difficoltà.

Cittadini passivi e cittadini attivi: la "democrazia virtuale"

Per comprendere che cosa si intenda con l’ormai diffuso slogan democrazia virtuale è necessario innanzitutto prendere in considerazione il ruolo dei cittadini. Lo spettatore televisivo, generalmente considerato spettatore passivo, elabora in realtà strategie di difesa la più comune delle quali è quella di cambiare canale non appena compare la pubblicità. Inoltre oggi esistono altre opportunità quali l’acquisto di videocassette e la registrazione dei programmi preferiti che consentono persino la costruzione di un palinsesto personalizzato, non più schiavo di ciò che il canale offre. Alla luce di tali considerazioni si può affermare che esiste già un’attività, una reazione da parte del cittadino. Per democrazia virtuale si intende una sorta di esasperazione di tale attività proprio attraverso i mezzi di comunicazione, ma ciò pone diversi problemi dovuti alla novità degli spazi e dei mezzi in cui essa si esplica rispetto ai tradizionali comizi, alle piazze ormai vuote. Non hanno più senso i propagandisti porta a porta, nè i comizi dal momento che il leader politico gode ormai dell’ubiquità, diffonde i suoi discorsi registrati con cui parla in luoghi diversi con discorsi diversi tagliati sulla misura dei vari elettorati. Tali operazioni fanno salire i costi della politica che, da settore ad alto investimento di lavoro, diventa settore ad alto investimento di capitale, dematerializzandosi e allontanandosi sempre più dalle persone e dai mediatori tradizionali.
Altro rischio della democrazia virtuale, oltre a quello dell’allontanamento della politica dai cittadini, è quello relativo alla cosiddetta democrazia plebiscitaria, la democrazia delle emozioni per cui se, ad esempio, si mostra un omicidio e si fa seguire ad esso la domanda ai cittadini "Volete o no la pena di morte?" la reazione dell’opinione pubblica sarà diversa rispetto a quella provocata da altre immagini proposte per orientarla in una diversa direzione.
E’ pur vero che, accanto a questi pericoli, la democrazia virtuale offre anche diverse opportunità riguardanti la possibilità per il cittadino di accedere direttamente alle informazioni e di rielaborarle producendo un intervento attivo da parte del cittadino stesso. L’ex presidente degli Stati Uniti George Bush è stato distrutto anche da una frase da lui pronunciata, "Leggete sulle mie labbra: non più tasse", ossessivamente ripetuta nella successiva campagna presidenziale dopo che le tasse erano state aumentate. Bisogna quindi fornire una molteplicità di fonti di informazione per consentire realmente, anche se con il limite dalla faziosità, ai cittadini di scegliere e elaborare criticamente la massa di informazioni oggi disponibile uscendo dallo stato di passività.

Rete e uguaglianza

La discussione sulla tecnologia telematica risente spesso, soprattutto da parte degli entusiasti, di un certo determinismo tecnologico; in particolare c’è chi ritiene che in pochi anni grazie alle nuove tecnologie sarà possibile superare il divario economico esistente tra Nord e Sud del mondo. Altri partecipanti al dibattito sostengono però la tesi opposta e convalidata dai fatti. I dati parlano infatti di analfabetismo tecnologico: in passato l’analfabeta era vittima di un processo di esclusione legalizzato per cui, ad esempio, non poteva votare, così oggi esistono nuovi analfabeti, ovvero persone non in grado di far uso delle tecnologie più avanzate che restano perciò esclusi da processi di alta rilevanza sociale. Si assiste dunque all’apertura di un fossato tra chi conosce i nuovi linguaggi e chi non li conosce e lo stesso avviene anche tra i diversi Stati e qui non si tratta più di analfabetismo ma di neocolonialismo. L’antico problema del trasferimento di tecnologie che ha segnato da sempre i rapporti tra le aree di diverso sviluppo del mondo, oggi assume i connotati di una questione di uguaglianza non risolvibile da parte del mercato dal momento che non si tratta solo di mettere a disposizione di un consumatore certi servizi, ma c’è anche una dimensione legata al suo essere cittadino: tutti quindi devono essere messi in una condizione di parità. Non a caso si parla di diritto di accesso ai mezzi come diritto universale, come qualcosa di cui tutti devono disporre indipendentemente da altri fattori specie di origine economica. In Italia, ad esempio, il Comune di Bologna, sperimenta l’accesso gratuito a Internet proprio per realizzare tale diritto e allo stesso tempo per dare un incentivo alla necessaria alfabetizzazione informatica che sarà certo uno dei maggiori requisiti di cittadinanza del prossimo futuro. Interessanti sono a questo proposito le parole di Tim Berners-Lee, l’ideatore del primo programma basato sul modello ipertestuale che, nel 1989, ebbe l’intuizione di adattarlo a una rete di comunicazione globale. Egli afferma infatti: "Tra un paio di decenni gli storici presenteranno probabilmente Internet come uno dei fattori che più hanno contribuito a cambiare il mondo. Forse la metteranno sullo stesso piano della rivoluzione industriale, ma il giudizio degli storici potrebbe veramente essere duplice. Potrebbero sostenere che Internet ha contribuito a unire l’umanità, che ha permesso a ogni individuo di avere gli stessi diritti perché ha dato accesso alle stesse informazioni. Ma sono anche consapevole del fatto che gli storici potrebbero guardarsi indietro e vedere in Internet quello strumento che ha reso del tutto incolmabile il vuoto tra paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, tra chi ha accesso alle informazioni e chi no" (L’Espresso- 7 Gennaio 1999)

venerdì 18 marzo 2011

Il nuovo trattato di Amsterdam


Il trattato di Amsterdam, entrato in vigore solo quest'anno, è stato firmato il 2 ottobre 1997 e scaturisce dai lavori e dagli auspici della Conferenza intergovernativa (CIG) di Torino del 1996. A sua volta questa Conferenza è stata convocata a partire dalle disposizioni, contenute nel precedente trattato di Maastricht, in cui si imponeva la revisione del trattato stesso nel 1996.
Il trattato di Amsterdam ha rappresentato per molti aspetti un progresso sulla via dell'integrazione politica dell'Unione Europea, soprattutto per quanto riguarda le procedure decisionali del Parlamento e del Consiglio dei Ministri. L'introduzione del concetto di cittadinanza europea può essere letto come un punto a favore della dinamica di democratizzazione delle istituzioni europee e dell'avvicinamento progressivo dell'Unione stessa alla vita di coloro che dovrebbero esserne i beneficiari più diretti.
Questa relazione si soffermerà solo su quei punti che risultano più significativi per lo svolgimento del tema generale -la democrazia nell'Unione Europee-; per quanto anche gli articoli del trattato riguardanti la politica economica siano interessanti, se ne darà in questa sede solo un accenno sommario.
Il testo completo (in francese) e le versioni sintetiche del trattato possono comunque essere prelevate dal sito Internet del Consiglio dei Ministri dell'UE http://ue.eu.it/.

Struttura istituzionale e prospettive di allargamento

Il trattato di Amsterdam ha consolidato e ampliato le indicazioni offerte dal trattato di Maastricht, riconsiderando la fisionomia e le procedure delle istituzioni europee alla luce delle future prospettive di allargamento.

In particolare, il trattato si pronuncia su tre istituzioni:

1. Rispetto al Parlamento Europeo, il trattato di Amsterdam ne allarga i poteri generalizzando la procedura di codecisione a praticamente tutti gli ambiti. La cooperazione sarà applicata solo a proposito dell'unione economica e monetaria, mentre il cosiddetto parere conforme è conservato nel settore delle relazioni tre UE e Stati esterni, nuove adesioni e politica estera comune, ma a esso si ricorrerà anche per infliggere sanzioni a Stati membri non rispettosi delle normative europee e per definire una legge elettorale comune per l'elezione degli europarlamentari.
Tenendo presente che, nel caso probabile di un allargamento dell'Unione, il numero dei parlamentari non dovrà rendere ingestibili i lavori, si è fissato un tetto massimo di 700 membri, riservandosi di ripartire le quote spettanti ai singoli Stati rappresentati.
2. Nel Consiglio dei Ministri sono aumentati i settori per i quali è sufficiente la maggioranza qualificata ponderata (71%) per ottenere l'approvazione di un provvedimento; anche qui occorrerà operare una nuova ponderazione dei voti in occasione dell'allargamento dellUE.
L'unanimità continua a essere richiesta per questioni potenzialmente controverse, come il prelievo fiscale e alcune misure inerenti la politica monetaria comune.
3. I poteri della Commissione devono essere rafforzati in vista dell'allargamento, ma anche dell'adozione definitiva della moneta unica. Essa però sarà anche più soggetta al controllo del Parlamento: anche se il Presidente continua a essere scelto di comune accordo da parte dei governi degli Stati membri, la sua nomina è effettiva solo dopo l'approvazione del Parlamento. Il numero dei Commissari non potrà superare le venti unità, con un massimo di un commissario per Stato di provenienza.

Il trattato di Amsterdam prevede inoltre che un anno prima dell'allargamento queste disposizioni in materia di istituzioni debbano essere riviste a partire da una Conferenza intergovernativa.

Il cittadino europeo e i suoi diritti

Il trattato introduce ufficialmente il concetto fondamentale di cittadinanza europea e interviene a specificare i principi a partire dai quali tale cittadinanza, con i diritti che implica, viene tutelata da parte dell'Unione Europea.

* A proposito dei diritti fondamentali del cittadino europeo, il trattato sostiene che

l'Unione è fondata sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e sullo stato di diritto.

* L'Unione tutela anche i diritti dei consumatori, intervenendo a difesa della loro salute, della loro sicurezza e dei loro legittimi interessi economici.
* Tutti i cittadini e le persone giuridiche che hanno sede no domicilio in uno Stato membro hanno diritto a ricevere un'informazione trasparente sui documenti relativi all'operato del Parlamento, della Commissione e del Consiglio dei Ministri.
* L'Unione Europea può ricorrere a misure specifiche per combattere la discriminazione sessuale, etnica, contro i portatori di handicap, su base religiosa o razziale o di opinione politica.
* Sono previste sanzioni contro gli Stati membri che violeranno o non consentiranno l'esercizio di tali diritti.

Politica sociale e lotta alla disoccupazione

Il trattato prende atto dell'allarmante percentuale di cittadini disoccupati entri i confini dell'Unione; la responsabilità della lotta alla disoccupazione è attribuita agli Stati membri, ma l'Unione si impegna a promuovere misure coordinate in sostegno all'operato dei singoli esecutivi. Questi ultimi, in particolare, dovranno sviluppare soluzioni politiche e economiche armoniche, conformi agli interessi comuni, tese soprattutto a creare un mercato del lavoro flessibile, in cui i lavoratori siano sufficientemente qualificati e sappiano adattarsi ai repentini mutamenti dello scenario economico.
Il trattato riconosce la legislazione sociale dell'UE come assai avanzata. Tra le disposizione del trattato è incluso il protocollo sociale del 1991 cui anche il Regno Unito ha recentemente aderito.

Libertà di circolazione, immigrazione e sicurezza interna

La libertà di circolazione già entrata in vigore con gli accordi di Schengen è consolidata e meglio specificata nell'alveo delle politiche dell'unione Europea.
In particolare, è necessaria la creazione di comuni regolamenti in tema di immigrazione legale e clandestina, controlli alle frontiere con l'esterno, rilascio di passaporti visti e permessi di soggiorno per cittadini extracomunitari. In particolare, occorre procedere all'elaborazione di un disciplinamento comune del diritto d'asilo a profughi e rifugiati.
Data la delicatezza dell'argomento, per i primi cinque anni i provvedimenti in questo settore dovranno essere assunti all'unanimità, mentre in seguito si seguirà la normale procedura decisionale.
E' potenziato il ruolo degli organi comuni di sicurezza, attraverso una più stretta collaborazione tra forze di polizia con particolare riferimenti alla lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al narcotraffico, alla corruzione internazionale.

La PESC

La PESC (acronimo per politica estera e sicurezza comune) dovrà essere rafforzata, data la manifesta incapacità dell'Unione Europea di sviluppare una politica estera comune, soprattutto nella posizione da assumere di fronti a gravi crisi internazionali. Il coordinamento della PESC è affidato al segretario generale del Consiglio; è prevista la definizione di obiettivi strategici comuni, definizione alla quale contribuirà un nuovo centro europeo di analisi e previsione. Per la difesa comune si è stabilito di potenziare la cooperazione con l'UEO.

Le "cooperazioni rafforzate"

E' introdotto il concetto di "cooperazione rafforzata" per definire la possibilità, per alcuni Stati particolarmente forti in certi settori dello sviluppo economico, di procedere a velocità anche maggiori rispetto ad altri, nel rispetto delle conquiste della Comunità e soprattutto dei ritmi degli Stati che proprio in quei settori incontrano difficoltà.

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