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martedì 31 maggio 2011

De magistris e Pisapia i nuovi esordienti del centro sinistra.


Sono due risultati netti quelli usciti dalle urne dei ballottaggi ieri 30 maggio 2011: Pisapia vince a Milano, De Magistris stravince a Napoli. Quando già la quasi totalità delle sezioni è stata scrutinata, il candidato del centrosinistra nel capoluogo lombardo stacca Letizia Moratti di circa 10 punti (55% a 45%), mentre l’ex pm Luigi De Magistris a Napoli vola al 65% contro il 35% di Gianni Lettieri.
Una sconfitta senza appello per il centrodestra su cui da oggi, se non già dalle prossime giornate, dovrà iniziare a riflettere visto che anche la prospettiva di un ribaltamento dei risultati del primo turno è sfumata.
Significativo che quando ancora non si parlava né di risultati, né di proiezioni, ma solo di intention poll, al quinto minuto dalla chiusura delle urne, il direttore del La Padania, Leonardo Boriani, affermava che il grande sconfitto di queste elezioni è Silvio Berlusconi, come lo afferma poche ore dopo anche il presidente della camera Gianfranco Fini.
Un Silvio Berlusconi che ha deciso di rimanere lontano dai palazzi della politica trattenendosi in Romania per un bilaterale a conferma della linea scelta dal partito che nelle ultime due settimane ha deciso di depoliticizzare l’evento “ballottaggi” al punto da decidere di non allestire, per la prima volta, nemmeno la sala stampa presso la sede del Pdl a Roma in via dell’Umiltà.
Ma se già nei giorni scorsi la perdita di Milano, per quanto traumatica per il valore reale e simbolico della città stessa, era stata in qualche modo prevista, è il risultato di Napoli a destare il maggiore sconcerto.
Alla vigilia del primo turno colui che oggi è diventato il nuovo sindaco di Milano Pisapia e poi Luigi De Magistris era dato per terzo alle spalle dei candidati del Pdl Lettieri e del Pd Morcone. Non è andata così e la sua vittoria oggi testimonia un dato incontrovertibile: la sconfitta di tutti i partiti. L’ex pm, infatti, a parte l’Idv, non ha mai avuto dietro nessuno, compresa la magistratura.
Commetterebbe, infatti, un grave errore il Pd a rivendicare una vittoria che non le appartiene né a Milano dove il suo candidato alle primarie Stefano Boeri è stato scavalcato da Pisapia, né a Napoli dove il caos delle primarie ha costretto il partito a scegliere in fretta e in furia un nuovo candidato, l’ex prefetto Morcone.
Anche a Cagliari vincitore è Massimo Zedda, il candidato del centrosinistra che supera il 59 per cento contro il 41 per cento di Massimo Fantola del centrodestra.
Tuttavia è una scelta dell’ultimo minuto quella del Pdl che con la sconfitta di Gianni Lettieri ha pagato l’incapacità di non aver saputo approfittare del malcontento popolare per la cattiva amministrazione del centrosinistra nella città.

domenica 29 maggio 2011

Le idee costruttive e libertà politiche


Non è questo il momento di lanciare programmi di parte, il che sarebbe impari al carattere di quest'ora solenne che reclama l'unità di tutti gli italiani.
Pensiamo tuttavia che queste idee ricostruttive, ispirate alle tradizioni della Democrazia Cristiana, ma rivolte ad una cerchia più ampia e più varia, debbono fermentare già ora nel travaglio dell'aspra vigilia, affinché nel tempo della ricostruzione possano diventare le idee-forza che animeranno la volontà libera del popolo italiano.

PREMESSA INDISPENSABILE

Il regime di violenza ha investito così a fondo le stesse basi costitutive dello Stato da rendere necessaria la sua ricostruzione con nuove leggi fondamentali.
Il popolo italiano sarà chiamato a deliberare.
Pur rimettendo al suo voto ogni concreta riforma istituzionale, sin d'ora si può affermare essere profonda negli animi di tutti la convinzione che indispensabile premessa e necessario presidio dei diritti inviolabili della persona umana e di ogni libertà civile è la libertà politica.

REGIME DEMOCRATICO

La libertà politica sarà quindi il segno di distinzione del regime democratico; così come il rispetto del metodo della libertà sarà il segno di riconoscimento e l'impegno d'onore di tutti gli uomini veramente liberi.
Una democrazia rappresentativa, espressa dal suffragio universale, fondata sulla uguaglianza dei diritti e dei doveri e animata dallo spirito di fraternità, che è fermento vitale della civiltà cristiana: questo deve essere il regime di domani.
Nella netta distinzione dei poteri dello Stato - efficace garanzia della libertà politica - il primato spetterà al Parlamento, come la più alta rappresentanza dei supremi interessi della comunità nazionale, e soltanto il Parlamento potrà decidere la guerra e la pace.
Accanto all'Assemblea espressa dal suffragio universale, dovrà crearsi un'Assemblea Nazionale degli interessi organizzati, fondata prevalentemente sulla rappresentanza eletta dalle organizzazioni professionali costituite nelle regioni.
Sarà assicurata la stabilità del Governo, l'autorità e la forza dell'Esecutivo, l'Indipendenza della Magistratura.
Il controllo sulle fonti finanziarie degli organi di pubblica opinione darà alla stampa maggiore indipendenza e più acuto senso di responsabilità.

CORTE SUPREMA DI GARANZIA

Una Corte Suprema di garanzia dovrà tutelare lo spirito e la lettera della Costituzione, difendendola dagli abusi dei pubblici poteri e dagli attentati dei Partiti.

CREAZIONE DELLE REGIONI

La più efficace garanzia organica della libertà sarà data dalla costituzione delle Regioni come enti autonomi, rappresentativi e amministrativi degli interessi professionali e locali e come mezzi normali di decentramento dell'attività statale.
Dal libero sviluppo delle energie regionali e dalla collaborazione tra queste rappresentanze elettive e gli organi statali risulterà rinsaldata la stessa unità nazionale.
Nell'ambito dell'autonomia regionale troveranno adeguata soluzione i problemi specifici del Mezzogiorno e delle Isole.
Il corpo rappresentativo della Regione si fonderà prevalentemente sull'organizzazione professionale; mentre per quello del Comune, restituito a libertà, sarà elemento prevalente il voto dei capi di famiglia.

VALORI MORALI E LIBERTA' DELLE COSCIENZE

Consapevoli che un libero regime sarà saldo solo se fondato sui valori morali, lo Stato democratico tutelerà la moralità, proteggerà l'integrità della famiglia e coadiuverà i genitori nella loro missione di educare cristianamente le nuove generazioni.
Questa stessa nostra tremenda esperienza conferma che solo lo spirito di fraternità portato e alimentato dal Vangelo può salvare i popoli dalla catastrofe a cui li conducono i miti totalitari.
E' quindi particolare interesse della democrazia che tale lievito cristiano fermenti in tutta la sua vita sociale, che la missione spirituale della Chiesa Cattolica si svolga in piena libertà, e che la voce del Romano Pontefice, levatasi così spesso in difesa della dignità umana, possa risuonare liberamente in Italia e nel mondo.
Contro ogni intolleranza di razza e di religione, il regime democratico serberà il più riguardoso rispetto per la libertà delle coscienze.
E' in nome di essa, oltreché per le tradizioni del popolo italiano, che lo Stato riconosce efficacia giuridica al matrimonio religioso e assicura la libertà della scuola che può essere mortificante strumento di partito.

LA GIUSTIZIA SOCIALE

Oggi, in mezzo a tante rovine, si impone ineluttabile il pensiero che dovendosi ricostruire un mondo nuovo, il massimo sforzo sociale debba essere diretto ad assicurare a tutti non solo il pane e il lavoro, ma altresì l'accesso alla proprietà.
Bandito per sempre, utilizzando tutte le forze sociali e le risorse economiche disponibili, lo spettro della disoccupazione, estese le assicurazioni sociali, semplificato il loro organismo e decentrata la loro gestione che va affidata alle categorie interessate, la meta che si deve raggiungere è la soppressione del proletariato.
A tal fine importanti riforme si imporranno nell'industria, nell'agricoltura, nel regime tributario.

a) Nell'industria
Sarà attuata la partecipazione con titolo giuridico dei lavoratori agli utili, alla gestione e al capitale d'impresa.
Le forme concrete di questa partecipazione e cooperazione dovranno essere realizzate salvaguardandosi la necessaria unità direttiva dell'Azienda e riducendo rischi e sperequazioni fra le varie categorie degli operai con provvedimenti di solidarietà e di compensazione.
Oltre queste misure di accesso alla proprietà aziendale, altri provvedimenti dovranno essere presi con la finalità di deproletarizzare la classe operaia, assicurando tra l'altro alla famiglia operaia la casa e garantendo agli operai la possibilità di avviare i loro figli meritevoli agli studi medi e superiori, affinché i migliori fra di loro diventino i dirigenti industriali di domani.
Questa politica sociale, diretta a dare al lavoro l'adeguato riconoscimento, è in piena rispondenza con la politica economica richiesta dalla particolare condizione del nostro Paese che - povero di risorse naturali - deve contare sul massimo sforzo produttivo della classe operaia, congiunto allo spirito creativo dei tecnici ed alla iniziativa degli imprenditori.
Tale politica è in armonia con lo stato presente del nostro sviluppo industriale.
Le statistiche ci indicano invero che in Italia l'artigianato, la media e piccola industria prevalgono ancora sulla grande industria a carattere essenzialmente capitalistico e spesso monopolistico. E' quindi criterio di sano realismo promuovere e rinforzare questa struttura economica, della quale l'iniziativa privata ed il libero mercato costituiscono gli elementi propulsori.
Ma poiché anche per la libertà economica valgono i limiti dettati dall'etica e dall'interesse pubblico, lo Stato dovrà eliminare quelle concentrazioni industriali e finanziarie che sono creazioni artificiose dell'imperialismo economico; e modificare le leggi che hanno favorito fin qui l'accentramento in poche mani dei mezzi di produzione e della ricchezza. Esso tenderà inoltre alla demolizione dei monopoli che non siano per forza di cose e per ragioni tecniche veramente inevitabili, e, a quelli che risulteranno tali, imporrà il pubblico controllo; o, se più convenga - e salva una giusta indennità - li sottrarrà alla proprietà privata, sottoponendoli preferibilmente a gestione associata; e questo non come un avviamento al sistema collettivista nei cui benefici economici non crediamo e che consideriamo lesivo della libertà, ma come misura di difesa contro il costituirsi ed il permanere di un feudalismo industriale e finanziario che consideriamo ugualmente pericoloso per un popolo libero.
In un ordinamento bancario meglio rispondente alle esigenze della economia nazionale dovranno avere particolare rilievo gli istituti di credito specializzato e le banche regionali per l'incremento della agricoltura e dell'industria locali.
Questa politica economica sarà possibile senza improvvisazioni rivoluzionarie, date le condizioni attuali nel campo industriale, finanziario e bancario e l'esistenza di taluni Istituti che, creati con spirito e scopo di dominio politico, potranno, opportunamente modificati, essere indirizzati a realizzare una migliore distribuzione della ricchezza e ad impedirne il concentramento in poche mani.

b) Nell'agricoltura
Una prima mèta si impone: la graduale trasformazione dei braccianti in mezzadri e proprietari, ovvero, quando ragioni tecniche lo esigano, in associati alla gestione di imprese agricole a tipo industriale.
Salvi necessari riguardi alla produttività e alle esigenze della conduzione, bisognerà quindi promuovere il riscatto delle terre da parte dei contadini con una riforma terriera che limiti la proprietà fondiaria per consentire la costituzione di una classe sana di piccoli proprietari indipendenti.
L'attuazione di tale riforma, con i criteri più appropriati ai luoghi, alle condizioni e qualità dei terreni e agli aspetti produttivi, sarà uno dei compiti fondamentali delle rappresentanze regionali.
Sarà assicurato in ogni caso ai lavoratori agricoli il diritto di prelazione con facilitazioni fiscali e finanziarie per l'acquisto e la conduzione diretta dei fondi.
Nel complesso quadro delle riforme agrarie la colonizzazione del latifondo dovrà trovare finalmente effettiva attuazione.

c) Nel regime tributario
Una migliore distribuzione della ricchezza dovrà essere favorita anche da una riforma del sistema fiscale.
Unificate le imposte e semplificato il sistema di accertamento, il criterio della progressività, coll'esenzione delle quote minime, costituirà il perno fondamentale del sistema tributario, e uno dei mezzi per impedire la esorbitante concentrazione della ricchezza.
Altro mezzo per fornire l'accesso dei lavoratori alla proprietà dovrà trovarsi in una riforma del diritto di successione, chiamando, in determinati casi, i lavoratori a concorrere alla eredità delle imprese e delle terre fecondate dal loro lavoro.
Riforme, queste, che dovranno essere precedute da provvedimenti di emergenza, quale l'incameramento dei sopraprofitti della guerra e del regime fascista, e accompagnate da provvedimenti che dovranno tenere nella doverosa giusta considerazione la consistenza delle classi medie, i risparmi, frutto del lavoro e della previdenza, e le dotazioni delle istituzioni di utilità sociale.

RAPPRESENTANZA PROFESSIONALE DEGLI INTERESSI E DEMOCRAZIA ECONOMICA

Siamo contro il ritorno ai metodi della lotta di classe, ma anche contro l'attuale macchinoso sistema di burocrazia corporativa che sfrutta, a scopo di dominio politico, l'idea democratico-cristiana della libera collaborazione organica di tutti i fattori della produzione.
Garantita anche nel campo sindacale ampia libertà d'associazione, alcune funzioni essenziali, quali la conclusione e la tutela dei contratti collettivi e la soluzione dei conflitti del lavoro mediante l'arbitrato obbligatorio, saranno riservate a organizzazioni professionali di diritto pubblico, comprendenti, per iscrizione d'ufficio, tutti gli appartenenti alla categoria, i quali eleggeranno col sistema proporzionale i loro organi direttivi.
Oltre a questo compito interno, specificatamente sindacale, le professioni organizzate saranno chiamate a una funzione più vasta, a costituire cioè, sotto l'alta vigilanza dello Stato, lo strumento di propulsione e direzione della nuova economia e a tale scopo, raggruppate in grandi unità saranno - come si è già detto - la base delle rappresentanze degli interessi e nomineranno loro rappresentanti nelle Regioni e, a mezzo di essi, nella seconda Assemblea Nazionale.
In questo sistema di suffragio economico, integrativo del suffragio politico, sarà garantita una adeguata rappresentanza alle categorie dei tecnici e delle libere professioni e una rappresentanza speciale ai consumatori.

RICOSTRUZIONE DELL'ORDINE INTERNAZIONALE SECONDO GIUSTIZIA

Ogni piano d'interno rinnovamento si ridurrebbe però a vana utopia se la pace futura si basasse su un "diktat" e non su principi di ricostruzione secondo giustizia.
Autorevoli voci e quella augusta del Sommo Pontefice ne hanno indicato i principi.
Una "Dichiarazione dei diritti e dei doveri delle Nazioni" dovrà conciliare nazione e umanità, libertà e solidarietà internazionale.
Il principio dell'autodecisione sarà riconosciuto a tutti i popoli, ma essi dovranno accettare limitazioni della loro sovranità statale in favore d'una più vasta solidarietà fra i popoli liberi.
Dovranno quindi essere promossi organismi confederali con legami continentali e intercontinentali.
Le società nazionali rinunzieranno a farsi giustizia da sé ed accetteranno una giurisdizione avente mezzi sufficienti per risolvere pacificamente i conflitti inevitabili.

LA NUOVA COMUNITA' INTERNAZIONALE

La Società delle Nazioni è fallita per inadeguatezza d'istituzioni e di mezzi.
Per non ripetere tale esperienza, la nuova Comunità dovrà avere compiti più precisi, mezzi più efficaci ed una struttura più adeguata alla realtà. Fondata su un corpo più deliberante, costituito da delegazioni governative e da rappresentanze popolari più dirette, essa avrà nel Consiglio il suo organo esecutivo e il suo organo giudiziario nella Corte di Giustizia internazionale.

Sue funzioni politico-giuridiche
La nuova Comunità dovrà procedere al disarmo progressivo e controllato sia dei vinti che dei vincitori e attuare l'arbitrato obbligatorio, valendosi per applicare e far rispettare le decisioni internazionali, anche di quegli strumenti militari che nei vari Paesi, oltre le forze di polizia, potranno sopravvivere a scopo di difesa.
Sua funzione inderogabile sarà anche quella di rivedere i trattati ingiusti ed inapplicabili e promuovere modificazioni.
Rientrerà altresì nei suoi compiti la codificazione del diritto internazionale ed il coordinamento dei singoli diritti nazionali con tendenza ad allargare il concetto di cittadinanza.

Funzioni politico-economiche della Comunità internazionale
Bisogna affermare che per eliminare le nefaste rivalità fra le potenze colonizzatrici, s'impone il trasferimento dei territori di natura strettamente coloniale alla Comunità internazionale, la quale, stabilito il principio della porta aperta, disciplinerà il libero accesso alle colonie, avendo di mira il progresso morale e l'autogoverno dei popoli di colore.
Per assicurare poi a tutti i popoli le condizioni indispensabili di esistenza, è necessario garantir loro un'equa ripartizione delle materie prime sopprimendo i privilegi e favorendo gli acquisti da parte delle Nazioni meno abbienti; stabilire la libertà di un'emigrazione, disciplinata non solo da trattati, ma anche dalla legislazione internazionale del lavoro; accordare a ogni popolo la libertà delle vie internazionali di comunicazione e, eliminando gradualmente le autarchie e i protezionismi, tendere ad una sempre più larga attuazione del libero scambio.
Un organismo finanziario, promosso dalla Comunità internazionale, potrà avere la funzione di agevolare la stabilizzazione delle monete, la disciplina del movimento internazionale dei capitali e la cooperazione fra gli istituti bancari.

LA POSIZIONE DELL'ITALIA

Il Popolo italiano, al quale, come è stato da ogni parte solennemente ammesso, non sono imputabili guerre di conquista, attende pieno di riconoscimento della sua indipendenza e integrità nazionale, e nella Comunità internazionale reclamerà il posto dignitoso che gli è dovuto per la sua civiltà, per il suo contributo al progresso umano e per la laboriosità dei suoi figli.
Le esigenze di vita del popolo italiano e la necessità di soddisfare con riosrse naturali ai bisogni del suo eccedente potenziale di lavoro, richiedono che esso possa: acceder alle materie prime a parità di condizioni con gli altri popoli, avere il suo posto nel popolamento e nella messa in valore dei territori coloniali, emigrare in dignitosa libertà e sviluppare senza arbitrari ostacoli i suoi traffici nel mondo.
Così l'Italia, superata la crisi del suo libero reggimento, ed in tal modo riacquistando nuova dignità spirituale e politica, collaborando lealmente mnella Comunità europea, potrà riprendere la sua secolare funzione civilizzatrice.
Alcide De Gasperi

Voyeurs nel “La solitudine di Internet” e il” post-umano.”


Umberto Galimberti descrive il futuro prossimo dei nostri mezzi di comunicazione digitale e mi è tornata in mente una storiella per bambini, in cui si racconta che un re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio personale sul mondo: perciò gli regalò carrozza e cavalli. “Ora non hai più bisogno di andare a piedi”, furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito di farlo”, era il loro significato. “Ora non puoi più farlo” fu il loro effetto. Che c’entra tutto questo? C’entra. Se mi porto il mondo a domicilio come faccio a fare esperienza del mondo? Qui non si tratta di enfatizzare o demonizzare le enormi potenzialità future dei mezzi di comunicazione, ma di capire come l’uomo profondamente si trasforma per effetto di questo potenziamento. L’uomo infatti non è qualcosa che prescinde dal modo in cui manipola il mondo, e trascurare questa relazione significa non rendersi conto che a trasformarsi non saranno solo i mezzi di comunicazione, ma l’uomo stesso. Radio, televisione, personal computer, Cd-rom, ci plasmano qualunque sia lo scopo per cui li impieghiamo. Una trasmissione televisiva edificante e una degradante, per diversi che siano gli scopi a cui tendono, hanno in comune il fatto che non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini. Il “mezzo” indipendentemente dallo scopo ci istituisce come spettatori e non come partecipi di un’esperienza o attori di un evento. Questa condizione che vale per la televisione, vale, anche se non sembra per l’Internet, dove il “consumo in comune” del mezzo non equivale ad una “reale esperienza in comune”. Ciò che nell’Internet si scambia quando non è una somma spropositata di banalità, è pur sempre una realtà personale che non diventa mai una realtà condivisa.
Lo scambio ha un andamento solipsistico dove un numero infinito di eremiti di massa comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo. E par di vederli questi operatori, separati ‘uno dall’altro chiusi nel loro guscio come monaci di un tempo sui picchi dell'alture, non per rinunciare al mondo ma per non perdere neanche un frammento del mondo “in immagine”. Ciò comporta un capovolgimento tra interiorità ed esteriorità, e più in generale tra interno ed esterno. Se un tempo la famiglia era l’ “interno” in cui si scambiavano questi tratti affettivi d’ira e d’amore e più in generale quella libertà espressiva che occorreva contenere fuori all’ “esterno”, oggi grazie alla diffusione della Tv sempre accesa la famiglia è il luogo in cui è di casa il mondo esterno, reale o fittizio che sia. La casa reale, con le sue quattro mura e i suoi quattro mobili, è ridotta a un container per la ricezione del mondo esterno via cavo, via telefono, via etere, e quanto più il lontano si avvicina tanto più il vicino, la realtà di casa, quella familiare, si allontana ed impallidisce. Tutto ciò non dipende dall’uso che facciamo dei “mezzi”, ma dal fatto che ne facciamo semplicemente uso, per cui non gli “scopi” a cui sono preposti i “mezzi”, ma i “mezzi” come tali trasformano l’immagine in realtà e la realtà in fantasma.
Né la situazione migliora quando la famiglia è “raccolta” intorno alla Tv, perché, a differenza della tavola intorno a cui ci si sedeva facendo scorrere in un viavai continuo, sentimenti e risentimenti, interessi e gelosie, sguardi e conversazioni di cui si nutriva la trama della famiglia, davanti alla Tv la famiglia è “raccolta” non più in direzione centripeta, ma centrifuga, solo perché ciascuno, che non è più con l’altro, ma solo accanto all’altro, prenda il volo verso una fuga solitaria che non condivide con nessuno o al massimo con un milione di solitari del consumo di massa, che contemporaneamente a lui, ma non insieme a lui, guardano lo schermo. Come il gas, l’acqua, la luce, cosi i mezzi di comunicazione digitali, indipendentemente dall’uso che se ne fa ci portano gli avvenimenti in casa dispensandoci dall’andare verso di loro. Ciò trasforma il nostro modo di fare esperienza, se non altro perché chi vuol sapere cosa avviene fuori casa deve andare a casa, e solo allora, quando ciascuno di noi è ridotto a una monade leibniziana senza porte e senza finestre che si aprono sul pianerottolo del vicino, solo allora l’universo si riflette per noi e si offre a portata di mano. Non più il viandante che esplora il mondo, ma il mondo che si offre al sedentario che è al mondo proprio perché non lo percorre, e al limite neppure lo abita. La rivoluzione ha del copernicano, perché il mondo non è più ciò che sta, ma a stare (seduto) è l’uomo, e il mondo gli gira attorno capovolgendo i termini con cui, dal giorno in cui è comparso sulla Terra, l’uomo ha fatto esperienza. Le conseguenze non sono da poco. Se il mondo viene a noi, noi non “siamo-nel-mondo”, ma semplici consumatori del mondo. Se poi viene a noi solo in forma di immagine, ciò che consumiamo è solo il fantasma. Se questo fantasma lo possiamo evocare in qualsiasi momento, siamo onnipotenti, come Dio. Ma poi questa onnipotenza si riduce perché, se possiamo vedere il mondo senza potergli parlare, siamo dei voyeurs condannati all’afasia. Il mondo può diventare illeggibile per overdose di informazioni e l’uomo perdere il bene più prezioso che è la capacità di fare l’esperienza. Non siamo onnipotenti come i mezzi di cui disponiamo, e non saranno certo mezzi onnipotenti capaci di mettere in comunicazione milioni di solitudini a fare di tutti i solitari, privati proprio dai mezzi di comunicazione della possibilità di fare un’esperienza condivisa, gli abitanti di un mondo comune. Non siamo infatti onnipotenti cerchiamo di viverci la vita finché c'è concesso e datevi un massimo di ore per stare davanti al pc e che non superi il tempo che dovete dedicare a voi stessi e alla vostra famiglia. Non siamo onnipotenti e quindi cercate di imparare, informarvi e divertirvi con questo mezzo stupendo ma sappiate che è sempre una creatura dell'uomo.

sabato 28 maggio 2011

Bagnasco: Lampedusa un esempio d'accoglienza cristiana.


Il mare è silenzio, c’è solo il frusciare delle onde. E quel tipico suono provocato dall’acqua quando schiaffeggia la pancia delle barche, che se ne stanno abbandonate al loro dondolare in mare aperto. Cielo e acqua si confondono in un solo blu. Mentre il sole riverbera dappertutto, accecante. Laggiù sul fondale, immersi a 15 metri sott’acqua, tre sub della Guardia costiera stanno depositando una corona di fiori ai piedi della statua della Madonna del mare.

Siamo ai margini dell’area marina protetta dell’Isola dei conigli, immersi in una di quelle giornate di piena estate che solo la natura che Dio ha donato a quest’isola, così lontana da tutto e da tutti, sa regalare a chi la viene a visitare, come ha fatto ieri il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana.
Tre fischi di sirena, partiti dalle motovedette della Guardia costiera, lacerano l’aria, marinai e ufficiali d’ogni arma presenti sul naviglio, si mettono sull’attenti per un minuto di silenzio. Il cardinale Bagnasco, insieme al cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo e presidente della Conferenza episcopale siciliana, e all’arcivescovo di Agrigento monsignor Francesco Montenegro, si raccolgono in preghiera sulla plancia della motovedetta «C.p. 290». Ecco che i fischi si susseguono: vogliono ricordare i morti del mare, i tantissimi migranti che si sono persi nel nulla, morendo nei naufragi rimasti senza un titolo sui giornali, durante le traversate del Canale di Sicilia. Nel tentativo di raggiungere l’Italia, le braccia aperte di Lampedusa e dei lampedusani, per entrare nell’Europa della speranza.
Così, con questa cerimonia del ricordo, si è conclusa la visita del cardinale, atterrato ieri mattina a Lampedusa – ha detto rivolto ai lampedusani – «per incrociare il vostro sguardo e dirvi grazie per l’esempio di accoglienza cristiana che date, gesti concreti fatti secondo le vostre possibilità». Parole che il porporato pronuncia durante la sua omelia nella chiesa di San Gerlando, nella Messa che apre il viaggio: Lampedusa «un esempio per tutti, specialmente per quanti parlano molto e fanno poco».
Parole ferme, decise, riferite – avrà modo poi di spiegare ai giornalisti che gli chiedono ragguagli – «a tutti i livelli, sia per quanto riguarda il nostro Paese sia per gli altri Paesi che, ho l’impressione, non avvertono ancora in modo radicale che confini dell’Italia e di Lampedusa sono confini ormai dell’Europa». Bagnasco non ha poi potuto recarsi, come era previsto, nel Centro di accoglienza per immigrati, a causa di momenti di tensione suscitati da un gruppo di immigrati. Venuti a conoscenza della visita e della presenza dei giornalisti, essi hanno protestato contro i rimpatri, provocandosi, in cinque, lievi ferite da taglio. Per evitare incidenti, le autorità hanno deciso di annullare il passaggio dal Cie.

In precedenza, campane a festa e generosi applausi, con i bambini delle elementari nei loro grembiuli azzurri, avevano accolto l’arrivo del presidente della Cei. E ancora più lungo l’applauso di una chiesa affollatissima di fedeli e operatori umanitari, molte donne, madri e mogli, e tanti giovani e adulti, senza più una sedia libera, quando Bagnasco era entrato in parrocchia.
Il senso della visita del cardinale è stato quello di «portare la solidarietà della Chiesa italiana a una comunità particolarmente provata dalle attuali vicende legate ai fenomeni migratori dal Nord Africa». «L’accoglienza semplice e cordiale dei lampedusani, fatta di gesti concreti, è esempio per tutti, specialmente per quelli che parlano molto e fanno poco – ha sottolineato Bagnasco –. Di fronte ad una emergenza di proporzioni inedite e tempi imprevedibili serve una risposta con prospettive più ampie e risolutive».
Nel dare il suo benvenuto al presidente della Cei, monsignor Montenegro ha sottolineato come «Lampedusa chieda aiuto nella preghiera e nella solidarietà per essere forte, ma soprattutto lanci un appello ai responsabili della cosa pubblica per sforzarsi di coniugare il diritto all’accoglienza alle esigenze vitali di una piccola comunità minacciata dagli sconvolgimenti degli ultimi mesi». Prima di lasciare l’isola, il cardinale ha rinnovato il suo appello a Italia e Europa.
E si è detto
dispiaciuto di non aver potuto visitare gli immigrati presenti nel Centro di accoglienza.

Nel trattato di Lisbona si parla di pena di morte e non solo.


Il Parlamento approva il trattato di Lisbona esortando gli Stati membri a ratificarlo entro fine anno ed a informare i cittadini in vista delle elezioni europee del 2009. L'UE sarà così più democratica, efficiente e capace di decidere, rafforzando i poteri del Parlamento e i diritti dei cittadini, senza diventare un Superstato. Resta il rammarico per la rinuncia all'approccio costituzionale e ai simboli, le deroghe alla Carta dei diritti fondamentali e il seggio aggiuntivo concesso all'Italia. Un report di analisi sul Trattato di Lisbona per spiegare uno tra gli aspetti controversi e ambigui del testo del trattato semplificato che sostituisce il progetto della Costituzione Europea. Il corpus del Trattato di Lisbona crea infatti un vero e proprio guazzabuglio su un argomento così delicato, che è la "privazione della Vita del Cittadino ", o in altre parole la pena di morte, che diventa in qualche modo "lecita" dinanzi a particolari condizioni.

Il “Trattato di Lisbona” è un corpus di più documenti che vanno a rivoluzionare completamente l’assetto del nostro continente. Comprende la vecchia Costituzione europea, bocciata da Francia ed Olanda, praticamente in toto a meno di qualche elemento di cosmesi di facciata e vari altri documenti che assimilano e modificano i precedenti. Riguardo la questione della Lecita Privazione della Vita del Cittadino da parte dello Stato i documenti fondamentali a cui si farà riferimento sono:
1. il Trattato sull’Unione Europea (TUE)
2. la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea
3. la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)
In questo ambito il corpus del Trattato di Lisbona crea un vero e proprio guazzabuglio. Su un argomento così delicato, l’unica chiara ed inequivocabile risposta della nostra cultura europea, scaturita da secoli di lotte contro l’oppressione (Jhon Locke, 1690, Saggio sull’intelletto umano) è che la privazione della Vita del Cittadino è proibita e lo Stato non deve in nessun modo poterlo fare impunemente. E’ solo grazie alla lezione del Prof. Karl Albrecht Schachtschneider, Professore di Diritto all’Università di Erlangen-Nürnberg, che è possibile ricostruire con competenza il quadro completo.
Attualmente è disponibile in rete la Versione Consolidata del trattato, ovvero la versione completa in cui è stato sostituito tutto il “taglia e cuci” della precedente. Nonostante il processo di ratifica del Trattato in Europa sia iniziato nei primi mesi del 2008 (in Francia a Febbraio), la versione disponibile fino a Maggio comprendeva alcune centinaia di pagine incomprensibili tutte fatte di rimandi, correzioni e sostituzioni, note a piè di pagina assolutamente incomprensibile per i più, francesi compresi.
Ebbene la Versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea dice:

Articolo 2
L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.

Articolo 6, paragrafi 1 e 2
1. L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati.
I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.
2. L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (detta CEDU, ndr). Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati.

Inoltre il fatto che l'Unione aderisca alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali è ribadito anche nel Protocollo n°8 intitolato "relativo all'articolo 6, paragrafo 2 del Trattato sull'Unione Europea sull'adesione dell'unione alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Infine:

Articolo 51
I protocolli e gli allegati ai trattati ne costituiscono parte integrante.

Fin qui, parrebbe tutto come di consueto: viene tutelata la libertà dell’individuo, il pluralismo e sono rispettati i diritti umani inalienabili, tanto che l’Unione aderirebbe alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (come se la carta dei Diritti Fondamentali dell’Uomo dell’ONU non bastasse più…).
Occorre però osservare che integrata nel Trattato sull’Unione Europea, vi è anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale recita:

Articolo 2
Diritto alla vita
1. Ogni individuo ha diritto alla vita.
2. Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato.

Ma anche

Articolo 52, paragrafo 3
Portata dei diritti garantiti
3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (detta CEDU), il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa.

Questo passaggio è fondamentale perché di fatto si sancisce la pariteticità tra Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) laddove le due carte trattano gli stessi argomenti.
Quest’ultima, a dispetto del nome, presenta diverse contraddizioni che minano completamente le basi precedentemente poste, infatti la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) dice:

Articolo 2 - Diritto alla vita
1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena.
2. La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:
1. per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale;
2. per eseguire un arresto regolare o per impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta;
3. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione.

E’ da notare che non esiste una definizione di sommossa o insurrezione!!! Quindi le forze di polizia hanno la massima opinabilità in questo frangente! La sommossa sono i valsusini che non vogliono respirare amianto e uranio? Sono i vicentini che non vogliono 90 testate nucleari pronte a distruggere l’Iran in casa propria? Sono i cittadini di Chiaiano che non vogliono gli sversamenti abusivi di rifiuti tossici o radioattivi? Sono i Ferraresi che non desiderano un triplo cancronizzatore? O chi di noi domani quando vedrà calpestato selvaggiamente un proprio diritto fondamentale

Inoltre aggiunge nel sesto protocollo aggiuntivo:

Articolo 1 - Abolizione della pena di morte
La pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena né giustiziato.

Articolo 2 - Pena di morte in tempo di guerra
Uno Stato può prevedere nella sua legislazione la pena di morte per atti commessi in tempo di guerra o in caso di pericolo imminente di guerra; tale pena sarà applicata solo nei casi previsti da questa legislazione e conformemente alle sue disposizioni. Lo Stato comunicherà al Segretario Generale del Consiglio d'Europa le disposizioni rilevanti della legislazione in questione.

Conclusioni:
-la pena di morte è ovunque abolita in tempo di pace, per cui gli Stati che la dovessero prevedere allo stato attuale la devono abolire. Ad ogni modo, nella transizione verso l’abolizione non infrangono il Trattato di Lisbona se la comminano a causa dell’articolo 2 del CEDU.
-la pena di morte può essere introdotta in tempo di guerra. Certo è che grazie al patto di mutuo soccorso fra gli stati europei in casi di attacchi terroristici, una nazione può in un attimo trascinare le altre in guerra, quindi la probabilità che anche la provincia italiana si trovi perennemente in stato di guerra è rilevante
-è gravissimo e subdolo che l’articolo 2 del CEDU permetta di sparare sulla folla impunemente. Qui non si parla di pena di morte ma di uccidere barbaramente nel tumulto! Nei casi di pena di morte in tempo di guerra, per lo meno, c’è un processo, degli avvocati, un dibattimento. In questo caso no: è tutto immediato, senza razionalità, è pura barbaria! Se il comandante impartisce l’ordine, i sottoposti possono ammazzare i manifestanti, se un celerino nel tumulto, magari preso da paura, comincia a sfasciare crani e costole all’impazzata senza più alcun controllo, lo potrà fare. Tutto ciò perché non vi è alcuna definizione di “ricorso alla forza resosi assolutamente necessario”.
Non è possibile accettare una simile legge perché la vita del cittadino è inviolabile!
Ed è offensivo che i nostri politici lascino tanta indeterminatezza ed opinabilità su un argomento tanto delicato!
Per il Parlamento, nel complesso, il trattato rappresenta «un miglioramento sostanziale rispetto ai trattati vigenti». Esso, infatti, aumenterà la responsabilità democratica e la capacità decisionale dell'Unione (mediante un rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo e di quello dei parlamenti nazionali), rafforzerà i diritti dei cittadini europei nei confronti dell'Unione e migliorerà l’efficacia del funzionamento delle sue istituzioni. Il trattato di Lisbona, d'altra parte, «fornirà una struttura stabile che permetterà ulteriori sviluppi dell'Unione in futuro». I deputati sottolineano inoltre la necessità che tutti gli Stati membri dell'Unione procedano alla ratifica del trattato in tempo utile affinché possa entrare in vigore il 1° gennaio 2009. In questo modo, infatti, i cittadini potranno effettuare le proprie scelte politiche con piena conoscenza del nuovo quadro istituzionale dell'Unione in occasione delle elezioni europee del 2009. Al riguardo, il Parlamento ribadisce la sua richiesta di realizzare «tutti gli sforzi possibili» - da parte delle istituzioni dell'UE e delle autorità nazionali - «per informare i cittadini europei in modo chiaro e obiettivo sul contenuto del trattato». Chiede inoltre l'immediata pubblicazione dei trattati consolidati riveduti dal trattato di Lisbona, per fornire ai cittadini «un testo comunitario di base più chiaro».

martedì 24 maggio 2011

Parlano di netvisione: sarà il futuro del consumo mediatico.


In attesa che un unico terminale diventi il luogo privilegiato della convergenza multimediale le applicazioni di programmi audiovisivi più interessanti si parla tanto e a questo proposito di televisione on line o più semplicemente di web-tv. Di che tipo di televisione si tratta? Possiamo ancora utilizzare il termine televisione per indicare una modalità comunicativa bidirezionale, personalizzata, interattiva, libera, diversa da quella monodirezionale e passivizzante della classica tv? La webtv è pubblicazione di video, videoblog, screencast, repository video, podcasting, video live con webcam, condivisione di file video, trasmissione in diretta di manifestazioni, sedute politiche, lezioni universitarie, eventi pubblici o privati, è mandare in rete il segnale proveniente da una telecamera accesa 24 ore al giorno su una piazza, una spiaggia, la propria stanza ecc. E' dare la possibilità ad aziende, università, associazioni, istituzioni, scuole, singoli individui, di creare la propria "televisione". Tutto ciò la tv che conosciamo non lo ha mai fatto, inoltre, forme, durate, linguaggi e contenuti della televisione online sono debitori del paradigma comunicativo imposto dalla rete e dalla cosiddetta clip culture. Proponiamo pertanto da un punto di vista terminologico l'utilizzo di netvisione (piuttosto che di webtv) per indicare forme di comunicazione a base di immagini in movimento e suoni presenti sulla rete. Crediamo del resto che vadano operate distinzioni rispetto alle diverse tipologie di immagini oggi esistenti:
1. Immagini spettacolari e coinvolgenti che si guardano preferibilmente da lontano, dalle poltrone delle sale cinematografiche o delle nuove sale digitali, fruite senza alcuna interazione fisica ma soltanto culturale.
2. Immagini che si guardano da vicino, dai divani delle nostre case, fruite in modo distratto, disordinato, passivo. E' la cosiddetta couch viewing. L'utente definito couch potato guarda la tv sprofondato nel divano a qualche metro di distanza dal televisore, in una mano il telecomando, nell'altra le patatine.
3. Le immagini che si guardano da molto vicino e che prevedono un coinvolgimento culturale e fisico (per navigare, approfondire, scegliere, intervenire, costruire ecc.). Questa tipologia di immagini che oggi possono essere fruite sugli schermi dei computer necessitano di uno spettatore esploratore, attivo. La visione, definita desk viewing, prevede un alto grado di partecipazione e si avvicina a quella dell'utilizzatore di Internet che ha lo schermo ad una distanza ravvicinata ed è costretto a continue operazioni di scelta attraverso mouse e tastiera.
4. Infine ci sono le immagini che si guardano da molto vicino e in movimento, quella della tv mobile. La televisione diventa attraverso il TVfonino o videofonino portatile e consente la fruizione dei programmi durante gli spostamenti, è come avere la tv in tasca: una tv da passeggio, con uno schermo piccolo, vista da vicino, spesso in piedi, nei luoghi e nelle situazioni più diverse.
Le immagini e le relative visioni che in questo contesto ci interessano sono quelle della netvisione, che più delle altre si prestano ad un contesto didattico per la possibilità che offrono di approfondimento, fruizione attiva e collaborativa.
La possibilità di approfondimento, di entrare nelle informazioni offerta dalla netvisione consente di andare oltre la tv che conosciamo (alla modalità push si sostituisce la modalità pull). La netvisione consente di superare i principali ostacoli legati all'uso della televisione sequenziale e lineare in ambito didattico quali la spettacolarizzazione degli eventi e l'informazione data sotto forma di spot. Benché la quantità di notizie prodotte negli ultimi trent'anni sia maggiore di quelle prodotte nei cinquemila anni precedenti, ciò non ha comportato un aumento di conoscenza. Lo spettatore televisivo è incessantemente bombardato da informazioni flash che si accavallano e si sovrappongono, tutte contraddistinte da una sorta di autoreferenzialità: il contesto è trascurato o trattato superficialmente, i nessi e i rapporti tra le parti rimangono in ombra. Inoltre la messa in scena televisiva indirizzata verso la spettacolarizzazione non favorisce l'apprendimento di nozioni complesse né il processo di analisi che una situazione di insegnamento-apprendimento richiederebbe. I tempi televisivi basati su tempestività e velocità poco hanno a che fare con i tempi del sapere.

venerdì 20 maggio 2011

Discorso sulla Politica Pop!


Il processo a cui stiamo assistendo globalmente in questi ultimi decenni, e che solamente negli ultimi anni si sta affacciando anche nel nostro paese, ha fatto molto discutere gli analisti ed i professionisti della politica. Quella che all'inizio poteva sembrare una spaccatura netta tra chi si dichiarava a favore o contro il cambiamento di tecniche e mezzi della comunicazione politica, dettata soprattutto da appartenenze ideologiche di base, si sta, poco alla volta sfumando sempre più.
Ormai gli schieramenti sono trasversali, o, come è in voga ultimamente chiamare questo fenomeno in Italia, bipartisan. La divisione, ora che le grandi narrazioni ideologiche sono cadute, esiste tra chi sostiene un certo ideale della politica, più romantico e idealista, e chi invece vede di buon occhio questa ibridazione tra tecniche legate al mercato e la politica.

Questo processo è visto da molti come qualcosa di inevitabile ed endemico: l’allontanamento della popolazione da tutto ciò che è discorso politico, anche considerato in senso lato, è un fenomeno che sta crescendo in tutto l’Occidente, e la prima conseguenza pratica è un sentimento antipolitico diffuso. L’attenzione dedicata dal cittadino a questo campo della vita quotidiana, non più considerato primario, è sempre più labile; questo porta ad una semplificazione del messaggio politico, che non può più permettersi di essere ostico e di parlare una lingua diversa da chi ascolta. L’aspetto appena enunciato, unito al fatto che nella nostra società sempre più complessa, l’individuo è bombardato da messaggi ed informazioni come se fosse immerso in un flusso comunicativo perenne, fa si che il messaggio politico, per essere in prima istanza assimilato, debba rendersi appetibile e seducente, sia per il cittadino, che lo stesso mondo dei media, unico gate tra l’informazione e il ricevente.

I programmi televisivi che veicolano informazione politica si trovano a dover competere con format commerciali per la stessa audience. Questo fa si che la politica adotti la logica ed i canoni comunicativi dei media per potere sopravvivere all’interno di tale mondo, e che nascano nuovi generi ibridi di informazione, come per esempio l'infotainment e il politainment. Questi nuovi generi sono portati naturalmente a veicolare il messaggio più semplice possibile, che in questo caso stringendo all'osso il messaggio politico, è l’immagine del politico stesso. Niente è più facilmente memorizzabile da parte del telespettatore e manipolabile da chi costruisce il messaggio. Ormai tutto è immagine: il contenuto è passato in secondo piano. Non conta più il “cosa” si dice, ma solamente il “come” viene detto. Il processo può essere visto sotto due punti di vista differenti, uno positivo e l’altro negativo. Chi è a favore, sostiene che questo abbassamento della complessità della discussione politica non può che essere positivo in quanto fa si che larghe fasce di popolazione che si erano allontanate, spaventate dal così detto linguaggio “politichese”, si riavvicinino a tematiche di interesse pubblico. Il punto di vista di chi è contrario punta proprio sul fatto che queste informazioni diano solamente un’infarinatura; che i cittadini credano di assimilare notizie politiche di primaria rilevanza, mentre sfiorano solamente la superficie dei problemi. I telespettatori vengono sviati su tematiche di risibile importanza, ma che posseggono immensamente più “appeal” rispetto a notizie più complesse. Il puntare sulla semplificazione a tutti i costi ha portato la comunicazione politica a ridursi a una riproduzione continua di “sound bites”: semplici slogan che giungono immediati ai cervelli degli elettori, non più abituati a confrontarsi con discussioni profonde e complicate.

Questo porta alla trasformazione dei programmi elettorali, in piattaforme programmatiche dove i concetti portati avanti dai partiti e le coalizioni non sono più esposte in lunghe dissertazioni al limite del filosofico, ma che diventano un elenco di slogan, più facilmente assimilabili da parte dell’elettore. Questi slogan sono immensamente più semplici da comunicare, e si fissano con più immediatezza nella mente di chi li ascolta. Tale processo spiana la strada non solo ad una nuova concezione politica, ma anche ad una classe di politici completamente differenti dal passato. Chi vuole provare l’impresa politica, non potrà più permettersi di non possedere perlomeno un livello minimo di conoscenza delle tecniche di comunicazione. La nuova politica sa che se si vuole riuscire a conquistare il voto degli elettori è più importante conoscere quali sono i loro bisogni e le loro aspettative, piuttosto che affannarsi a convincerli che le proprie idee siano quelle giuste per il loro bene e quello comune. Questo fa si che le indagini di mercato proliferino e che i sondaggi assurgano al ruolo di portavoce infallibile dell’opinione pubblica. Negli ultimi tempi chi voglia candidarsi non ha a disposizione solamente la strada della affiliazione partitica, o la militanza di lungo corso, per poter emergere. Sempre più politici provengono dagli ambiti più disparati: da quello economico, allo spettacolo.

L’esempio di Tiziano Motti di Reggio Emilia è, da questo punto di vista, emblematico e simbolico dei concetti appena spiegati: egli è un imprenditore che non ha mai avuto in passato esperienze politiche, che è stato in grado di farsi eleggere al Parlamento Europeo nella tornata elettorale del 2009, contando solamente sulle sue risorse finanziarie e le proprie capacità comunicative e conoscenze tecniche. Tutto questo senza appoggiarsi ad alcun partito politico per buona parte della campagna elettorale, e addirittura sopravvivendo, politicamente parlando, ad un cambio di partito e schieramento a campagna ampiamente avviata. Motti è stato in grado di farsi eleggere utilizzando uno stile di campagna che fino a qualche anno fa sarebbe stato assolutamente impensabile: serate in discoteca con comizi annessi; bombardamento mediatico attraverso il web; sovraesposizione personale attraverso una candidatura che si incentrava totalmente sulla sua immagine personale. E tutto questo non in un’elezione di basso profilo, bensì in una campagna elettorale per il Parlamento Europeo. Questo dimostra che queste tecniche e queste modalità di comunicazione non sono solamente folklore: i risultati sono oggettivi e davanti agli occhi di tutti. La “Politica Pop” è anche questo: da un lato da democraticamente la possibilità a chiunque voglia intraprendere la carriera politica, di farlo. Però alcune importanti barriere di ingresso rimangono comunque: la spesa sostenuta dal candidato Motti in campagna elettorale (700.000 € attinti interamente da risorse finanziarie già in suo possesso), per esempio, non può in nessun modo essere considerata alla portata di qualsiasi cittadino.
Così facendo, la politica rischia di diventare un obiettivo ed un passatempo per facoltosi individui in grado di poter investire sulla propria immagine e popolarità ingenti capitali. Questo apre la strada a schiere di potenziali politici improvvisati, e con essi ad un certo numero di quesiti. Saranno in grado questi politici dell’ultima ora di garantire uno standard di professionalità minimo? Che motivazione potrebbe avere un professionista o imprenditore per scendere in politica? Il fatto che siano digiuni da qualsiasi rudimento politico è un bene o un male? Rispondere a queste domande senza utilizzare dei “frame”(clicca qui per capire che cosa sono) ideologici è alquanto difficile.
A proposito di frame i vari media competono tra di loro per ottenere prestigio utilizzando i frame, cioè fornire un'informazione politica di qualità adoperando diversi frames; secondo cui l’informazione piacevole e interesse per la politica è individuata nel l’infotainment, che si differenzia dal soft news cioè notizie di gossip e “varia umanità” fino ad arrivare al politainment “politica divertente” e “intrattenimento politico”.
L'infotainment è nato negli anni '90 come genere televisivo a sé stante, ma ormai ha acquisito lo status di genere televisivo vero e proprio. Il termine infotainment è una crasi tra informazione e intrattenimento: indica che l'informazione ha perso la sua funzione informativa per assumere i connotati dell'intrattenimento, come se fosse uno svago. Sono modi di divulgare la realtà extra-televisiva: appartengono a questa categoria i TV-magazine che affrontano argomenti di vario genere.
Gli adolescenti non riescono neppure a capire il concetto di una televisione guardata secondo la programmazione stabilita da qualcun altro. Per i teenager, ciò che importa non è avere quindici minuti, ma quindici megabyte di notorietà. Le comunità online stanno conoscendo un rapido sviluppo non come mondo virtuale ma come virtualità reale integrata con altre forme d’interazione in una vita quotidiana sempre più ibridata dai media. La comunicazione wireless è diventata la piattaforma di distribuzione principale per molti generi di prodotti digitalizzati.

Il carattere chiave della comunicazione wireless non è tanto la mobilità, quanto la connettività perpetua. Si potrebbe disquisire anni sui fallimenti della politica tradizionale e dei così detti politici di professione, sul degrado a cui hanno ridotto la politica attuale, sull'incapacità a calarsi nei problemi della società reale da parte di persone che non hanno avuto esperienze lavorative significative. E la risposta a queste domande potrebbero non portare, ad ogni modo, ad una conclusione univoca e pienamente razionale della discussione. Fatto sta che l’impoverimento dei contenuti della politica è un aspetto reale ed oggettivo. In un circolo vizioso, l’abbassamento qualitativo dell’informazione, votata alla conquista di audience potenziale, ha portato la politica a parlare degli argomenti e ad usare gli stili di comunicazione dell’informazione stessa. Questo ha portato i cittadini ad avere una conoscenza delle problematiche reali molto inferiore rispetto al passato, a fronte di un maggior numero di notizie diffuse dai mass media e ad una maggiore semplicità di ricezione di esse: un controsenso.

In Italia per esempio i media e la politica sono interdipendenti: la leadership politica si personalizza, il leader politico si assimila al consumo mediatico delle immagini e il discorso politico è spettacolarizzato. “L’immagine che conta è più l’immagine all’arrivo che quella alla partenza... L’immagine è innanzitutto immagine mentale.”
Il politico sa che comparendo in televisione può accedere a un pubblico più numeroso e variegato di quello che normalmente s’interfaccia con lui negli ambiti di propaganda tradizionali, comizi, meeting, eventi. Il leader politico è diventato una merce che si vende al miglior offerente, in questo caso al telespettatore-elettore. L’immagine del leader, di un uomo politico, di un candidato è piuttosto la rappresentazione cognitiva sintetica che l’individuo ne ha in mente.
Il discorso politico è intriso di semplicità del linguaggio (come superamento del “politichese”) ed è immediato perché, tante volte, il politico ha a disposizione poco tempo e quindi deve fare in modo che il messaggio sia recepito immediatamente. Quindi con il politainment ci riferiamo ai momenti in cui la politica entra in trasmissioni che normalmente non le apparterrebbero. É il caso, per fare qualche esempio, di quando Piero Fassino ha partecipato alla trasmissione di Maria de Filippi “C'è posta per te” per incontrare dopo molti anni la sua vecchia tata oppure l'intervento di Berlusconi al “Processo di Biscardi” per parlare del suo Milan. I programmi televisivi diventano una “terza palestra” in cui si può promuovere la leadership, dopo le prime due palestre che sono i luoghi istituzionali e le piazze.
La politica s’innalza a vero e proprio genere televisivo: la partecipazione, annunciata o meno, di un politico a un programma che con la politica non ha nulla a che vedere, suscita nei telespettatori esitazione. Il loro comportamento nella trasmissione è osservato con attenzione e può determinare anche le future decisioni di voto: per esempio, un politico che si fa prendere in giro in un programma satirico, ridendo delle battute che gli sono rivolte, mostrerà un’immagine di sé positiva, in altre parole di chi sa stare allo scherzo. Però non basta. Gli attributi politico-personali hanno quindi la duplice proprietà di essere allo stesso tempo personali e politicamente rilevanti. I tratti puramente personali, come il bell'aspetto o la simpatia o lo status coniugale sono qualità prive di un'appropriatezza politica. Serve quindi essere affidabile e credibile fornendo indizi sul piano politico dando l’idea generica di realizzare una buona performance in parole povere se il candidato sa “fare bene” il proprio mestiere nell'esercitare il potere concessogli.

Il processo appena illustrato è difficilmente reversibile, anche se spazi di miglioramento esistono e sono praticabili: quando la politica ritornerà a parlare alla testa e al cuore dei cittadini, e non solamente alla loro pancia; quando sarà in grado di dettare la linea e non solamente di seguire la voce dell’opinione pubblica dominante; quando si ritornerà a trattare di argomentazioni attinenti alla vita quotidiana dei cittadini tutti. Quando almeno alcune di queste prerogative saranno soddisfatte, si riuscirà nella conditio sine qua non per una rinascita della politica nel nostro paese: far appassionare nuovamente la popolazione alla politica e renderla coinvolta nelle scelte dei propri rappresentanti, facendo si che la fiducia per le istituzioni possa ritornare a livelli accettabili, così da trasformare il tutto in un circolo finalmente in virtuoso e moralmente accettabile. Grazie e al prossimo articolo.

giovedì 19 maggio 2011

La struttura invisibile e i suoi effetti di Bordieu


Per andare al di là di una descrizione di ciò che accade sulla scena di una trasmissione televisiva e per tentare di cogliere i meccanismi esplicativi delle pratiche messe in atto dai giornalisti, occorre introdurre la nozione di campo giornalistico. Il mondo del giornalismo è un microcosmo che ha leggi proprie e si definisce per la sua posizione nel mondo globale, e anche per le attrazioni e le repulsioni che subisce da parte degli altri microcosmi. Dire che è autonomo, che ha una legge propria, equivale a dire che ciò che accade al suo interno non può essere compreso in modo diretto a partire da fattori esterni.
Quote di mercato e concorrenza.
Per capire cosa accade in una rete televisiva, occorre tener conto di tutto ciò che quella rete deve al fatto di situarsi in un universo di rapporti oggettivi fra le diverse reti televisive in concorrenza fra loro; ma una concorrenza definita nella sua forma, in modo invisibile, da rapporti di forza non percepiti che si possono cogliere attraverso indicatori quali le quote di mercato, la forza contrattuale nei confronti di inserzionisti e sponsor, il valore pubblico di giornalisti prestigiosi, .. In altre parole, fra queste reti si hanno non soltanto varie interazioni (fra le persone), ma anche rapporti di forza completamente invisibili per i quali occorre considerare l’insieme dei rapporti di forza oggettivi che costituiscono la struttura del campo. Una rete televisiva può cambiare il paesaggio audiovisivo per il semplice fatto di aver accumulato un insieme di poteri specifici che si esercitano su questo universo e si ritraducono effettivamente in quote di mercato. Questa struttura non viene percepita né dai telespettatori né dai giornalisti; costoro ne percepiscono sì gli effetti, ma non vedono sino a che punto il peso relativo dell’istituzione in cui si collocano gravi su di loro, così come non vedono il posto e il peso che essi assumono in questa istituzione. Per tentare di capire cosa possa fare un giornalista, occorre tener presente una serie di parametri:
 da una parte, la posizione dell’organo di stampa in cui si trova nel campo giornalistico
 dall’altra, la sua specifica posizione nello spazio del giornale o della rete televisiva in cui lavora
Un campo è uno spazio sociale strutturato, un campo di forze (ci sono i dominanti e i dominati, ci sono rapporti costanti di ineguaglianza che si esercitano all’interno di tale spazio) che è anche un campo di lotte per trasformare o conservare questo campo di forze. Ciascuno, all’interno di questo universo, sviluppa nella sua concorrenza con gli altri la forza che ha, quella che definisce la sua posizione nel campo e, di conseguenza, le sue strategie. La concorrenza economica fra le reti o i giornali per conquistare quote di mercato, si compie concretamente nella forma di una concorrenza che ha i propri obiettivi specifici (lo scoop, l’esclusiva, la reputazione personale, ..) e che non si vive né si pensa come una lotta puramente economica per acquisire vantaggi finanziari, pur rimanendo sottoposta ai vincoli legati alla posizione dell’organo di stampa considerato nei rapporti di forza economici e simbolici. Oggi si hanno rapporti oggettivi invisibili tra persone che possono anche non incontrarsi mai, ma che sono indotte a tener conto, in quel che fanno, dei vincoli e degli effetti che subiscono per via della loro appartenenza ad un medesimo universo. In altre parole, se voglio sapere oggi quel che dirà o scriverà un certo giornalista, occorre che sappia la posizione che egli occupa in questo spazio, il potere specifico che detiene il suo organo di stampa: un peso che si misura, tra i vari indici, attraverso il suo peso economico, le quote di mercato, ma anche attraverso il peso simbolico, più difficile da quantificare. In realtà, per una spiegazione completa, occorrerebbe considerare la posizione del campo mediatico nazionale all’interno del campo mondiale. Per capire meglio questa struttura nella sua forma attuale, vale la pena ripercorrere le fasi del processo grazie al quale essa si è costituita:
1) negli anni 50, la televisione era appena presente nel campo giornalistico; quando si parlava di giornalismo, non si pensava quasi alla televisione. I professionisti televisivi erano doppiamente dominati: soprattutto perché sospettati di essere dipendenti nei confronti dei poteri politici, erano dominati dal punto di vista culturale, simbolico, dal punto di vista del prestigio, ma erano dominati anche economicamente nella misura in cui dipendevano dalle sovvenzioni statali, quindi erano molto meno potenti
2) con il passare degli anni, il rapporto si è completamente rovesciato e la televisione tende ormai a prendere il sopravvento economico e simbolico nel campo giornalistico
Il fenomeno si manifesta soprattutto attraverso la crisi dei giornali; e i più minacciati sono quelli che offrivano soprattutto notizie di cronaca o sportive, e che non hanno nulla da opporre ad una televisione sempre più orientata verso questi temi, mano a mano che si sottrae al dominio del giornalismo serio. Si dovrebbe entrare nei dettagli, fare (perché purtroppo non esiste ancora) una storia sociale dell’evoluzione dei rapporti fra i diversi organi di stampa (e non di uno solo di essi). È a livello della storia strutturale dell’insieme dell’universo che appaiono le cose importanti. Ciò che conta in un campo sono i pesi relativi: un giornale può restare assolutamente identico, non perdere un lettore, non cambiare minimamente e trovarsi tuttavia profondamente trasformato perché il suo peso e la sua posizione relativa nello spazio risultano trasformati. Un giornale smette di essere dominante quando il suo potere di deformare lo spazio che lo circonda diminuisce ed esso non detta più legge. C’era già un campo, il giornalismo scritto, in cui si opponevano i giornali che forniscono news (= notizie, cronache) e quelli che offrono views (= punti di vista, analisi); i giornali a grande tiratura e i giornali a tiratura relativamente più ridotta, ma dotati di un’autorità semiufficiale. Esistono giornali ben piazzati in entrambe le prospettive: sufficientemente forti quanto a tiratura per essere una potenza dal punto di vista della richiesta pubblicitaria e sufficientemente ricchi di capitale simbolico per essere un’autorità. I giornali di riflessione sono apparsi, alla fine del 1800, come reazione ai giornali a forte tiratura, rivolti al grande pubblico e alla ricerca di effetti sensazionali, che hanno sempre suscitato paura o disgusto nei lettori colti. L’emergere di quel medium di massa per eccellenza che è la televisione non è un fenomeno senza precedenti, se non per la sua ampiezza.
Una forza di banalizzazione.
Grazie alla sua forma di diffusione, la televisione pone all’universo del giornalismo scritto e all’universo culturale in genere un problema assolutamente terribile. Per la sua ampiezza, per il peso assolutamente straordinario che ha assunto, la televisione produce effetti che, pur non essendo senza precedenti, restano comunque del tutto inediti. Per esempio, la televisione può radunare in una sola sera, di fronte al TG delle 20, più spettatori di tutti i quotidiani del mattino e della sera messi insieme. Se l’informazione fornita da un medium del genere diviene un’informazione per tutti, senza difficoltà, omogeneizzata, è facile vedere gli effetti politici e culturali che possono prodursi. Più un mezzo d’espressione qualsiasi vuole raggiungere un pubblico vasto, più deve lasciar cadere ogni difficoltà, tutto ciò che può dividere, escludere, più deve sforzarsi di non urtare nessuno, di non sollevare mai problemi, o di sollevare problemi senza storia. Si costruisce l’oggetto conformemente alle categorie conoscitive del recettore. È appunto per questo che tutto il lavoro collettivo che ho descritto come tendente ad omogeneizzare e a banalizzare, a conformizzare e depoliticizzare, riesce perfettamente adatto, sebbene nessuno ne sia il soggetto, sebbene non sia mai stato pensato e voluto da nessuno. In questo, la critica semplicistica è pericolosa, in quanto libera da tutto il lavoro necessario per capire un fenomeno come il fatto che, senza che nessuno l’abbia voluto veramente, si arrivi a quel prodotto stranissimo che è il telegiornale, che va bene a tutti, che conferma cose già note, e soprattutto che lascia intatte le strutture mentali. Ci sono rivoluzioni che investono le basi materiali di una società e rivoluzioni simboliche, che investono le strutture mentali, che cambiano cioè i nostri modi di vedere e di pensare. Se uno strumento con una potenza paragonabile a quella della televisione si orientasse anche minimamente verso una rivoluzione simbolica, vi assicuro che ci si affretterebbe a fermarlo! Ora, si dà il caso che, grazie alla sola logica della concorrenza, e ai meccanismi sopra menzionati, la televisione non faccia nulla di simile, senza che nessuno abbia bisogno di chiederlo. La televisione è in perfetta sintonia con le strutture mentali del pubblico. Potrei menzionare a tale proposito il moralismo della televisione, che andrebbe analizzato in questa logica. Con i buoni sentimenti si fa audience. Varrebbe la pena riflettere sul moralismo dei professionisti della televisione: spesso impassibili, fanno discorsi di un conformismo morale assolutamente sorprendente. Essi sono divenuti piccoli direttori di coscienza che si fanno, senza forzare troppo le cose, i portavoce di una morale tipicamente piccolo-borghese, che dicono cosa si deve pensare di quelli che chiamano i 'problemi della società'. Lo stesso discorso vale per il campo dell’arte e della letteratura: le trasmissioni più note tra quelle che si dicono letterarie sono al servizio, e in modo sempre più servile, dei valori stabiliti, del conformismo e dell’accademismo, se non dei valori di mercato. Il campo giornalistico deve la propria importanza nel mondo sociale al fatto che detiene un monopolio effettivo sugli strumenti di produzione e di diffusione su vasta scala dell’informazione, e, attraverso questi strumenti, sull’ingresso dei semplici cittadini (come pure degli altri produttori culturali) allo spazio pubblico, alla grande diffusione. I giornalisti esercitano una forma molto rara di dominazione: hanno il potere sui mezzi usati per esprimersi pubblicamente, per esistere pubblicamente, per essere conosciuti, per accedere alla pubblica notorietà, cosa che, per gli uomini politici e per certi intellettuali, rappresenta un obiettivo irrinunciabile, tale da portare i giornalisti stessi ad essere oggetto di una considerazione spesso sproporzionata ai loro meriti intellettuali. Ed essi possono volgere una parte di questo potere di consacrazione a proprio vantaggio. Ma soprattutto, avendo la possibilità di accedere in qualsiasi momento alla visibilità pubblica, all’espressione su grande scala, i giornalisti possono imporre all’insieme della società i loro principi di visione del mondo, la loro problematica, il loro punto di vista. Non c’è discorso né azione che, per divenire oggetto di pubblico dibattito, non debba sottoporsi a questa prova della selezione giornalistica, cioè a quella formidabile censura che i giornalisti esercitano, senza neppure rendersene conto, semplicemente soffermandosi soltanto su ciò che è in grado di interessarli, e respingendo nell’insignificanza o nell’indifferenza espressioni simboliche che meriterebbero di raggiungere l’insieme dei cittadini. Altra conseguenza, più difficile da cogliere, della crescita del peso relativo della televisione nello spazio dei mezzi di diffusione, e del peso del vincolo commerciale su questa televisione dominante: il passaggio da una politica di azione culturale attraverso la televisione ad una sorta di demagogia (= mantenere il potere illudendo il popolo con promesse di soddisfare i suoi desideri e le sue aspirazioni) spontaneista.
 la televisione degli anni 50 si presentava come culturale e si serviva in qualche modo del proprio monopolio per imporre a tutti prodotti che avevano pretese culturali e per formare i gusti del grande pubblico
 la televisione degli anni 90 mira a sfruttare questi gusti per raggiungere l’audience più ampia offrendo ai telespettatori prodotti grezzi, che hanno come loro modello il talk show, scene di vita, esibizioni senza veli di esperienze vissute, spesso estreme e tali da soddisfare una sorte di esibizionismo (come d’altra parte i giochi televisivi, cui si arde di partecipare, anche da semplici spettatori, per ottenere un attimo di visibilità)
Detto questo, non condivido la nostalgia di alcuni per la televisione pedagogico-paternalista dal passato e penso che essa, non meno dello spontaneismo populista e della sottomissione demagogica ai gusti popolari, si opponga ad un uso realmente democratico dei mezzi di diffusione su grande scala.
Sulle lotte arbitrarie dell’auditel.
Occorre quindi andare al di là delle apparenze, di ciò che si mostra sulla scena e persino della concorrenza che si esercita all’interno del campo giornalistico per giungere sino ai rapporti di forza fra i diversi organi. Bisogna comprendere la posizione degli organi di stampa di cui i giornalisti sono i rappresentanti nello spazio giornalistico, e anche la posizione da essi occupata all’interno di tali organi. Questi vincoli legati alla posizione vengono vissuti come divieti o ordini etici. Tutte queste esperienze, enunciate sotto forma di precetti etici, sono la ritraduzione della struttura del campo attraverso una persona che occupa una certa posizione nello spazio giornalistico. In un campo, i diversi protagonisti hanno spesso rappresentazioni polemiche degli altri agenti con i quali sono in concorrenza: essi producono nei loro confronti stereotipi, insulti. Queste rappresentazioni sono spesso strategie di lotta che prendono atto del rapporto di forza e mirano a trasformarlo o a conservarlo. Attualmente, fra i giornalisti della stampa scritta si vede sviluppare un discorso molto critico nei confronti della televisione. Di fatto, tali rappresentazioni sono prese di posizione in cui si esprime essenzialmente la posizione di chi le esprime; ma, contemporaneamente, sono strategie che mirano a trasformare la posizione. Oggi, nell’ambiente giornalistico, la lotta sulla televisione è centrale, cosa che rende molto difficile studiare la televisione stessa. Una parte del discorso che si spaccia per scientifico sulla televisione non è altro che la registrazione di quel che gli uomini della televisione dicono di essa. Detto ciò, si hanno indizi concordanti sull’arretramento progressivo del giornalismo della carta stampata rispetto alla televisione:
 il fatto che lo spazio occupato dal supplemento televisivo non cessi di aumentare in tutti i quotidiani
 il fatto che i giornalisti attribuiscono un’enorme importanza all’essere citati dalla televisione (e anche all’essere visti in televisione, cosa che contribuisce ad aumentare il loro prestigio all’interno del giornale di appartenenza; capita addirittura che certi giornalisti televisivi raggiungano posizioni molto importanti nella stampa scritta, rimettendo con ciò in discussione la specificità stessa della scrittura, del mestiere)
 il fatto che l’agenda (termine che designa ciò di cui si deve parlare) sia sempre più definita dalla televisione (nella circolazione circolare dell’informazione il peso della televisione è determinante, e se accade che un tema venga lanciato dai giornalisti della stampa scritta, esso diviene centrale solo quando è stato ripreso dalla televisione, venendo investito di un’efficacia politica)
La posizione dei giornalisti della stampa scritta viene così ad essere minacciata, e la specificità della professione chiamata in causa. Ma la cosa più importante è che, attraverso l’aumento del peso simbolico della televisione, sia una certa visione dell’informazione, sino a quel momento relegata nei giornali detti scandalistici (orientati sullo sport e i fatti di cronaca) che tende ad imporsi nell’insieme del campo giornalistico. Ed è, contemporaneamente, una certa categoria di giornalisti, assunti a grandi spese per la loro capacità di aderire senza scrupoli alle attese del pubblico meno esigente (quindi i più indifferenti ad ogni forma di morale e, a maggior ragione, ad ogni sensibilità politica) che tende ad imporre i suoi 'valori' all’insieme dei giornalisti. Spinti dalla concorrenza per la conquista delle quote di mercato, le reti televisive ricorrono sempre più ai vecchi trucchi dei giornali scandalistici, dando il maggior rilievo, se non l’esclusiva, ai fatti di cronaca e allo sport: capita sempre più spesso che, indipendentemente da ciò che è accaduto nel mondo, i titoli di apertura dei TG siano dedicati ai risultati di qualche avvenimento sportivo o all’aspetto più aneddotico e ritualizzato della vita politica, per non parlare delle catastrofi naturali, degli incidenti, insomma di tutto ciò che può suscitare un interesse di pura curiosità, e che non richiede alcuna competenza specifica preliminare, soprattutto politica. I fatti di cronaca hanno l’effetto di creare il vuoto politico, di spoliticizzare e di ridurre la vita del mondo all’aneddoto e al pettegolezzo, concentrando l’attenzione su eventi privi di conseguenze politiche, che vengono drammatizzati per trarne una lezione o per trasformarli in problemi di società; è a questo punto che, molto spesso, vengono chiamati alla riscossa i filosofi da televisione, per ridare senso all’insignificante, all’aneddotico e all’accidentale, che si è artificialmente portato in primo piano e costituito in evento. E la stessa ricerca del sensazionale, quindi del successo commerciale, può anche portare a selezionare fatti di cronaca che, abbandonati alle costruzioni selvagge della demagogia, possono suscitare un immenso interesse lusingando le pulsioni e le passioni più elementari, e persino forme di mobilitazione puramente sentimentali e caritatevoli, o altrettanto passionali, ma aggressive e vicine al linciaggio simbolico. Ne segue che oggi i giornalisti della stampa scritta si trovano di fronte ad una scelta:
 andare nel senso del modello dominante, in altre parole fare giornali che siano quasi-telegiornali
 accentuare la differenza, seguire una strategia di differenziazione del prodotto
Entrare in concorrenza, con il rischio di perdere su entrambi i fronti, di perdere anche il pubblico che si raggiungerebbe restando fedeli alla definizione rigorosa del messaggio culturale, o accentuare la differenza?? Il problema si pone anche all’interno del campo televisivo. Allo stato attuale, penso che, inconsciamente, i responsabili, vittime della mentalità auditel, non scelgano veramente. Si riscontra così, molto regolarmente, che le grandi scelte sociali non sono fatte da nessuno; mentre ci si dovrebbe costringere a portare alla coscienza cose che si preferirebbe restassero inconscie. Penso che la tendenza generale porti gli organi di produzione culturale vecchio stampo a perdere la propria specificità, per scendere su un terreno in cui saranno battuti comunque. Il campo del giornalismo ha una particolarità: è molto più dipendente dalle forze esterne di tutti gli altri campi di produzione culturale. Esso dipende in modo molto diretto dalla domanda, è sottoposto all’approvazione del mercato, dell’approvazione generale. L’alternativa puro/commerciale, che si riscontra in tutti i campi, si impone con una brutalità particolare nel campo giornalistico, dove il peso del polo commerciale appare particolarmente forte. Ma in più non si trova, nell’universo giornalistico, l’equivalente di quanto si osserva nell’universo scientifico; per esempio, non si riscontra quella sorta di giustizia immanente per la quale colui che viola certi divieti è bruciato o, al contrario, chi si conforma alle regole del gioco si attira la stima dei suoi pari (manifestata, per esempio, sotto forma di citazioni, di riferimenti). Nel giornalismo, dove sono le sanzioni, positive o negative?? L’unico barlume di critica è dato dai programmi satirici. Quanto alle ricompense, ci sono forse solo le riprese (il fatto di essere citati, ripresi da un altro giornalista), ma si tratta di un indizio raro e ambiguo.
Il potere della televisione.
L’universo del giornalismo è un campo tutto eteronomo (= condizione di un individuo o di una collettività, per la quale leggi e regole di condotta sono ricevute dall'esterno e non scaturiscono dalla consapevolezza e volontà di chi vi si sottopone), molto fortemente sottomesso ai vincoli commerciali, che costituisce a sua volta un vincolo per tutti gli altri campi, in quanto struttura. Tale effetto strutturale, oggettivo, anonimo, invisibile, non ha nulla a che vedere con quel che si vede direttamente, con ciò che comunemente si denuncia, cioè con l’intervento dell’una o dell’altra personalità. Non ci si deve accontentare di denunciare responsabili. In linea generale, i critici se la prendono con persone. Ora, uomini e donne hanno sì responsabilità specifiche, ma le loro possibilità e impossibilità sono strettamente limitate dalla struttura in cui essi si collocano, e anche dalla posizione che occupano all’interno di essa. Occorre comprendere che essi sono soltanto l’espressione di un campo; non si capisce nulla se non si capisce il campo in generale, che conferisce loro una piccola forza. Tutto ciò è importante per ridimensionare l’analisi e anche per orientare razionalmente l’azione. I giornalisti che possono sentirsi presi a oggetto, se ascoltano bene le mie parole, saranno indotti a dirsi (almeno lo spero) che, chiarendo cose che sanno confusamente ma che non vogliono sapere troppo, offro loro strumenti di libertà per dominare i meccanismi descritti. Di fatto, all’interno del giornalismo, è possibile pensare ad alleanze che scavalchino i singoli giornali e tali da permettere di neutralizzare alcuni effetti della concorrenza. Se i meccanismi strutturali che generano le infrazioni alla morale divenissero coscienti, un’azione cosciente tesa a controllarli diventerebbe possibile. Penso quindi che attualmente tutti i campi di produzione culturale siano sottoposti al vincolo strutturale del campo giornalistico, e non dell’uno o dell’altro giornalista, persone a loro volta scavalcate dalle forze del campo. In ciascun campo ci sono dominanti e dominati secondo i valori interni del campo stesso: un buono storico è qualcuno che i buoni storici definiscono un buono storico. La cosa è necessariamente circolare; ma l’eteronomia comincia quando qualcuno che non è un matematico può intervenire per dare il proprio parere sui matematici, e viene ascoltato. Ora, i media intervengono continuamente per pronunciare verdetti. Ma i giornali intervengono anche per porre problemi che vengono immediatamente ripresi dagli intellettuali-giornalisti. L’antintellettualismo, che è una costante strutturale del mondo giornalistico, porta per esempio i giornalisti a sollevare periodicamente il problema degli errori degli intellettuali o a organizzare dibattiti che possono mobilitare solo gli intellettuali-giornalisti e che spesso servono soltanto a permettere a questi intellettuali da televisione di esistere mediaticamente aprendosi una corsia privilegiata. Tali interventi esterni costituiscono una grave minaccia in primo luogo perché possono ingannare i profani, che malgrado tutto hanno un loro peso, nella misura in cui i produttori culturali hanno bisogno di ascoltatori. Con la tendenza dei media a celebrare i prodotti commerciali destinati a figurare nello loro best sellers lists (= elenchi dei pezzi più venduti), come accade oggi, e a far agire la logica dei favori reciproci tra scrittori-giornalisti e giornalisti-scrittori, i giovani autori minori avranno difficoltà sempre maggiori a pubblicare.

Il collaborazionismo.
Ma le forze e le manipolazioni giornalistiche possono agire anche, in modo più sottile, introducendo negli universi autonomi certi produttori eteronomi che, con l’appoggio delle forze esterne, riceveranno una consacrazione che non potrebbero ottenere dai loro pari. Questi scrittori per non scrittori, questi filosofi per non filosofi, .. avranno una quotazione televisiva, un peso giornalistico assolutamente sproporzionato al peso specifico di cui godono nel loro universo specifico. La televisione offre loro una forma di riconoscimento che, sino a ieri, equivaleva piuttosto ad una degradazione. Oggi, il mutamento del rapporto di forze tra i campi è tale che, sempre più, i criteri di valutazione esterni (l’invito alle trasmissione televisive, la consacrazione sui settimanali a forte tiratura, i ritratti alla televisione) si impongono contro il giudizio dei propri pari. Sarebbe importante che la presa di coscienza di tutti i meccanismi sinora descritti portasse a sforzi collettivi di proteggere l’autonomia, che è la condizione del progresso scientifico, dal potere in continuo aumento della televisione. Perché possa esercitarsi su universi come quello scientifico, la pressione del potere dei media deve trovare complicità nel campo considerato. Oggigiorno si è portati a dubitare veramente dell’autonomia soggettiva degli scrittori, degli artisti e degli uomini di scienza. Occorre prendere atto di questa dipendenza e soprattutto tentare di capirne le ragioni, le cause. Occorre tentare di capire che è che 'collabora'. Più le persone sono riconosciute dai loro pari, quindi ricche di valore specifico, più sono portate a resistere; viceversa, più sono eteronome nelle loro pratiche, cioè attratte dal lato commerciale, più sono inclini a collaborare. Un campo molto autonomo, quello delle matematiche ad esempio, è un campo in cui i produttori non hanno altri clienti se non i loro concorrenti, coloro che avrebbero potuto fare al loro posto la scoperta che si vedono presentare. Per conquistare l’autonomia, occorre costruire una specie di torre d’avorio all’interno della quale ci si giudica, ci si critica, ci si combatte persino, ma con consapevolezza; ci si scontra, ma con armi, strumenti scientifici, tecniche, metodi. Occorre aver raggiunto un alto grado di accordo sul terreno di disaccordo e sui mezzi per regolarlo perché si abbia un vero dibattito scientifico, tale da poter produrre come esito un vero accordo o un vero disaccordo scientifico. Ci si stupisce a volte nel constatare che, alla televisione, gli storici non sono sempre d’accordo tra loro: sfugge il fatto che, molto spesso, queste discussioni oppongono persone che non hanno nulla in comune e che non dovrebbero parlare insieme. Citando la legge di Ždanov: più un produttore culturale è autonomo, ricco di valore specifico ed esclusivamente orientato verso il mercato ristretto sul quale come clienti ha solo i suoi stessi concorrenti, più sarà portato a resistere; più, al contrario, indirizza i suoi prodotti al mercato della grande produzione, più sarà incline a collaborare con i poteri esterni (stato, chiesa, partito e, oggi, giornalismo e televisione) sottomettendosi alle loro richieste o ai loro ordini. Certamente non condanno a priori ogni forma di collaborazione con i giornali, la radio o la televisione. Se i campi scientifici, politici, letterari sono minacciati dall’influenza dei media, ciò dipende dal fatto che all’interno di tali campi esistono individui eteronomi, poco accreditati dal punto di vista dei valori specifici del campo, dei falliti o gente comunque votata al fallimento, che hanno tutto l’interesse a rimanere eteronomi, a cercare all’esterno una consacrazione (rapida, precoce, prematura e fragile) che non sono riusciti ad ottenere all’interno del loro campo; costoro, per di più, saranno particolarmente ben visti dai giornalisti in quanto non fanno loro paura e sono pronti a tener conto delle loro esigenze. Attraverso i media, che agiscono come strumento d’informazione mobilizzante, può instaurarsi una forma perversa di democrazia diretta che annulla la distanza nei confronti dell’urgenza, della pressione delle passioni collettive, non necessariamente democratiche, una distanza che viene normalmente garantita dalla logica relativamente autonoma del campo politico. Succede così che i giornalisti, non essendo in grado di mantenere la distanza necessaria alla riflessione, assumano il ruolo del pompiere incendiario: possono contribuire a creare l’evento, mettendo in rilievo un fatto di cronaca per poi denunciare quanti gettano olio sul fuoco che essi stessi hanno appiccato.
Diritto d’ingresso e dovere di uscita.
Vorrei ora spendere qualche parola sul problema dei rapporti fra essoterismo ed elitismo. È un problema sul quale si sono soffermati tutti i pensatori, a partire dal 1800. Come conciliare quell’esigenza di purezza che è inerente a qualsiasi tipo di lavoro scientifico o intellettuale, e che porta all’esoterismo, con il desiderio democratico di rendere i risultati raggiunti accessibili ai più?? La televisione produce 2 effetti:
 da una parte, riduce il pedaggio, il diritto d’ingresso in un certo numero di campi (filosofico, giuridico, ..): può promuovere a sociologi, scrittori, filosofi, .. persone che non hanno pagato la tassa d’ingresso dal punto di vista della definizione interna della professione
 dall’altra, ha la possibilità di raggiungere la maggioranza della popolazione
La cosa che mi pare difficile da giustificare è che si tragga pretesto dall’estensione dell’audience per abbassare il diritto d’ingresso nel campo considerato. Per sottrarsi all’alternativa fra elitismo e demagogia, occorre difendere ad un tempo il mantenimento e persino l’innalzamento della tassa d’ingresso nei campi di produzione e il rafforzamento del dovere di uscita, accompagnato da un miglioramento delle condizioni e dei mezzi d’uscita. La minaccia del livellamento può provenire dall’intrusione delle esigenze mediatiche nei campi di produzione culturale. Occorre difendere le condizioni di produzione che sono necessarie per far progredire l’universale e, contemporaneamente, occorre lavorare per generalizzare le condizioni di accesso all’universale, per fare in modo che un numero sempre maggiore di persone raggiunga le condizioni necessarie ad appropriarsi dell’universale. Più un’idea è complessa, in quanto è stata prodotta in una universo autonomo, più la restituzione di essa è difficile. Per superare la difficoltà, occorre che i produttori chiusi nella loro piccola rocca sappiano uscirne e lottare, collettivamente, per avere buone condizioni di diffusione, e che lottino inoltre, stabilendo un collegamento con gli insegnanti, i sindacati, le associazioni, .. perché i ricettori ricevano un’educazione tesa ad elevare il loro livello di ricezione. Occorre lavorare all’universalizzazione delle condizioni d’accesso all’universale. Si deve lottare contro l’auditel in nome della democrazia. La cosa può sembrare del tutto paradossale perché quanti difendono il regno dell’auditel pensano che non vi sia nulla di più democratico, che occorra lasciare alla gente la libertà di giudicare, di scegliere. La televisione governata dall’auditel contribuisce a far pesare sul consumatore, presunto libero e illuminato, i vincoli del mercato, che non hanno nulla a che vedere con l’espressione democratica di un’opinione pubblica. I pensatori critici e le organizzazioni che hanno il compito di esprimere gli interessi dei dominati sono ancora molto lontani dal considerare chiaramente questo problema, e ciò contribuisce non poco a rafforzare tutti i meccanismi descritti.

L'influenza del giornalismo

Il tema di questo intervento è l’influenza che i meccanismi di un campo giornalistico, sempre più sottoposto alle esigenze di mercato, esercitano innanzi tutto sui giornalisti e, in secondo luogo, sui diversi campi di produzione culturale, giuridico, letterario, artistico e scientifico. Il grado di autonomia di un organo di diffusione si misura:
1 sulla quota dei guadagni che provengono dalla pubblicità e dal contributo dello stato
2 sul grado di autonomia di un singolo giornalista che dipende da:
- il grado di concentrazione della stampa
- la sua posizione nel giornale
- la sua capacità di produzione autonoma dell’informazione
- la sua posizione più o meno vicina al polo intellettuale o commerciale del suo giornale
Come in campo politico ed economico, il campo giornalistico è sottoposto continuamente alla prova delle risposte del mercato, attraverso la sanzione diretta della clientela o quella indiretta dell’auditel. I giornalisti sono tanto più inclini ad adottare il criterio auditel nella produzione o nella valutazione dei prodotti e persino dei produttori, quanto più è elevata la posizione che occupano in un organo più direttamente legato al mercato (es: una rete televisiva commerciale). Mentre i giornalisti più giovani e meno inseriti sono più inclini a opporre i principi e i valori del mestiere alle esigenze più realiste e indifferenti degli anziani.

martedì 10 maggio 2011

SCENA E RETROSCENA - SULLA TELEVISIONE di Bourdieu


Le condizioni in cui normalmente si è portati a parlare in televisione sono:

a. il tempo è limitato

b. l’argomento del discorso è imposto

c. c’è sempre un presentatore che richiama all’ordine, in nome della tecnica, del 'pubblico-che-non-ci-capirà-nulla', della morale, delle buone maniere, ..

Ma allora perché, in queste condizioni, tanti accettano di partecipare alle trasmissioni televisive?? È una domanda molto importante, eppure la maggior parte di coloro che accettano di partecipare (ricercatori, scienziati, scrittori, giornalisti) non se la pongono. Credo che, accettando di partecipare senza preoccuparsi troppo di sapere se si potrà dire qualcosa, si lasci molto chiaramente filtrare che non si è lì per dire qualcosa, ma per essere visti; per essere ben visti (cosa che implica una quantità di compromessi). E, non potendo contare troppo sulla propria opera per resistere nella continuità, costoro non hanno altra risorsa se non quella di apparire con la massima frequenza possibile sullo schermo. Ecco perché lo schermo televisivo è divenuto oggi una sorta di specchio di Narciso, un luogo di esibizione narcisistica. Mi piacerebbe molto che costoro affrontassero il problema collettivamente, e che tentassero di avviare un negoziato con i giornalisti, fino a stipulare una sorta di contratto. Non si tratta di condannare i giornalisti, spesso i primi a soffrire delle condizioni che sono costretti ad imporre; si tratta piuttosto di renderli partecipi di una riflessione destinata a trovare i modi di superare in comune le minacce di strumentalizzazione. Il partito preso del rifiuto puro e semplice di esprimersi in televisione mi sembra indifendibile; penso anzi che, in alcuni casi, ci possa essere una sorta di dovere di farlo, sempre che le condizioni siano ragionevoli. E per orientare la scelta occorre tener conto della specificità dello strumento televisivo: con la televisione si ha a che fare con uno strumento che dà la possibilità di raggiungere un po’ tutti. La cosa pone un certo numero di problemi preliminari: quello che ho da dire è destinato a raggiungere tutti?? Sono davvero pronto a fare in modo che il mio discorso, per la forma in cui si presenta, possa essere capito da tutti?? Merita di essere capito da tutti?? Deve essere capito da tutti?? Se gli uomini di scienza hanno una missione, è quella di restituire all’umanità tutte le acquisizioni della ricerca. Vorrei che tutti coloro che sono invitati a comparire in televisione si ponessero queste domande, o che fossero costretti a porsele, perché i telespettatori, i critici televisivi, se le pongono e le pongono a proposito delle loro apparizioni sul piccolo schermo.

Una censura invisibile.

L’accesso alla televisione ha come contropartita una fortissima censura, una perdita di autonomia legata, tra l’altro, al fatto che l’argomento è imposto, che le condizioni della comunicazione sono imposte e soprattutto che la limitazione del tempo impone al discorso vincoli tali da rendere davvero minime le probabilità che qualcosa possa essere detto. Ora, è vero che si dà un controllo politico (esercitato soprattutto attraverso determinate nomine ai vertici), ed è vero anche che, al giorno d’oggi, in un periodo nel quale si ha un intero esercito di riserva e un’enorme precarietà di impiego nelle professioni legate alla televisione, l’inclinazione al conformismo politico è maggiore. Gli individui si adeguano per una forma conscia o inconscia di autocensura, senza che ci sia bisogno di richiamarli all’ordine. Ma si può pensare anche alle censure economiche (chi è il proprietario della rete, chi sono gli sponsor che pagano la pubblicità, lo stato che concede sovvenzioni, ..): è vero infatti che, in ultima analisi, a pesare sulla televisione è soprattutto il vincolo economico. Sono cose talmente grossolane e ovvie che non sfuggono alla critica più elementare, eppure nascondono i meccanismi autonomi, invisibili, attraverso i quali si esercitano le censure di ogni genere e grado che fanno della televisione un fortissimo strumento di rafforzamento dell’ordine simbolico. La denuncia degli scandali dell’uno o dell’altro presentatore, o dei guadagni esorbitanti di certi produttori, contribuisce a distogliere l’attenzione dall’essenziale, nella misura in cui la corruzione delle persone maschera quella sorta di corruzione strutturale che si esercita sull’insieme del gioco attraverso meccanismi quali la concorrenza per le quote di mercato. Vorrei quindi smontare una serie di meccanismi per i quali la televisione esercita una forma particolarmente dannosa di violenza simbolica. La violenza simbolica è una violenza che si esercita con la complicità tacita di coloro che la subiscono e, spesso, anche di coloro che la esercitano, nella misura in cui gli uni e gli altri non sono consapevoli di esercitarla o di subirla. La sociologia può contribuire ad attenuare la violenza simbolica che si esercita nei rapporti di comunicazione mediatica. Cominciamo dal più facile: i fatti di cronaca, che sono sempre stati il materiale privilegiato della stampa scandalistica, alla ricerca del sensazionale; hanno sempre fatto vendere, e il dominio dell’auditel ha riportato alla ribalta, nei titoli dei TG, proprio questi ingredienti, che il timore di decoro imposto dal modello della stampa scritta seria aveva sino a poco fa indotto a relegare ai margini o ad evitare del tutto. Ma i fatti di cronaca sono anche fatti che operano una svolta: una parte dell’azione simbolica della televisione, a livello dei programmi d’informazione, per esempio, consiste nell’attirare l’attenzione su fatti di natura tale da interessare tutti; fatti che non devono turbare nessuno, non sono oggetto di controversia, non dividono, suscitano il consenso, interessano tutti, ma in modo tale da non toccare nulla d’importante. Il fatto di cronaca è una specie di materia prima elementare dell’informazione, una cosa molto importante perché porta via tempo, un tempo che potrebbe essere impiegato per dire altro. Ora, il tempo è una materia prima estremamente rara alla televisione e se si impiegano minuti tanto preziosi per dire cose tanto futili, ciò dipende dal fatto che queste cose tanto futili sono in realtà molto importanti, nella misura in cui nascondono cose preziose. Bisogna ricordare che vi è un gran numero di persone che non leggono alcun quotidiano, che sono legate anima e corpo alla televisione come unica fonte d’informazione: la televisione ha una sorta di monopolio di fatto sulla formazione dei cervelli di una parte consistente della popolazione. Ora, ponendo l’accento sui fatti di cronaca, riempiendo di vuoto questo tempo raro, si occultano le informazioni pertinenti che il cittadino dovrebbe possedere per esercitare i propri diritti democratici. Con questo sistema ci si orienta vero una divisione, in materia d’informazione, tra

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coloro che possono leggere i quotidiani coloro che hanno come unico bagaglio politico l’informazione

considerati seri, sempre che questi ultimi fornita dalla televisione, nulla o quasi nulla

restino tali resistendo alla concorrenza

della televisione; coloro che hanno l’opportunità di ricorrere alla stampa internazionale, alle catene radiofoniche in lingua straniera

Nascondere mostrando.

Mostriamo ora come la televisione possa, paradossalmente, occultare mostrando, mostrando altro da ciò che si dovrebbe mostrare se si facesse ciò che si è chiamati a fare, cioè informare; oppure anche mostrando ciò che si deve mostrare, ma in modo da non farlo affatto, o da renderlo insignificante, o costruendolo in modo tale da attribuirgli un senso che non corrisponde in nessun modo alla realtà. I giornalisti hanno 'occhiali speciali' attraverso i quali vedono certe cose e non altre; e vedono in un certo modo le cose che vedono. Operano una selezione e una costruzione di ciò che viene selezionato. Il principio di selezione è la ricerca del sensazionale, dello spettacolare. La televisione invita alla drammatizzazione, nel doppio senso del termine:

§ mette in scena, in immagini, un evento e

§ ne amplifica l’importanza, la gravità, nonché il carattere drammatico, tragico

Lo stesso lavoro si fa sulle parole: con quelle comuni non si può sperare di far colpo sulla gente, per questo occorrono parole straordinarie. In effetti, paradossalmente, il mondo dell’immagine è dominato dalle parole: la foto non è nulla senza la didascalia che dice cosa si deve leggere (e ciò corrisponde spesso a leggende vere e proprie, che fanno vedere ciò che vogliono). Nominare equivale a creare e le parole possono avere effetti catastrofici. I presentatori spesso parlano alla leggera, senza avere la minima idea della difficoltà e della gravità di ciò di cui parlano e delle responsabilità che assumono parlandone, di fronte a migliaia di telespettatori, senza capire e senza capire che non capiscono. Perché queste parole si trasformano in cose, creano fantasmi, paure, fobie o, semplicemente, rappresentazioni false. I giornalisti si interessano dell’eccezionale, ma di ciò che è eccezionale per loro. Ma lo straordinario è anche ciò che non è ordinario in rapporto agli altri giornali. È una necessità terribile: quella imposta dalla corsa allo scoop. Per essere i primi a far vedere qualcosa, si è pronti più o meno a tutto, e siccome ci si copia a vicenda per anticipare gli altri, o per distinguersi da loro, si finisce per fare tutti la stessa cosa: la ricerca dell’esclusiva, che, in altri campi, produce l’originalità, si risolve qui nell’uniformazione e nella banalizzazione. Questa ricerca interessata, accanita, dello straordinario, può avere, al pari delle pressioni direttamente politiche o delle autocensure imposte dal timore dell’esclusione, effetti politici. Avendo a disposizione la forza eccezionale propria dell’immagine televisiva, i giornalisti possono produrre effetti ineguagliabili. I pericoli politici inerenti all’uso ordinario della televisione derivano dal fatto che l’immagine ha questo di specifico: può produrre l’effetto di realtà, può far vedere e far credere a ciò che fa vedere, può far esistere idee o rappresentazioni, ma anche gruppi. I fatti di cronaca possono essere investiti di implicazioni politiche, etiche, .. capaci di suscitare sentimenti forti, spesso negativi, come il razzismo, la xenofobia, l’odio-terrore dello straniero; e la semplice cronaca, il fatto di riferire, implica sempre una costruzione sociale della realtà capace di esercitare effetti sociali di mobilitazione. Ci sono poi momenti in cui i giornalisti, in perfetta buona fede, in tutta ingenuità, lasciandosi trascinare dai loro interessi e dai loro presupposti, possono produrre effetti di realtà e effetti nella realtà, effetti che, pur non essendo voluti da nessuno, possono risultare catastrofici. Così la televisione che pretende di essere uno strumento di registrazione diviene strumento di creazione della realtà. Ci si avvicina sempre più a universi in cui il mondo sociale è descritto-prescritto dalla televisione. Sulla scala degli scambi quotidiani come su quella globale, le lotte politiche mirano ad acquisire la capacità di imporre principi di visione del mondo, occhiali tali che la gente veda il mondo secondo certe visioni. Quanti continuano a credere che sia sufficiente manifestare, senza tener conto della televisione, rischiano di mancare il loro obiettivo: solo riprese e amplificate dalla televisione, le manifestazioni assumeranno la loro piena efficacia.

La circolazione circolare dell’informazione.

Il giornalista è un’entità astratta che non esiste; ad esistere sono piuttosto giornalisti diversi per età, sesso, livello d’istruzione, giornale d’appartenenza, medium, .. Il mondo dei giornalisti è un mondo diviso, traversato da conflitti, concorrenze, ostilità. In ogni caso, i prodotti giornalistici sono molto più omogenei di quanto non si creda. Le differenza più evidenti, legate in particolare alla colorazione politica dei giornali (che si fanno sempre meno coloriti), nascondono somiglianze profonde, legate soprattutto ai vincoli imposti dalle fonti e da tutta una serie di meccanismi, il più importante dei quali rimane la logica della concorrenza. Si dice continuamente che il monopolio produce uniformazione e la concorrenza diversifica. Ma, quando essa si esercita tra giornalisti o giornali sottoposti agli stessi vincoli, la concorrenza produce omogeneità. Così, nei TG delle reti a grande diffusione, cambia, nel meglio o nel peggio, solo l’ordine delle informazioni. Ciò dipende in parte dal fatto che la produzione è collettiva; ma il collettivo di cui i messaggi televisivi sono il prodotto non si riduce al gruppo costituito da una redazione, comprende piuttosto l’insieme dei giornalisti. Diciamo molte meno cose originali di quanto non crediamo. E ciò è particolarmente vero in universi nei quali i vincoli collettivi sono molto forti, quelli della concorrenza soprattutto, nella misura in cui ciascuno dei produttori è indotto a fare cose che non farebbe se gli altri non esistessero (quelle che fa, ad esempio, per arrivare prima degli altri). Per i giornalisti, la lettura dei giornali è un’attività indispensabile e la rassegna stampa uno strumento di lavoro: per sapere cosa dire, occorre sapere cos’hanno detto gli altri: è questo uno dei meccanismi attraverso i quali si genera l’omogeneità dei prodotti proposti. Le piccole differenze, cui, soggettivamente, i diversi giornalisti attribuiscono tanta importanza, mascherano somiglianze enormi. Questa sorta di gioco di specchi che si riflettono a vicenda produce un fortissimo effetto di chiusura mentale. Differenze assolutamente impercettibili per lo spettatore medio, che potrebbe percepirle solo se guardasse contemporaneamente diverse reti, differenze che restano quindi inavvertite, sono molto importanti dal punto di vista dei produttori, i quali pensano che, venendo percepite, contribuiscano al successo in termini di auditel. Le scelte che si operano alla televisione sono in qualche modo scelte senza soggetto: per spiegare questa proposizione riporterò semplicemente gli effetti del meccanismo di circolazione circolare. Il fatto che i giornalisti, i quali peraltro hanno molti elementi comuni, di condizione, ma anche di origine e di formazione, si leggano tra loro, si incontrino continuamente tra loro nei dibattiti, dove si vedono sempre le stesse facce, produce effetti di chiusura e di censura non meno efficaci (anzi, più efficaci ancora, dal momento che il principio riesce meno visibile) di quelli di un intervento politico esplicito. Per rompere il cerchio occorre procedere per rottura, ma la rottura può essere solo mediatica; occorre riuscire a fare un colpo che interessi i media, o almeno uno di essi, perché la concorrenza provvederà a farlo riprendere dagli altri. Se ci si chiedesse come siano informati gli individui che sono incaricati di informarci, si scoprirebbe che, in linea di massima, sono informati da altri informatori. Certo, ci sono le agenzie, le fonti ufficiali, con le quali i giornalisti sono tenuti a mantenere rapporti di scambio molto complessi; ma la parte determinante di quell’informazione sull’informazione che permette di decidere cosa sia importante, deriva in gran parte da altri informatori. E ciò porta ad una sorta di livellamento, di omogeneizzazione delle gerarchie d’importanza. Non dobbiamo rappresentarci l’ambiente giornalistico come omogeneo: ci sono i giovani, i rivoluzionari che lottano disperatamente per introdurre lievi differenze nell’enorme miscuglio omogeneo imposto dal circolo (vizioso) dell’informazione che circola in modo circolare tra persone accomunate dal fatto di essere sottoposte al vincolo degli indici d’ascolto, dove gli stessi dirigenti non sono altro che la difesa dell’auditel. Si ha quindi una conoscenza molto precisa di ciò che passa e di ciò che non passa: questa misura, l’auditel, è divenuta la 'Corte suprema' del giornalista. Oggi la 'mentalità auditel' è presente nelle redazioni, nelle case editrici, .. Tutti pensano in termini di successo commerciale. Anche solo 30 anni fa, il successo commerciale immediato era sospetto: lo si considerava un segno di compromesso con il denaro; oggi invece, sempre di più, il mercato viene considerato una richiesta permessa di consenso. Attraverso l’auditel è la logica del commerciale che si impone alle produzioni culturali. Ora, è importante sapere che, storicamente, tutte le produzioni culturali considerate fra le attività più alte dell’umanità (la matematica, la poesia, la letteratura, la filosofia, ..) si sono messe contro l’equivalente dell’auditel, contro la logica del commercio. Vedere questa mentalità auditel insinuarsi in questi campi è molto preoccupante, poiché ciò rischia di rimettere in discussione le condizioni stesse della produzione di opere che possono sembrare misteriose, perché non vanno incontro alle attese del loro pubblico, ma, ad un certo punto, sono capaci di crearsi un pubblico proprio.

L’urgenza e il fast thinking (= il pensare velocemente).

Sulla televisione, l’auditel esercita un effetto del tutto particolare, ritraducendosi nella pressione dell’urgenza. La concorrenza dei giornali fra loro, quella fra i giornali e la televisione, quella tra le varie reti assume la forma di una concorrenza temporale per lo scoop, per essere i primi. Questa sorta di pressione incrociata che i giornalisti esercitano gli uni sugli altri finisce per generare tutta una serie di conseguenze che si esprimono in scelte, assenze e presenze. La televisione non è molto favorevole all’espressione del pensiero; vi è infatti un nesso, negativo, fra l’urgenza e il pensiero. Nell’urgenza non si può pensare, a meno che si pensi per luoghi comuni. I luoghi comuni sono idee accettate da tutti, banali, comuni; ma sono anche idee che, quando le riceviamo sono già ricevute, cosicché il problema della ricezione non si pone. La comunicazione è istantanea perché, in un certo senso, non è; o è solo apparente. Lo scambio di luoghi comuni è una comunicazione che ha come unico contenuto il fatto stesso della comunicazione. Il pensiero, invece, è sovversivo: deve cominciare con lo smontare i luoghi comuni e, solo in seguito, deve dimostrare, attraverso una concatenazione di ragionamenti e di riflessioni. Se la televisione privilegia un certo numero di fast thinkers (= pensatori veloci) che propongono un fast food culturale, cibo culturale predigerito, prepensato, ciò non dipende solo dal fatto (anch’esso peraltro determinato dalla sottomissione all’urgenza) che i responsabili dei programmi hanno un’agenda con un certo numero di indirizzi, sempre gli stessi; vi sono locutori obbligati che escludono dal cercare qualcuno che possa avere veramente qualcosa da dire, cioè, spesso, giovani ancora sconosciuti, presi dalle loro ricerche, poco disposti a frequentare i media; e poi bisognerebbe andarli a cercare, mentre sottomano, sempre disponibili e pronti a scodellare il loro pezzo o a rilasciare la loro dichiarazione, ci sono i soliti noti.

Dibattiti veramente falsi o falsamente veri.

I dibattiti possono essere divisi in dibattiti veramente falsi e dibattiti falsamente veri. I primi si riconoscono subito come tali: coloro che si presentano in questi dibattiti sono tutti compari, sono persone che si conoscono fra loro. L’universo degli invitati permanenti è infatti un mondo chiuso di interconoscenze che funziona in una logica di autorafforzamento permanente. Viene da chiedersi: il pubblico è consapevole di questa complicità?? Non del tutto. La gente sente che c’è qualcosa, ma non vede sino a che punto questo mondo è chiuso, bloccato su se stesso, quindi estraneo ai suoi problemi, alla sua stessa esistenza. Ci sono poi anche dibattiti apparentemente veri. Essi hanno tutte le apparenze del dibattito democratico, e per poter ragionare a maggior ragione. Ora, se si guarda da vicino a come si svolgono questi dibattiti (procedendo dal più visibile al più nascosto), si scopre una serie di operazioni di censura. Primo livello: il ruolo del presentatore. È lui ad imporre il tema, la problematica; è ancora lui ad imporre il rispetto della regola del gioco, una regola a geometria variabile; è ancora lui che assegna la parola, distribuisce i segni d’importanza. E fa tutto ciò con la parola, ma similmente anche con tutti i livelli d’espressione del linguaggio non verbale (sguardi, silenzi, gesti, mimica, movimenti oculari, intonazione, ..); e questo è inevitabile, in quanto nessuno, neppure chi ha il maggior controllo su se stesso, riesce a padroneggiare tutti questi aspetti. Altra strategia del presentatore: manipolare l’urgenza. Il presentatore si serve del tempo, dell’urgenza, per togliere la parola, per far fretta, per interrompere. E qui ha un’altra risorsa, quella di farsi portavoce del pubblico ('scusi se la interrompo, ma non capisco cosa intenda dire'). Con questo non vuol far capire che è stupido, lascia soltanto intendere che lo spettatore di base, stupido per definizione, non capirà. In realtà, invece, le persone cui richiama per svolgere il proprio ruolo di censore sono spesso quelle più innervosite dalle interruzioni. Ciò pone un problema molto grave dal punto di vista della democrazia: è chiaro che non tutti i locutori sono uguali negli studi televisivi. Ci sono i professionisti della scena e della parola e, di fronte a loro, i dilettanti: è una cosa di una disegualianza straordinaria. E per ristabilire un minimo di eguaglianza, il presentatore dovrebbe usare una certa parzialità, dovrebbe cioè assistere i più sfavoriti nella situazione considerata. Quando si vuole che un non professionista della parola riesca a dire delle cose (e spesso finirà per dirne di assolutamente straordinarie, cose che quanti parlano dalla mattina alla sera non possono nemmeno pensare), occorre fare un lavoro di assistenza alla parola. Essa consiste nel mettersi al servizio di qualcuno la cui parola è importante, di cui si vuol sapere quel che ha da dire, quel che pensa, aiutandolo a 'partorire'. Ora, non è certo questo che fanno i presentatori: non soltanto non aiutano i meno favoriti, ma li distruggono. In cento modi diversi: non dando loro la parola al momento giusto, concedendogliela quando non se l’aspettano più, manifestando la propria impazienza, .. Ma con tutto questo siamo ancora al livello superficiale, fenomenico. Passiamo al secondo livello: la componente del set (= luogo delle riprese), gli invitati. È un aspetto fondamentale del lavoro di manipolazione; è un lavoro invisibile di cui il set stesso è il risultato (nessun telespettatore infatti dirà: 'ma guarda, non c’è il tale'). La composizione degli invitati è importante perché deve dare l’immagine di un equilibrio democratico: si esibisce l’eguaglianza e il presentatore di offre come un arbitro. Altro fattore invisibile, ma assolutamente determinante: il sistema montato in precedenza, attraverso conversazioni preparatorie con i partecipanti previsti, e che può portare ad una sorta di copione, più o meno rigido, cui gli invitati devono adeguarsi. In questo copione previsto in anticipo, non viene lasciato praticamente alcuno spazio all’improvvisazione, alla parola libera, senza freni, troppo rischiosa, se non pericolosa, per il presentatore e per la sua trasmissione. Altra proprietà invisibile è la logica stessa del gioco linguistico: la partita che ci si accinge a giocare ha regole tacite, secondo cui certe cose possono essere dette e altre no. Primo presupposto implicito di questo gioco linguistico: il dibattito democratico pensato secondo il modello wrestling: dev’esserci uno scontro, il buono, il bruto .. E, contemporaneamente, non tutti i colpi sono permessi; i colpi devono calarsi nella logica del linguaggio formale, colto. Altra proprietà ancora: la complicità tra i professionisti. I fast thinkers, gli specialisti del pensiero usa-e-getta, vengono detti dai professionisti della televisione 'buoni clienti'. È gente che si può invitare, si sa che se ne staranno tranquilli, che non creeranno difficoltà, non faranno storie, poi è gente che parla in abbondanza, senza problemi. Infine, ultima cosa invisibile: l’inconscio dei presentatori. I giornalisti, con i loro occhiali, pongono domande che non hanno alcun senso, alcuna plausibilità. Molto spesso, quando non si è un minimo preparati, si risponde a domande che non si pongono.

Contraddizioni e tensioni.

La televisione è uno strumento di comunicazione poco autonomo, sul quale pesa tutta una serie di vincoli, dati dai rapporti sociali fra i giornalisti, rapporti di:

§ concorrenza accanita, spietata

§ connivenza, complicità obiettiva, fondata sugli interessi comuni legati alla posizione dei giornalisti nel campo della produzione simbolica e sul fatto che i giornalisti stessi hanno in comune alcune categorie cognitive, di percezione e di valutazione legate alla loro origine sociale, alla loro formazione

Ne segue che quello strumento di comunicazione apparentemente senza freni che è la televisione, in realtà è tenuto a freno. Quando, negli anni 60, la televisione si è presentata come un fenomeno nuovo, un certo numero di sociologi si è precipitato a dire che la televisione, in quanto mezzo di comunicazione di massa, avrebbe operato una massificazione. Si pensava che la televisione dovesse livellare, omogeneizzare poco a poco tutti i telespettatori. In tal modo si sottovalutavano le capacità di resistenza; ma soprattutto la capacità propria della televisione di trasformare coloro che la producono. Il fenomeno più importante, alquanto difficile da prevedere, è l’estensione straordinaria dell’influenza che la televisione esercita sull’insieme delle attività di produzione culturale, scientifica o artistica. Oggi la televisione ha portato all’estremo una contraddizione che minaccia tutti gli universi di produzione culturale: quella fra le condizioni economiche e sociali in cui occorre essere situati per poter produrre un certo tipo di opere, autonome rispetto ai vincoli commerciali, .. da una parte, e, dall’altra, le condizioni sociali di trasmissione dei prodotti ottenuti in queste condizioni; contraddizione fra le condizioni in cui occorre situarsi per poter fare matematica, poesia, .. d’avanguardia e le condizioni in cui occorre essere situati per poter trasmettere queste cose a tutti. La televisione porta all’estremo tale contraddizione nella misura in cui subisce più di tutti gli altri universi di produzione culturale la pressione del commercio, attraverso la mediazione dell’auditel. Contemporaneamente, nel mondo del giornalismo si hanno tensioni fortissime tra:

§ coloro che vorrebbero difendere i valori dell’autonomia, della libertà nei confronti del commercio

§ coloro che si sottomettono alla necessità, ricavandone un tornaconto

Queste tensioni non possono esprimersi liberamente, almeno sugli schermi, perché le condizioni non sono molto favorevoli: penso per esempio all’opposizione tra le grandi figure di grosso richiamo, particolarmente visibili e particolarmente ricompensate, ma anche particolarmente sottomesse, e i mestieranti invisibili dell’informazione, che diventano ogni giorno più critici perché, ogni giorno meglio formati per effetto della logica del mercato del lavoro, vengono adibiti a mansioni sempre più insignificanti. Dietro i microfoni e le telecamere ci sono persone molto più colte dei loro equivalenti degli anni 60; il contrasto fra ciò che è richiesto dalla professione e le aspirazioni che le persone si costruiscono nelle scuole di giornalismo o nelle università è sempre maggiore. Gli individui scoprono sempre più presto le terribili necessità del mestiere e in particolare tutti i vincoli associati all’auditel. Il giornalismo è uno dei mestieri in cui si incontra il maggior numero di persone inquiete, insoddisfatte, ribelli o cinicamente rassegnate, che esprimono con grande frequenza la collera, il disgusto o lo scoraggiamento di fronte alla realtà di un lavoro che si continua a vivere e a rivendicare come 'diverso dagli altri'. Ma si è ben lontani da una situazione in cui questi rifiuti o questo sdegno potrebbero assumere la forma di un’autentica resistenza, individuale e soprattutto collettiva. Per capire tutto ciò, che non si tratta di una denuncia delle responsabilità individuali dei presentatori e dei comunicatori, occorre passare al livello dei meccanismi globali, al livello delle strutture. La televisione è un universo in cui si ha l’impressione che gli agenti sociali, pur assumendo tutte le sembianze della libertà, dell’importanza, dell’autonomia, siano marionette di una necessità che occorre descrivere, di una struttura da individuare a da svelare.

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