La felicità è un'aspirazione antica come l'uomo che ha impegnato innumerevoli pensatori ed artisti, ma essa può entrare in conflitto con le libertà fondamentali?
Per Nietzsche, la felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa.
La Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America del 4 luglio 1776 (figlia di quella terra, uno sterminato territorio da riempire, e di quel tempo, l'ottimista Settecento illuminista caratterizzato, insieme ad altri grandi temi, dalla ricerca della felicità dal punto di vista morale e politico) inizia: Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c'è la ricerca della felicità (pursuit of happiness).
Nell'Ottocento, invece, si afferma che il diritto "americano" di cercare la felicità, come meta della vita individuale e collettiva, è in realtà la condanna all'infelicità date le inquietudini e le aspirazioni mai stabilmente soddisfatte per l'individuo o le forze distruttive, operanti su larga scala, per le società.
Ne "Il Grande Inquisitore" de "I fratelli Karamazov" Dostoevskij parla di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini, cioè una riflessione sulla felicità e sull'infelicità: l'infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Dal dialogo dell'Inquisitore col Cristo silente: "non c'e nulla di più ammaliante per l'uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c'è nulla di più tormentoso. Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la propria libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: ecco i veri liberatori dell'umanità, coloro che la libereranno dall'oppressione della libertà cioè tra quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell'infelicità umana". Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica?
Soprattutto nella letteratura reazionaria basata sull'idea di corruzione della natura umana, la libertà è un peso che può essere supportata solo da uomini superiori e non dalla massa, a sua volta fatta - per l'Inquisitore - di schiavi con la costituzione del ribelle: come ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone, che amministra la felicità e la concede nella consona misura.
Quale felicità? La felicità consiste - afferma Gustavo Zagrebelsky - nell'aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà, non quella economica, del consumatore ma quella di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza.
Ebbene è questa la libertà che deve essere tolta all'essere umano per renderlo felice. Non è forse questo il segreto di un certo dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati neli loro piccoli desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili di vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti? Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra aver sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l'altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l'oggetto del desiderio.
Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umani a bestie. L'altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l'instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale.
Freud, ne "Il disagio della civiltà", parla di felicità, infelicità e istituzioni relativamente alla psiche umana e dice: "Non vogliamo ammetterla [l'infelicità delle società odierne], non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti […]. Di fatto l'uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza".
Quale rapporto tra felicità e sicurezza? - riflette Zagrebelsky - La massima (ricerca individuale della felicità) felicità, però, comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quanto ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è la conditio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l'assoluto divieto (della ricerca individuale) della felicità.
Allora, per vivere in società, dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? La risposta è no, in quanto ogni società è un equilibrio tra sicurezza è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità.
Come permettere oggi la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani?
Superando il luogo comune che la società, con i suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente o che il disagio della civiltà ci condanna alla passività e all'immobilità, ci accorgiamo di un rovesciamento di senso: la originaria ricerca della felicità degli oppressi si è trasformata in una rivendicazione dei potenti come diritto, per cui la praticano e la esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece della felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia.
Nelle società degli spazi pieni, - continua Zagrebelsky - dove lo spostamento di uno comporta lo spostamento di altri (cosa sconosciuta nell'America del Settecento, grazie ai grandi spazi liberi da occupare, la realtà pellerossa autoctona non veniva affatto presa in considerazione), la felicità è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia. Non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestano i privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d'oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con questa ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicità è un'aspirazione che riguarda i singoli individui, la giustizia è un'aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma dalle politiche collettive. Questa inquietante conclusione ha sullo sfondo lo stato-provvidenza con tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti.
Cosi è che, nella ricerca dell'equilibrio tra la libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno della coscienza che è l'obbligo legale.
Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale ma quella di tutti, e proprio tra questi (tutti) la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell'uno non diventi infelicità degli altri.
Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all'illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale.
Questo testo è una parte della Lezione magistrale dal titolo “Felicità. La possibilità del bene” di Gustavo Zagrebelsky.
Per Nietzsche, la felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa.
La Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America del 4 luglio 1776 (figlia di quella terra, uno sterminato territorio da riempire, e di quel tempo, l'ottimista Settecento illuminista caratterizzato, insieme ad altri grandi temi, dalla ricerca della felicità dal punto di vista morale e politico) inizia: Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c'è la ricerca della felicità (pursuit of happiness).
Nell'Ottocento, invece, si afferma che il diritto "americano" di cercare la felicità, come meta della vita individuale e collettiva, è in realtà la condanna all'infelicità date le inquietudini e le aspirazioni mai stabilmente soddisfatte per l'individuo o le forze distruttive, operanti su larga scala, per le società.
Ne "Il Grande Inquisitore" de "I fratelli Karamazov" Dostoevskij parla di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini, cioè una riflessione sulla felicità e sull'infelicità: l'infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Dal dialogo dell'Inquisitore col Cristo silente: "non c'e nulla di più ammaliante per l'uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c'è nulla di più tormentoso. Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la propria libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: ecco i veri liberatori dell'umanità, coloro che la libereranno dall'oppressione della libertà cioè tra quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell'infelicità umana". Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica?
Soprattutto nella letteratura reazionaria basata sull'idea di corruzione della natura umana, la libertà è un peso che può essere supportata solo da uomini superiori e non dalla massa, a sua volta fatta - per l'Inquisitore - di schiavi con la costituzione del ribelle: come ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone, che amministra la felicità e la concede nella consona misura.
Quale felicità? La felicità consiste - afferma Gustavo Zagrebelsky - nell'aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà, non quella economica, del consumatore ma quella di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza.
Ebbene è questa la libertà che deve essere tolta all'essere umano per renderlo felice. Non è forse questo il segreto di un certo dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati neli loro piccoli desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili di vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti? Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra aver sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l'altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l'oggetto del desiderio.
Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umani a bestie. L'altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l'instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale.
Freud, ne "Il disagio della civiltà", parla di felicità, infelicità e istituzioni relativamente alla psiche umana e dice: "Non vogliamo ammetterla [l'infelicità delle società odierne], non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti […]. Di fatto l'uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza".
Quale rapporto tra felicità e sicurezza? - riflette Zagrebelsky - La massima (ricerca individuale della felicità) felicità, però, comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quanto ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è la conditio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l'assoluto divieto (della ricerca individuale) della felicità.
Allora, per vivere in società, dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? La risposta è no, in quanto ogni società è un equilibrio tra sicurezza è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità.
Come permettere oggi la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani?
Superando il luogo comune che la società, con i suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente o che il disagio della civiltà ci condanna alla passività e all'immobilità, ci accorgiamo di un rovesciamento di senso: la originaria ricerca della felicità degli oppressi si è trasformata in una rivendicazione dei potenti come diritto, per cui la praticano e la esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece della felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia.
Nelle società degli spazi pieni, - continua Zagrebelsky - dove lo spostamento di uno comporta lo spostamento di altri (cosa sconosciuta nell'America del Settecento, grazie ai grandi spazi liberi da occupare, la realtà pellerossa autoctona non veniva affatto presa in considerazione), la felicità è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia. Non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestano i privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d'oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con questa ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicità è un'aspirazione che riguarda i singoli individui, la giustizia è un'aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma dalle politiche collettive. Questa inquietante conclusione ha sullo sfondo lo stato-provvidenza con tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti.
Cosi è che, nella ricerca dell'equilibrio tra la libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno della coscienza che è l'obbligo legale.
Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale ma quella di tutti, e proprio tra questi (tutti) la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell'uno non diventi infelicità degli altri.
Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all'illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale.
Questo testo è una parte della Lezione magistrale dal titolo “Felicità. La possibilità del bene” di Gustavo Zagrebelsky.
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