Nessuna persona ragionevole può
pensare che Mario Monti sia «di sinistra». Così come nessuna persona
ragionevole può pensare che la politica del suo governo sia una politica
«di sinistra», qualunque cosa oggi questa espressione in un caso e
nell'altro possa ancora significare. Quella di Monti è più semplicemente
una politica che si sforza di fare del principio di realtà (qui ed ora:
dunque con i relativi vincoli anche di natura sociale che nessun
mandato popolare lo ha autorizzato a mutare) il suo asse; e degli
strumenti tecnici la sua principale risorsa. Può definirla «di destra»
solo chi dei vincoli della realtà ha deciso programmaticamente di
infischiarsene (almeno a chiacchiere), o è convinto che è meglio farsi
governare dall'utopia e dall'immaginazione anziché dalla competenza.
«Di destra» - arieggiante qualcosa che può essere definito «di
destra», o forse bisognerebbe dire assai meglio «borghese» - è semmai un
tratto intimamente personale della figura del presidente del Consiglio e
di alcuni suoi ministri. Un certo tono sommesso ma insieme perentorio,
una confidenza anche lessicale e sintattica con le buone maniere, una
certa esibita sprezzatura verso tutto ciò che sa troppo di «popolare» e
dunque, inevitabilmente, di demagogia. Sa tutto ciò di «destra»?
Equivale tutto ciò ad essere «di destra»? Sia pure. Ma, per parlare il
linguaggio della nostra storia, sa soprattutto di quella destra che fu
la «destra storica». Cioè di qualcosa che la sinistra ragionevole
italiana, da Turati in poi, consapevole di vivere in un Paese troppo
facile preda di pulsioni plebee e di distruttivi radicalismi, si è
sempre guardata dal disprezzare.
E infatti, non a caso, questa tradizione si sta ripetendo oggi.
Da settimane assistiamo infatti ai più vari tentativi - ultimo quello di
D'Alema, anche se lui naturalmente smentisce - di coinvolgere Monti in
una prospettiva di centrosinistra che guardi alle prossime scadenze
elettorali e postelettorali. Non si tratta di tatticismi o di
strumentalizzazioni. Ci sarà anche questo, certo. Ma c'è soprattutto la
riprova dell'antica capacità/propensione della sinistra italiana a
colloquiare, a stringere rapporti, a stabilire intese più o meno
esplicite, anche con uomini e forze da essa lontane, anche con quelle
che possono essere definite «di destra».
Ciò che è strabiliante e tipico dell'Italia è il fatto che invece
proprio la destra politica vera, il Pdl, in Monti e nella sua politica
non sappia riconoscere nulla che la riguardi, che parli alla sua cultura
o al suo cuore. Nulla. E che anzi lo consideri grottescamente come una
specie di suo nemico naturale, di subdolo e pericoloso avversario di cui
sbarazzarsi al più presto. È qui che si manifesta in pieno la profonda
anomalia della destra italiana e dell'itinerario che l'ha portata al
punto in cui si trova. Forse per Berlusconi no; forse per qualche
cameriere o qualche oca giuliva che gli stanno intorno, lo stesso; ma
per tutti gli altri, per la gran massa dei deputati e dei senatori del
Pdl, è verosimile che il cosiddetto populismo, lungi dall'essere una
vocazione, sia semplicemente una deriva inconsapevole. Non essendogli
riuscito di essere i protagonisti di alcuna «rivoluzione liberale», non
immaginando neppure cosa sia la durezza austera dei conservatori, non
gli è rimasto che essere dei populisti, o per meglio dire un'imitazione
del populismo. E così, capeggiati da una delle massime concentrazioni di
ricchezza del Paese, tutti o quasi con un reddito abbondantemente sopra
quello medio degli italiani, la loro parola d'ordine preferita è
diventata «dagli ai poteri forti»!
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