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lunedì 30 maggio 2022

REFERENDUM SULLA "GIUSTIZIA" - DEL 12 GIUGNO 2022

 Il 12 giugno gli italiani saranno chiamati al voto sui quesiti referendari “per la giustizia giusta”, per i quali in origine era iniziata una raccolta di firme promossa dal Partito radicale e dalla Lega, e poi formalmente sono stati proposti da dieci Regioni. In occasione dell’avvio della raccolta delle firme, il Centro studi Rosario Livatino aveva offerto una lettura critica dei quesiti medesimi, con riferimento sia agli effetti derivanti dalla loro eventuale approvazione, sia al differente impatto di ciascuno di essi sul sistema istituzionale. A pochi giorni dall’appuntamento con le urne, riteniamo utile riproporre il documento, che non ha perduto di attualità, con qualche minimo aggiustamento, a cominciare dalla eliminazione della scheda sulla responsabilità civile dei magistrati, il cui quesito non è stato ammesso dalla Corte costituzionale.


1. Le materie trattate dai referendum sono assai eterogenee: si pensi alla importanza del quesito sulla separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici, e a quella, dal peso incomparabilmente inferiore, sulla raccolta delle firme per la presentazione delle candidature dei togati per l’elezione al Consiglio superiore della Magistratura.


Le schede che saranno a disposizione degli elettori sono così descritte dal Ministero dell’Interno, da cui sito riprendiamo:

scheda di colore rosso per il Referendum n. 1: abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi;

scheda di colore arancione per il referendum n. 2: limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale;

scheda di colore giallo per il referendum n. 3: separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati;

scheda di colore grigio per il Referendum n. 4 : partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte;

scheda di colore verde per il Referendum n. 5: abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.”

I rilievi critici che saranno articolati non equivalgono a una presa di posizione contraria alle soluzioni che i referendum prospettano. Siamo sempre stati:


Poniamo pertanto tre linee di riflessione di ordine generale, fra loro strettamente correlate:

la prima, di cui si darà conto puntuale nella disamina dei singoli referendum, riguarda l’inadeguatezza dello strumento, esclusivamente abrogativo, per affrontare questioni complesse, per le quali l’operazioni del ‘togliere’, per quanto chirurgicamente esercitata, non sempre permette di ottenere all’esito un quadro coerente;

la seconda riguarda la rinuncia da parte dei promotori dei referendum a prendere in esame, stando in Parlamento, interventi sull’architettura costituzionale, in particolare sull’assetto del C.S.M. e del sistema di autogoverno della magistratura. Questo vuol dire per es. che, nonostante la separazione delle carriere, se il relativo quesito fosse ammesso e approvato, resterebbe invariata la sottoposizione dei giudici, quanto a carriera, incarichi e disciplina, a organi composti anche da pubblici ministeri, e viceversa, con un incremento della confusione;

la terza è una certa sorpresa nel vedere i referendum appoggiati da forze politiche presenti con propri ministri nel governo in carica, e nella maggioranza che lo sostiene: posizione dalla quale ci si attende piuttosto che siano formulate proposte di riforme e sostegno del loro iter parlamentare.

3. All’argomento che, in presenza di una maggioranza eterogenea, diversificata al proprio interno proprio sulla giustizia, i referendum costituirebbero uno sprone per le riforme, è agevole replicare che, quand’anche i quesiti fossero approvati, si dovrebbe tornare in Parlamento per i necessari aggiustamenti che le materie da essi interessate esigerebbero: tanto varrebbe, allora, affrontare subito lo sforzo propositivo e costruttivo del confronto parlamentare, invece che cercare soluzioni più semplici solo in apparenza.


1. ABROGAZIONE DEL TESTO UNICO IN MATERIA DI INCANDIDABILITÀ E DI DIVIETO DI RICOPRIRE CARICHE ELETTIVE E DI GOVERNO (LEGGE SEVERINO)

Il quesito. “Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n.190)?”


1. Il quesito referendario relativo alla abrogazione della c.d. Legge Severino (d.lgs. n. 235/2012) si propone come effetto quello di tornare al regime delle incandidabilità vigente prima del 2013. Per questo motivo, nonostante la molteplicità degli istituti contenuti nella legge (rectius: d.lgs.) stessa, il quesito manifesta una omogeneità di fondo sotto il profilo effettuale che potrebbe giustificarne l’ammissibilità. Nel dettaglio, lo scenario che si produrrebbe in caso di successo del quesito referendario deve essere ricostruito e valutato distintamente a seconda dei comparti sui quali il d.lgs. n. 235/2012 è intervenuto.


Per quanto riguarda i primi due capi della legge (rectius: d.lgs), essi hanno a oggetto le cause ostative all’assunzione e allo svolgimento delle cariche di deputato, di senatore, di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia, nonché all’assunzione e allo svolgimento degli incarichi di Governo nazionale, come definiti dall’art. 1 co. 2 della legge n. 215/2004.


2. Sotto il profilo sostanziale, esso stabilisce le preclusioni suddette a carico di: a) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51 co. 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale; b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale; c) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale. Si stabiliscono poi le norme procedurali per sancire l’incandidabilità, la mancata proclamazione e la decadenza.


Ferma la previsione di norme in materia di ineleggibilità e incompatibilità (cf., in particolare, il d.P.R. n. 361/1957 per Camera dei Deputati, il d.lgs. n. 533/1993 per il Senato, l’atto del Parlamento Europeo del 20 settembre 1976, la legge n. 215/2004 per gli incarichi di Governo nazionale), il regime precedente alla legge Severino non prevedeva norme di carattere generale in materia di “incandidabilità” per deputati, senatori, membri del Parlamento europeo e incarichi di Governo. In relazione a una serie di reati, esso poteva (e può tutt’oggi, a prescindere dalla legge Severino: cfr. art. 15 del d.lgs. n. 235/2012 stesso) disporre la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici (art. 28 c.p.).


Sul piano sostanziale, la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici sortisce, laddove applicata, effetti di incandidabilità e decadenza del tutto assimilabili a quelli previsti dalla legge Severino, salva la circostanza che, sul piano della durata, l’art. 13 del d.lgs. n. 235/2012 dispone un raddoppio dei termini (salva previa riabilitazione: art. 15 del d.lgs. n. 235/2012). Tale differenza di durata si apprezza essenzialmente per le ipotesi per le quali la pena accessoria sarebbe l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, poiché nei casi di interdizione perpetua comunque il limite temporale è costituito dalla riabilitazione.


3. Sul piano procedurale, la valutazione se applicare o meno la misura della pena accessoria è rimessa alla decisione caso per caso di un giudice, mentre con la legge Severino si produce un automatismo tra sentenza di condanna definitiva per determinati reati e preclusione alle cariche parlamentari, che vengono a costituire veri e propri effetti della condanna.


Maggiori differenze sussistono in caso di patteggiamento: l’incandidabilità della legge Severino opera anche in caso di patteggiamento (art. 15 co. 1 d.lgs. n. 235/2012), mentre in molti casi il patteggiamento esclude l’applicazione delle pene accessorie (art. 445 cod.proc.pen.). Tuttavia, da un lato l’inapplicabilità del patteggiamento a una serie di reati previsti dalla legge Severino (art. 444 cod.proc.pen.), e, dall’altro lato la circostanza che comunque il patteggiamento non esclude le pene accessorie in caso di pene superiori a due anni (art. 445 cod.proc.pen.) ossia alle quali si applicherebbe la legge Severino, si prestano a stemperare molti effetti pratici di tale differenza giuridica.


4. La valutazione della preferibilità tra regime precedente, cui si tornerebbe in caso di successo del referendum, e regime stabilito dalla legge Severino passa quindi essenzialmente dall’esame di due aspetti.


In primo luogo, viene in rilievo un aspetto giuridico di fondo, cioè se la riserva di giurisdizione sulle misure che incidono sui diritti costituzionalmente garantiti, come quelli all’elettorato passivo, renda opportuno qualificarle come pene accessorie, cioè come istituti sui quali si compie una specifica valutazione caso per caso da parte del giudice anche in termini di durata, come avveniva nel regime precedente rispetto alla legge Severino, piuttosto che come meri effetti penali della condanna, cioè come conseguenze che si verificano in automatico e per un tempo predefinito fino alla riabilitazione penale ex art. 178 cod.pen., come prevede la legge Severino.


Sul piano costituzionale, entrambe le soluzioni sono state considerate legittime da parte della Corte: si tratta quindi di un aspetto rimesso alla discrezionalità politica del legislatore.


Sul piano politico, è indubbio che la scelta denota una maggiore ispirazione garantista, nel caso di configurazione come pene accessorie, e una maggiore efficacia deterrente general-preventiva, nel caso di configurazione come effetti della condanna. Sempre sul piano politico, va valutato il passo indietro sul versante del messaggio general-preventivo sul punto dell’incandidabilità di soggetti condannati in via definitiva per reati di una certa gravità.


Il maggior garantismo della prima soluzione (pena accessoria), derivante dall’approvazione del referendum, rispetto alla seconda (effetti della condanna), correlato al mantenimento della legge Severino, appare tuttavia limitato, poiché anche per la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici il codice penale prevede un sindacato giurisdizionale particolarmente limitato.


5. Va poi valutato il diverso raggio applicativo della legge Severino rispetto all’istituto dell’interdizione dai pubblici uffici.


L’art. 29 cod. pen. stabilisce in generale per l’interdizione temporanea dai pubblici uffici (della durata di cinque anni) una soglia di tre anni di condanna definitiva e per l’interdizione perpetua (operativa fino alla riabilitazione) una soglia di cinque anni di condanna. La legge Severino abbassa a due anni di condanna la soglia di rilevanza per l’effetto dell’incandidabilità e detta una modulazione più articolata delle tipologie di reati che ne costituiscono presupposto. Anche per questo la valutazione è soprattutto politica: posto che ci si trova di fronte a condanne definitive, il ritorno al precedente sistema potrebbe escludere dall’incandidabilità fattispecie di reato commesso espressive di grave disvalore, e tali da incidere sull’onorabilità delle istituzioni.


6. Il terzo e il quarto Capo della legge (rectius: d.lgs) Severino hanno ad oggetto l’incandidabilità alle cariche elettive nelle Regioni e negli Enti Locali. Prima della legge Severino, la materia era già regolata da leggi speciali, che la legge Severino ha riordinato ponendosi con esse in una posizione di sostanziale continuità.


Le modifiche attengono, per quanto attiene agli enti locali, essenzialmente a un incremento del numero delle fattispecie costituenti presupposto di applicazione della misura (per quanto attiene alle Regioni: cfr. art. 7, co. 1, lett. b e c del d.lgs. n. 235/2012 in sostituzione del precedente art. 15 co. 1, lett. b della l. n. 55/1990 e correlativamente, per la sospensione, l’art. 8 del d.lgs. n. 235/2012 che estende la casistica rispetto all’art. 15, co. 4-bis della l. n. 55/1990; per quanto attiene agli enti locali: cfr. art. 10, co. 1, lett. b e c del d.lgs. n. 235/2012 in sostituzione del precedente art. 58, co. 1, lett. b del d.lgs. n. 267/2000 e correlativamente, per la sospensione, l’art. 11 del d.lgs. n. 235/2012 che estende la casistica rispetto all’art. 59 del d.lgs. n. 267/2000) e a precisazioni procedurali (per quanto attiene alle regioni cfr. le modifiche di cui all’art. 8, co. 4 rispetto al precedente c. 4-ter dell’art. 15 della l. n. 55/1990, nonché all’art. per le dichiarazioni in sede di candidature; per quanto attiene agli enti locali cfr. art. 10, co. 4 del d.lgs. n. 235/2012 e art. 12 per le dichiarazioni in sede di candidature).


In sintesi, l’abrogazione della legge Severino mediante referendum non sortirebbe effetti particolarmente significativi sul punto.


7. Per concludere. È fuor di dubbio che la legge Severino richieda rettifiche in chiave garantista, ma – come per le altre materie interessate dai quesiti – lo strumento referendario non è l’istituto adatto per ottimizzare il sistema del rapporto tra vicende penali personali e onorabilità dell’istituzione pubblica le cui cariche la persona ricopre. La questione non si pone, infatti, in termini di scelta binaria tra due alternative (sì o no), ma in termini di modulazione di una disciplina particolarmente delicata e articolata, che richiede il bilanciamento di valori costituzionali diversi e potenzialmente confliggenti e la soluzione di problematiche tecnico-giuridiche particolarmente complesse.


Si pensi, a titolo esemplificativo, ai problemi che pone la normativa in materia di incandidabilità alle cariche elettive nelle Regioni e negli Enti Locali. In tale ambito, che è peraltro quello con riferimento al quale la legge Severino trova nella pratica le maggiori applicazioni, le misure interdittive temporanee sono consentite anche a fronte di sentenze non definitive (art. 11 del d.lgs. n. 235/2012) e l’escamotage adottato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 236/2015 e successive), di qualificarle come misure cautelari di carattere amministrativo e non sanzionatorie, al fine di eludere ogni censura di contrasto con la presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost. non appare francamente soddisfacente sotto il profilo della valutazione sostanziale degli effetti di esse.


Considerato che tali problemi si ponevano anche nella normativa precedente alla legge Severino, come testimonia la copiosa giurisprudenza costituzionale sull’argomento, quasi sempre confermativa della legittimità delle soluzioni adottate dal legislatore, appare evidente la strutturale inidoneità dell’istituto referendario a risolvere il problema.


8. Quel che serve è un progetto di revisione ragionato della legge Severino, più che una sua abrogazione con ritorno a uno status quo che, per molti versi, a essa si sovrappone. Con riferimento, ad esempio, alla questione menzionata dell’applicazione delle sospensioni a fronte di sentenze non definitive (art. 11 d.lgs. n. 235/2012), andrebbe introdotta la possibilità per il condannato nei gradi di merito di far sospendere l’efficacia della sentenza penale di condanna non definitiva. Diversamente da quanto avviene nel diritto civile, dove le sentenze anche non definitive, sono immediatamente esecutive, il problema della sospensione dell’efficacia della sentenza non definitiva generalmente non si pone nel diritto penale, posto che in generale (e salvo casi particolari regolati da apposite procedure) la sentenza penale di condanna non definitiva non produce di per sé effetti immediati (art. 588 cod.proc.pen.).


Tuttavia, nel momento in cui si vogliono collegare effetti immediati alla sentenza non definitiva (come avviene per la sospensione automatica per diciotto mesi, o termine inferiore nell’improbabile caso di riforma della sentenza prima del decorso di diciotto mesi, dei sindaci nel sistema della legge Severino e delle normative precedenti) appare evidente la necessità di consentire un immediato sindacato sul fumus di accoglibilità di una impugnazione. Ciò dovrebbe avvenire preferibilmente di fronte al giudice penale, per evidenti ragioni di specializzazione, ma potrebbe teoricamente avvenire anche in via incidentale di fronte al giudice civile dell’impugnazione dell’atto prefettizio di sospensione, come in teoria dovrebbe avvenire oggi.


Sennonché, la circostanza che le Procure comunichino alle Prefetture le condanne sulla base del solo dispositivo emesso a norma dell’art. 544 co. 1 cod. proc. pen.e pubblicato ai sensi dell’art. 545 cod. proc. pen., senza attendere la motivazione depositata ai sensi dell’art. 548 cod. proc. pen., fa sì che le misure di sospensione cautelare siano applicate ancor prima di conoscerne le ragioni ufficiali e, quindi, ancor prima che una impugnazione possa essere articolata (art. 585 cod. proc. pen.) e il giudice civile dell’impugnazione possa eventualmente conoscerne il fumus.


Per cui appare evidente la necessità di riformulare l’art. 11, per es. nel senso di specificare nel co. 5 che il Tribunale o la Procura comunicano al prefetto non già semplicemente “i provvedimenti giudiziari che comportano la sospensione”, bensì “i provvedimenti giudiziari comprensivi di motivazione che comportano la sospensione”. Lo stesso dicasi in merito alla necessità di introdurre nel codice penale procedure ad hoc per sospendere in via cautelare gli effetti della sentenza di condanna non definitiva in relazione alle possibili conseguenze che essa abbia ai fini dell’art. 11 del d.lgs. n. 235/2012.


Tutto ciò, lo si ribadisce, al pari di eventuali interventi sulla durata dell’incandidabilità o sulla sua applicazione in caso di patteggiamento, non può esser fatto mediante referendum abrogativo del tipo di quello rispondente al quesito proposto, ma con opportuni interventi legislativi di tipo positivo che soltanto il Parlamento o il Governo delegato dal Parlamento possono essere in grado di confezionare.


2. CUSTODIA CAUTELARE

Il quesito. “Volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n.447 (Approvazione del codice di procedura penale) risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni?”


1. È noto che le disposizioni generali previste dal codice di procedura penale in tema di limitazioni della libertà della persona prima della sentenza definitiva, e quindi con misure cautelari, sono consentite a condizione che vi siano gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato per il quale si procede, che il massimo di pena irrogabile superi determinati limiti, correlati alla misura che si intende applicare, e che sussista almeno una delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 del codice medesimo: su di esso incide il quesito referendario.


Il quesito in realtà non interessa le esigenze di cui alla lett. a) e alla lett. b) del co. 1 della disposizione in questione, che descrivono il pericolo di inquinamento delle prove e il rischio di fuga dell’indagato. Colpisce invece una parte della lett. c), cioè il pericolo di reiterazione del reato: salva dall’abrogazione le ipotesi che il pericolo – su cui il Giudice della cautela è chiamato a rendere articolata motivazione – “commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. Punta invece ad abrogare il pericolo di tornare a commettere “delitti della stessa specie di quello per cui si procede”.


2. È certo, come si sottolineava in premessa, che la custodia cautelare ha conosciuto gravi abusi, documentati dalla quantità di richieste di indennizzo per ingiusta detenzione che ogni anno vengono accolte. La “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e sui provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione”, predisposta dal Ministero della Giustizia e comunicata alla Presidenza della Camera il 16 aprile 2020, segnala, con dati relativi al solo anno 2019, il pagamento da parte dello Stato della somma complessiva di 43.486.630 euro, a fronte di 1.000 ordinanze di liquidazione, ossia di altrettanti casi di detenzione qualificata ingiusta. L’errore è fisiologico e può insinuarsi anche fra gli accertamenti più seri, ma si commenta da sé che in appena dodici mesi almeno 1000 persone siano andate in carcere o agli arresti domiciliari in procedimenti penali definiti con l’assoluzione, e senza – è un requisito per ottenere l’indennizzo – aver dato motivo alla ingiusta privazione della libertà.


Altrettanto certo è che il Parlamento ha mostrato, se pure non continuativamente, di avvertire l’esigenza di limitare tali abusi: è sufficiente confrontare la formulazione dell’art. 274, come era nella prima redazione del codice di procedura penale, con quella attuale, per constatare la notevole quantità di inserimenti e di aggiunte che essa ha conosciuto al fine di dare maggiore determinatezza ed eliminare usi estesi delle misure, senza tuttavia conseguire risultati  apprezzabili.


Quel che però è sicuro è che nel bilanciamento fra il diritto di libertà dell’indagato/imputato prima della condanna definitiva e le esigenze di sicurezza sociale sulle quali si fondano le esigenze cautelari, l’intervento proposto provoca un pesante squilibrio in danno delle seconde. A seguito della modifica, rimarrebbero fuori dall’ambito di applicazione della norma tutti i delitti contro l’incolumità pubblica non commessi da organizzazioni criminali né da terroristi, né mediante armi o altri mezzi di violenza personale: una ipotesi, questa, relativa a fatti che possono provocare la morte di un numero assai elevato di persone. Nelle recenti cronache se ne trovano conferme drammatiche.


3. Ad analoghe conclusioni si giungerebbe per le ipotesi di commissione reiterata di reati di istigazione o aiuto al suicidio, non riconducibili alle categorie della criminalità organizzata e del terrorismo, e tipicamente commessi senza uso di armi e mezzi di violenza personale. Si pensi alle condotte di chi su siti web incoraggia giovanissimi a commettere il suicidio, fornendo loro anche consigli sulle modalità: in casi del genere non vi sono rischi di inquinamento probatorio né pericoli di fuga; è evidente invece la possibilità di reiterazione della condotta delittuosa, che non troverebbe ostacolo a essere scongiurata, neanche con misure cautelari meno invasive rispetto al carcere o agli arresti domiciliari, poiché quella di cui all’art. 274 cod. proc. pen. è norma che vale in via generale anche, per es., per il divieto di dimora o per l’obbligo di firma.


Con l’approvazione del quesito resterebbero sguarnite di ogni tipo di misura cautelare condotte come la rapina o l’estorsione, se poste in essere senza armi e senza mezzi di violenza personale, ma – per es. – ricorrendo alla minaccia, o come la cessione di sostanze stupefacenti, anche di rilevante entità, purché non accompagnate dalla partecipazione ad associazioni per delinquere volte al traffico della droga, o come delitti anche gravi contro la pubblica amministrazione. L’arresto in flagranza per queste tipologie di reati sarebbe immediatamente seguito dalla remissione in libertà dell’arrestato, se nei suoi confronti la sola esigenza cautelare in concreto ipotizzabile fosse il rischio di reiterazione del reato: con conseguente innalzamento dell’allarme sociale e della sfiducia verso l’ordinamento, e con demoralizzazione della polizia giudiziaria, poiché la prospettiva di cogliere in flagranza un presunto reo di condotte anche gravi, e di vederlo liberamente circolare a distanza di poche ore non costituirebbe un incentivo a lavorare con alacrità.


3. SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DEI MAGISTRATI SULLA BASE DELLA DISTINZIONE TRA FUNZIONI GIUDICANTI E REQUIRENTI

Il quesito. “Volete voi che siano abrogati: l’“Ordinamento giudiziario” approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del Consiglio superiore della magistratura”; la legge 4 gennaio 1963, n.1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il decreto legislativo 30 gennaio 2006, n.26, recante «Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’art.1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n.150», nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il decreto legislativo 5 aprile 2006, n.160, recante “Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’art.1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n.150” , nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, in particolare dall’art.2, comma 4 della legge 30 luglio 2007, n.111 e dall’art.3-bis, comma 4, lettera b) del decreto-legge 29 dicembre 2009, n.193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n.24, limitatamente alle seguenti parti: art.11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art.13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art.13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art.13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’art.11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art.13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’art.11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art.13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art.13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’art.10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso art.10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il decreto-legge 29 dicembre 2009, n.193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n.24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’art.13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n.160.”?


Per cogliere la portata del lungo quesito appare opportuno identificare in modo distinto le disposizioni colpite dall’abrogazione:


a) art. 192 co. 6 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, di approvazione dell’“Ordinamento giudiziario”, nel testo allegato al medesimo regio decreto e altresì risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”.


La disposizione disciplina il cosiddetto tramutamento dei magistrati, ossia il trasferimento chiesto dal magistrato ad altra sede e/o ad altra funzione; la norma, desueta poiché superata da norme successive in tema di competenze del C.S.M., prevede che sia il Ministro a valutare le domande di trasferimento e che, nel caso in cui il trasferimento comporti anche il mutamento della funzione, vi sia il parere favorevole del C.S.M.


b) art. 18 co. 3 della l. 4 gennaio 1963 n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della magistratura e per le promozioni) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parole: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre.”


La norma, anch’essa desueta e superata dalla legislazione successiva in tema di progressione di carriera dei magistrati, stabilisce i compiti della Commissione di scrutinio, istituita ai sensi dell’art. 45 del d.P.R. 16 settembre 1958 n. 916, e di fatto non più operante. L’approvazione del quesito non avrebbe quindi alcun effetto sostanzialmente innovativo, poiché si tratta di disposizioni che la legislazione  in tema di attribuzioni del C.S.M. e di progressione di carriera dei magistrati, intervenuta dopo di esse, ha reso non più operante.


c) una serie di articoli del d. Lgs. 5 aprile 2006, n. 160, che non si riportano nuovamente per brevità. E’ il complesso delle norme che regolano il passaggio da una funzione all’altra, attualmente sottoposto a limitazioni, sia relativamente al numero di volte in cui è possibile chiederlo, sia quanto al tempo che deve intercorrere tra un passaggio e l’altro, sia infine quanto agli ambiti circondariali e distrettuali nei quali è consentito; stabilisce, inoltre, il procedimento da osservare per la formulazione del parere da parte del C.S.M.


L’abrogazione delle predette disposizioni fa sì che al magistrato che sia stato destinato, all’atto dell’assunzione in servizio, a una funzione – P.M. o giudice -, sia precluso definitivamente di chiedere il passaggio all’altra.


L’effetto appare di dubbia costituzionalità, perché non interviene contestualmente sulle modalità di accesso alla magistratura: il quadro – assai incoerente – che viene fuori dal quesito è che resta un unico concorso di magistratura che consente di accedere sia alle funzioni giudicanti che a quelle requirenti. L’assegnazione alla prima sede di ufficio avviene in base a una scelta del vincitore di concorso nell’ambito delle sedi individuate dal C.S.M.: quella scelta, operata una prima volta, rimane poi fisso per l’intera carriera di lavoro, e ciò si traduce nella illegittima compressione dei diritti dei vincitori del concorso.


Infatti l’art. 106 Cost. stabilisce che le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso e l’art. 107 co. 3 Cost. prevede inoltre che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. A Costituzione invariata, pertanto, ed essendo unico il concorso, chi accede alla magistratura ha il diritto di svolgere entrambe le funzioni. Le disposizioni attualmente vigenti – oggetto del quesito referendario – hanno solo la funzione di porre le condizioni per l’esercizio di un diritto costituzionalmente fondato. È l’ulteriore conferma dell’inadeguatezza dello strumento referendario per affrontare una questione così complessa: il concorso unico per carriere separate è una contraddizione insanabile, rispetto alla quale – come per l’intera materia – vale la considerazione iniziale sulla necessità dell’intervento parlamentare.


d) art. 23 co. 1 d. Lgs. 30/01/2006 n. 26 (Istituzione della Scuola Superiore della Magistratura), limitatamente alle seguenti parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”. La disposizione stabilisce l’obbligo per il magistrato che chieda il trasferimento da una funzione all’altra di frequentare, con esito positivo, il c.d. corso di riconversione delle funzioni presso la Scuola Superiore della Magistratura. L’abrogazione si pone in linea con quanto previsto con riferimento alle disposizioni che attualmente regolano il passaggio da una funzione all’altra. La disomogeneità dell’esito referendario però fa restare unica la Scuola di Magistratura, pur con carriere separate, e incide invece sulle preclusioni ai corsi che si tengono al proprio interno.


e) art. 3 co. 1 del D.l. 29/12/2009 n. 193, convertito con modificazioni in legge 22/02/2010 n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), limitatamente alle seguenti parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160”. La norma regola la copertura delle sedi cosiddette disagiate, rimaste cioè vacanti a seguito di plurimi bandi di copertura, e prevede la possibilità che vengano coperte anche in deroga alla normativa che pone limiti e condizioni in materia di passaggio di funzioni.


L’effetto abrogativo di questa disposizione, in assenza di altri interventi che regolino complessivamente l’accesso differenziato in magistratura, avrebbe l’effetto di limitare gravemente la possibilità di coprire sedi giudiziarie poco appetite perché spesso in territori a elevata densità criminale.


4. VOTO PER I MEMBRI NON TOGATI DEI CONSIGLI GIUDIZIARI

Il quesito. “Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 27 gennaio 2006, n.25, recante «Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei consigli giudiziari, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005, n.150», risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art.8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art.7, comma 1, lettera a)”; art.16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art.15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?”


Il quesito punta ad abrogare l’art. 16 del d. Lgs. n. 25/2006, che disciplina le competenze dei componenti non togati dei Consigli giudiziari distrettuali.


1. I Consigli giudiziari sono organismi territoriali, su base distrettuale, presieduti dal presidente della Corte d’Appello e composti da magistrati togati (con sezione autonoma relativa ai giudici onorari), eletti dai magistrati del distretto, e da membri c.d. laici, nominati dal CNF-Consiglio nazionale forense, su proposta dei locali Consigli dell’Ordine degli avvocati del distretto, tra avvocati con almeno dieci anni di anzianità professionale, e infine da professori universitari di materia giuridica nominati dal Consiglio universitario nazionale, su indicazione dei presidi delle facoltà di giurisprudenza della Regione, col compito di formulare pareri sulla formazione delle tabelle degli uffici giudiziari distrettuali, nonché sui provvedimenti relativi alle carriere e all’assegnazione degli affari giudiziari dei magistrati del distretto, anche a titolo consultivo dell’attività del Consiglio Superiore della Magistratura.


Scopo del referendum è cancellare la limitazione della partecipazione dei componenti non togati, i quali, pur variando in numero assoluto da tre a sei a seconda del numero dei magistrati del distretto, non superano mai il terzo della composizione effettiva del Consiglio. L’art. 16 permette che essi partecipino “alle discussioni e deliberazioni relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”, e cioè: a) al parere sulle tabelle degli uffici giudicanti e sulle tabelle infra distrettuali nonché sui criteri per l’assegnazione degli affari e la sostituzione dei giudici impediti, proposti  dai  capi  degli uffici giudiziari, verificando il rispetto dei  criteri  generali; d) alla vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del  distretto, con potere di segnalazione al Ministro di Giustizia; e) ai pareri e alle proposte  sull’organizzazione  e  il funzionamento degli uffici del giudice di pace del distretto.


I componenti non togati sono invece esclusi dai pareri per la valutazione di professionalità dei  magistrati (lett. c);dai pareri, anche su richiesta del CSM, in ordine alla adozione, da parte del medesimo Consiglio, dei provvedimenti inerenti a collocamenti a riposo, dimissioni, decadenze dall’impiego, concessioni di titoli onorifici e riammissioni in  magistratura dei  magistrati in servizio preso gli uffici giudiziari del distretto o già in servizio presso tali uffici al momento della cessazione dal servizio medesimo (lett. g e h); dalle proposte al comitato direttivo della Scuola superiore  della  magistratura  in  materia  di  programmazione dell’attività didattica della Scuola (lett. i).


2. Le reazioni, in alcuni casi invero scomposte, di rappresentanti dell’ordine giudiziario che hanno gridato all’attentato alla autonomia ed indipendenza della magistratura, a causa del rischio che l’istruttoria relativa ai provvedimenti che disciplinano la vita dei singoli magistrati del distretto implichi l’inquinamento di rappresentanti estranei, derivano proprio dalla lesione della autodichia assoluta, di cui, invece, essi godono in base alla normativa attuale.


Il quesito referendario appare ammissibile sotto il profilo dei parametri costituzionali, sia perché la tecnica abrogativa per una volta raggiunge esattamente lo scopo che si prefigge: di eliminare la limitazione funzionale dei componenti non togati senza che la norma che ne residua perda efficacia organica nel suo complesso ovvero necessiti di interventi ortopedico-correttivi; sia perché non sembra esservi diretta lesione delle prerogative costituzionalmente garantite all’ordine giudiziario, ove si consideri che lo stesso organo di rilevanza costituzionale, di autogoverno dei magistrati, quale è il CSM, prevede la presenza di membri laici che partecipano pienamente all’esercizio delle sue funzioni e competenze.


3. L’intento di allargare l’effettivo controllo e svolgimento degli affari giudiziari del distretto a tutti i componenti dei Consigli giudiziari appare condivisibile, specie ove si consideri che la giurisdizione, specie quella di prossimità, più vicina alla reale sensibilità anche degli utenti e dei destinatari di giustizia, non è né deve essere appannaggio dei soli magistrati: la toga è indossata anche dagli avvocati e dagli stessi docenti universitari nelle materie di indirizzo, i quali a buon diritto possono vantare una partecipazione ordinata e imprescindibile al perseguimento degli obiettivi di garantire il migliore funzionamento del sistema Giustizia sul territorio.


È però dubbio che sia sufficiente questo modesto intervento abrogativo, in assenza di un accompagnamento sia normativo che culturale: il primo, relativamente alle modalità di designazione degli avvocati, che andrebbe resa elettiva e non meramente frutto di accordi di ristrette consorterie, analoghe a quelle che i promotori del referendum hanno dichiarato di voler perseguire per le correnti della magistratura, e questo richiede un intervento legislativo sull’art. 9 del medesimo decreto legislativo; il secondo, nel senso di recuperare la consapevolezza della importanza non surrogabile della riforma morale dei singoli partecipanti alla giurisdizione, di cui occorrerebbe riprendere la strutturale funzione di servizio ministeriale in luogo dell’attuale connotazione di luogo di esercizio di potere.   


5. ABOLIZIONE RACCOLTA FIRME LISTA MAGISTRATI.

Il quesito. “Volete voi che sia abrogata la legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’art. 23, né possono candidarsi a loro volta”?”


La disposizione in questione disciplina le modalità di presentazione delle candidature per l’elezione dei componenti togati del C.S.M.: il messaggio, certamente apprezzabile, è di riportare le candidature per il Consiglio a una dimensione (anche) di disponibilità individuale, ricollegabile non già a una appartenenza correntizia, bensì, per es., alla stima di cui il singolo magistrato gode, in virtù del lavoro giudiziario svolto.


L’effetto dell’abrogazione fa sì che non sia più necessario accompagnare la candidatura con una lista di presentatori: è una modalità di per sé non indice di appartenenza del candidato a una corrente dell’A.N.M., poiché accade sovente che i presentatori siano magistrati non appartenenti ad alcuna corrente o a correnti diverse. D’altronde, l’eliminazione dell’obbligo di sostenere con le firme le liste per le elezioni del C.S.M. è un adempimento in meno per le correnti. Dunque, se l’intento del quesito è di limitare il potere delle correnti, lo strumento individuato non ha alcuna ricaduta concreta, mentre la avrebbe una completa riforma del sistema elettorale, che tuttavia – ancora una volta – necessita dello strumento legislativo, ed è incompatibile con quello referendario.

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