Qual è la differenza tra un liberale e un socialdemocratico?
E, soprattutto, è una differenza formale o sostanziale?
Michael Walzer, filosofo statunitense che si occupa di filosofia politica,
sociale e morale, è un socialdemocratico. Il suo distintivo d’onore è la
vecchia Volvo che ha guidato per tanti anni (l’auto di seconda mano
tradizionalmente associata ai socialdemocratici di mezz'età).
Sidney Morgenbesser, anch'egli filosofo e professore alla Columbia
University, un maestro in questo tipo di indovinelli, provò a rispondere alla domanda
con una celebre battuta: il liberale è disposto a chiedere ai più ricchi per
dare ai poveri, ma si identifica in quella categoria di cittadini a cui non va
chiesto né dato nulla; il socialdemocratico è disposto a dare qualcosa anche di
suo.
Rispetto ai liberali, i socialdemocratici hanno molto più a cuore la
distribuzione del reddito. Ai loro occhi, non basta chiedere ai ricchi per dare
ai poveri: occorre applicare il principio di equità a tutte le fasce di reddito.
Cito un’altra battuta (di cui però ignoro l’autore): il socialdemocratico è
un socialista che è sceso a compromessi con la realtà, il liberale è un
anarchico sceso agli stessi compromessi con la realtà.
I liberali sono passati dalla difesa del libero scambio per affrancarsi dal
giogo del protezionismo di ottocentesca memoria alla promozione dell’intervento
del governo nel mercato.
Al contempo, i socialdemocratici sono passati dall'ideale della proprietà
pubblica dei mezzi di produzione a un’economia mista di imprese private e
pubbliche nella cornice di uno Stato sociale.
Quanti biasimano le versioni annacquate delle due ideologie non dovrebbero
dimenticare che il cambiamento è stato dettato da una nobile causa: gli uni e
gli altri erano disposti a conquistare il potere solo con mezzi
democratici.
La democrazia parlamentare richiede continui compromessi, i quali tendono a
stemperare i messaggi e ad attenuare le differenze.
Ma il rapporto tra liberalismo e democrazia non è complementare, come
quello tra latte e caffè. Il liberalismo è in tensione con la concezione
popolare della democrazia.
Il liberalismo pone l’accento sui diritti individuali (civili e umani),
soprattutto in contrapposizione allo Stato.
In quasi tutte le nazioni, a eccezione forse dei Paesi scandinavi e
dell’Olanda, l’interesse per tali diritti è circoscritto alle élite culturali e
rimane estraneo a quanti concepiscono la democrazia come governo della
maggioranza e sistema per cambiare l’esecutivo senza ricorrere alla violenza.
Neppure la socialdemocrazia è frutto di un connubio perfetto: si è dovuta
scontrare con i rivoluzionari scettici riguardo alla possibilità di realizzare
un cambiamento strutturale solo con mezzi democratici. Eppure, tanto i liberali
quanto i socialdemocratici sono fedeli alla democrazia, con le sue continue
esigenze di compromesso. E per questo meritano rispetto e ammirazione.
In realtà, i partiti democratici dovrebbero essere giudicati non in base ai
loro programmi, ma per la qualità dei loro compromessi. È importante passare al
vaglio non tanto i loro ideali, quanto le loro effettive soluzioni.
Il liberalismo e la socialdemocrazia ormai condividono più o meno gli
stessi valori.
La differenza sta nell'importanza relativa che attribuiscono a tali valori
e, di conseguenza, nel tipo di compromessi che sono disposti ad accettare: per
i socialdemocratici i diritti dei lavoratori vengono prima di quelli dei gay,
per i liberali vale il contrario.
Vorrei mettere in luce alcuni presupposti fondamentali della distinzione
tra il prototipo del liberale e quello del socialdemocratico, così come
evidenziata da Michael Walzer negli articoli pubblicati su Dissent Magazine e nei suoi saggi.
Partiamo dalla discrepanza tra la concezione socialdemocratica e quella
conservatrice della psicologia umana. Solo in un secondo momento prenderò in
considerazione la prospettiva liberale. I conservatori attribuiscono grande
importanza ai tratti caratteriali, e in particolare ad attitudini come il
coraggio e la pigrizia.
I liberali sono convinti che tali caratteristiche rappresentino validi
indicatori del comportamento umano: l’individuo coraggioso darà prova di
audacia, in battaglia così come nella società civile; il fannullone si
sottrarrà ai suoi doveri e vivrà del denaro pubblico, se ci saranno degli
stupidi a procurarglielo.
I conservatori ci mettono bene in guardia dal chiudere un occhio sulle
cattive propensioni, che a loro giudizio fanno parte della natura umana. Gli
individui possono essere tenuti sotto controllo solo con una rigorosa
disciplina, che infonda in loro un forte senso di dovere e responsabilità.
I socialdemocratici sono di diverso avviso. Per capire le propensioni di un
individuo occorre considerare la situazione in cui si trova, non la sua indole
caratteriale.
Le probabilità che si comporti da buon samaritano di fronte a una persona
in stato di bisogno dipendono non tanto dal suo carattere, quanto dagli
eventuali altri impegni che deve affrontare in quel momento.
I socialdemocratici sono dunque scettici riguardo alla possibilità di
plasmare il carattere degli individui. Ma credono fermamente nell'importanza
delle istituzioni e di un ambiente vivibile in cui tutti possano comportarsi in
modo “decente”.
Per esempio a Stoccolma e a Oslo la gente rispetta la fila per salire
sull'autobus, al Cairo e a Calcutta no. E non perché gli scandinavi abbiano un
carattere migliore; il punto è che vantano servizi di trasporto pubblico più
efficienti. I conservatori accusano i socialdemocratici di non considerare i
cittadini responsabili delle loro azioni. I socialdemocratici, dal canto loro,
accusano i conservatori di attribuire ai cittadini colpe non loro.
Qual è la collocazione dei liberali nell'asse carattere-ambiente?
Gli esponenti del liberalismo classico, come Wilhelm von Humboldt,
promossero l’ideale della Bildung (formazione), della formazione del carattere in un
percorso di autoeducazione; erano contrari a uno Stato impegnato in quel ruolo.
Il liberale contesta la pretesa, da parte dei conservatori, di plasmare il
carattere degli individui, ma guarda con sospetto anche al paternalismo dei
socialdemocratici e al proposito di intervenire sull'ambiente sociale.
I socialdemocratici più avveduti, come Walzer, non credono che la “buona
vita” sia un’idea oggettiva, né che si riduca a una questione di desiderio o
appagamento soggettivo. Quel che rende buona la vita umana è inter-soggettivo:
è determinato non individualmente ma socialmente. Società o – per essere più
precisi – culture diverse possono avere concezioni radicalmente diverse del
bene.
Nelle parole di Walzer, “la giustizia ha le sue radici in quelle specifiche
concezioni delle posizioni sociali, degli onori, dei lavori e di tutti i generi
di cose che costituiscono una forma di vita condivisa. Calpestare queste
concezioni significa sempre agire ingiustamente”.
In quest’ottica, il socialdemocratico è disposto ad accettare l’idea che
culture diverse possano avere concezioni diverse del bene, ma non radicalmente
diverse.
Il liberalismo e la socialdemocrazia sono due ideologie di pace. Non
intendo dire che siano ideologie pacifiste (anche se non è una possibilità da
escludere).
Il punto è che sono concepite solo ed esclusivamente per tempi di pace.
Viceversa, il fascismo, il comunismo rivoluzionario e il neo-conservatorismo
sono tutte ideologie di guerra. Un’ideologia di guerra non richiede
necessariamente uno Stato governato da guerrafondai. Mussolini era un fascista
temerario, mentre Franco si muoveva con prudenza. A fare la differenza non è il
carattere del leader, ma quello dell’ideologia; per un’ideologia di guerra, lo
scontro violento (o la minaccia di innescarlo) è qualcosa di essenziale.
Tra i socialdemocratici, Michael Walzer è forse l’unico ad aver affrontato
la questione della guerra sul piano dei principi. I partiti socialdemocratici
hanno dovuto spesso fare i conti con l’azione bellica, ma in circostanze del
tutto eccezionali, e di solito senza successo. Quando erano lontani dal potere,
venivano attaccati sul piano morale dalla destra, che ha sempre messo in dubbio
il loro patriottismo. Una volta saliti al governo, sono passati all’eccesso
opposto, rifacendosi a un nazionalismo aggressivo.
Guy Mollet, per esempio, nominato Primo ministro francese alla fine degli
anni Cinquanta, intraprese la sua carriera politica da convinto
anticolonialista.
Ma fu traumatizzato dai manifestanti di destra che in Algeria lo
ricoprirono di pomodori marci, accusandolo di complicità con il nemico. A quel
punto Mollet diede inizio a una “campagna di pacificazione” nella colonia
francese che sfociò in una guerra a tutti gli effetti, tra le più dure e
violente del Ventesimo secolo.
Walzer non è l’artefice della teoria della guerra giusta; il problema era
già stato affrontato da una lunga serie di importanti autori cattolici. Ma è
stato l’unico a impostare il dibattito in chiave laica e contemporanea.
La teoria “walzeriana” della guerra giusta può essere utile tanto ai
liberali quanto ai socialdemocratici. Walzer pone le due dottrine di fronte
alla necessità di pronunciarsi sulla legittimazione morale della guerra. E lo
fa passando al vaglio tutti gli interventi militari statunitensi dalla Guerra
del Vietnam in poi.
La sua è una prospettiva internazionalista più che cosmopolita.
Walzer parte dal presupposto che la realtà del mondo sia quella degli
Stati-nazione, senza possibilità di appellarsi ad autorità politiche superiori.
E questo, a mio giudizio, è perfettamente in linea con l’approccio dei
socialdemocratici in generale.
Come lui stesso fa notare, i socialdemocratici prendono i confini nazionali
molto sul serio; non solo perché l’azione politica si svolge per lo più al loro
interno, ma anche perché solitamente delimitano la portata della solidarietà
effettiva.
La solidarietà espressiva può superare i confini nazionali, mentre quella
effettiva – caratterizzata cioè da un concreto impegno ad agire – non lo fa
quasi mai. La solidarietà effettiva può determinare un’azione collettiva,
quella espressiva solo un sentimento collettivo. Svariate organizzazioni non
governative, come Medici Senza Frontiere (MSF), si impegnano concretamente per
cause nobili, ma sono una goccia nel mare dell’indifferenza.
Agli occhi dei socialdemocratici, la solidarietà è un fine umanamente
importante in sé e per sé, ma anche un mezzo indispensabile per affermare la giustizia
sociale.
Agli occhi dei liberali, non è la solidarietà ma il contratto sociale a
tenere unita la società.
I socialdemocratici fanno affidamento su due tipi di solidarietà: la solidarietà di classe e quella nazionale, ovvero sulla loro combinazione.
I socialdemocratici fanno affidamento su due tipi di solidarietà: la solidarietà di classe e quella nazionale, ovvero sulla loro combinazione.
Nelle società capitalistiche avanzate, tuttavia, la solidarietà di classe è
ormai ininfluente. La classe operaia industriale, su cui i socialdemocratici
hanno sempre contato per realizzare un cambiamento sociale, si è notevolmente
rimpicciolita.
Tutto ciò ha contribuito ad attenuare le differenze tra liberali e
socialdemocratici. L’universo della “classe media” comprende praticamente
chiunque abbia un reddito fisso, una famiglia stabile e aspirazioni borghesi
per i propri figli. Ed è diventato il bacino di riferimento di entrambe le
ideologie.
Walzer prende la solidarietà molto sul serio, ma non solo per le ragioni
già citate. Lo fa perché considera altrettanto seriamente la realtà, o la
possibilità, della guerra. Le guerre nazionali richiedono un sentimento di
solidarietà; i contratti hanno valore solo per i mercenari. E la difesa dello
Stato comporta enormi sacrifici: dal punto di vista fisico, ma soprattutto sul
piano umano. La solidarietà è un importante fattore motivazionale, mentre i
contratti si riducono a un semplice calcolo.
L’idea di una giustizia sociale limitata ai confini nazionali solleva
quella che è probabilmente la questione più importante nell’attuale agenda
politica internazionale, ossia la sfida dell’immigrazione.
I poveri della Norvegia sono ricchi in confronto alla maggior parte della
popolazione dell’Africa rurale, dell’Asia o dell’America Latina. Il fatto di
essere norvegesi è di per sé una garanzia di successo. I socialdemocratici
norvegesi hanno giustamente a cuore la giustizia distributiva. Ma il loro
interesse è comunque circoscritto a un club di privilegiati. A quanto pare, la
vera questione non è come distribuire il reddito, ma come, e se, concedere
visti d’ingresso.
In Sfere di Giustizia, Walzer è stato probabilmente il primo
filosofo a rilevare l’incongruenza tra l’interesse
per la giustizia distributiva in una data società e il disinteresse rispetto a
chi potrebbe o dovrebbe entrare a far parte di quella società.
Il fenomeno dell’immigrazione pone i socialdemocratici di fronte a un
dilemma. Essi intendono difendere le conquiste dei lavoratori e dei loro
sindacati. Per farlo, tuttavia, di solito ricorrono a politiche fiscali e di
immigrazione protezionistiche. È qui che liberali e socialdemocratici seguono
strategie diverse.
I primi adottano politiche più permissive in materia di immigrazione, ma
sono meno attenti alla sorte degli immigrati una volta che hanno varcato i
confini del loro paese; i secondi fanno l’opposto.
Anche laddove non si pongono il problema della guerra giusta, liberali e
socialdemocratici hanno a cuore la condizione umana (sia effettiva sia ideale)
nelle società capitalistiche avanzate.
Il capitalismo è
un’etichetta di comodo applicata a una realtà che è molto più complessa. Il
sistema capitalistico è associato a un particolare tipo di società, definito
“borghese” da Karl Marx e Max Weber.
Il liberalismo classico mirava a un’economia di libero scambio, non
soggetta a vincoli protezionistici. Il liberalismo dei giorni nostri presta
molta più attenzione alla natura della società capitalistica. L’interesse non
si concentra più sul libero scambio, ma sulla libertà di espressione, sui
matrimoni gay e altri diritti civili.
Il liberale e il socialdemocratico hanno una posizione diversa rispetto al
capitalismo.
Il primo considera il mercato uno strumento fondamentale per mettere in
relazione domanda e offerta, e attribuisce un enorme valore al libero scambio.
Il secondo ha un atteggiamento molto più ambivalente. Ai suoi occhi il
mercato è un po’ quello che la democrazia era per Winston Churchill: il sistema
peggiore, eccetto tutti quelli già sperimentati. Per il socialdemocratico, la
politica deve cercare di correggere gli aspetti più iniqui e vergognosi del
capitalismo.
Tale differenza si manifesta nel modo in cui le due ideologie rispondono
alle tre domande fondamentali
dell’economia:
- cosa produrre?
- in che modo produrre?
- e come distribuire i prodotti?
Nel sistema capitalistico, la risposta dipende da quanto sono liberi i
prezzi del mercato. È il “quanto” che fa la differenza.
I liberali invocano una limitazione delle regolamentazioni e
dell’intervento da parte di soggetti esterni, primo tra tutti il governo.
I socialdemocratici, dal canto loro, sono pronti a intervenire sulla
distribuzione del reddito e della ricchezza.
Walzer giudica la distribuzione di un bene giusta o ingiusta solamente in
base al significato di quel bene in una determinata società. I criteri in base
ai quali si riconosce prestigio, per esempio, in una società di eruditi (come
quella vagheggiata dagli ebraici ultraortodossi) o in una società di guerrieri
sono molto diversi. Le due società, infatti, concepiscono diversamente ciò che
merita prestigio.
Per spiegare le mie perplessità al riguardo, ricorro all’aiuto di un altro
esempio. Pensiamo a una società che attribuisce un grande valore alla classe
dei guerrieri, come la Prussia del XIX secolo, con la sua élite degli Junker,
una casta rigorosamente aristocratica. Le barriere all’accesso alla classe
degli Junker vanno considerate un problema di giustizia? In fondo, i suoi
membri morivano anche giovanissimi nelle interminabili battaglie, e, nonostante
la pompa e il prestigio, venivano sepolti sotto tetre e pesanti lapidi. Quale
che fosse la considerazione del guerriero nello Stato prussiano, ritrovarsi a
marciare verso il fronte non era poi una grande fortuna. Gli Junker erano anche
grandi proprietari terrieri, ma questo meriterebbe un discorso a parte.
In ogni caso, il principio affermato da Walzer, prestare attenzione al significato intrinseco di ogni bene della società
che si vuole trasformare, è una buona norma generale per una politica tesa
a conseguire un’effettiva giustizia sociale. Ed è proprio questa, in fondo, la
cosa che più sta a cuore ai
socialdemocratici.
La tesi “walzeriana” secondo cui beni diversi devono essere distribuiti per
ragioni diverse è di fondamentale importanza. Il servizio sanitario e la
pubblica amministrazione svolgono due funzioni ben distinte. Le disparità di
reddito non dovrebbero incidere sulla distribuzione di servizi come la sanità e
l’istruzione. La giustizia del socialdemocratico è sostanziale, non formale
(quest’ultima sta più a cuore al liberale).
Come si ricollega tutto ciò al divario tra socialdemocratici e liberali?
I liberali concepiscono la giustizia
sociale come il raggiungimento di un corretto equilibrio tra uguaglianza e
libertà individuale, con la libertà come valore prioritario.
Di qui la forte enfasi sul diritto
degli individui di fare quel che desiderano, purché non rechino danno agli
altri.
Ai socialdemocratici, eredi della tradizione socialista, interessa non
tanto il diritto di fare quel che si vuole, ma la possibilità di accedere alle
risorse per fare (legittimamente) quel che si vuole. Accedere a tali risorse
significa, nell'ottica socialdemocratica, accedere
alla libertà.
È sbagliato pensare che la differenza tra il socialdemocratico e il
liberale stia nel fatto che il primo tiene soprattutto all'uguaglianza mentre
il secondo privilegia la libertà. Entrambi
mettono al primo posto la libertà, ma per il socialdemocratico quel che
conta è la libertà sostanziale, e l’uguaglianza è uno strumento indispensabile
per raggiungerla.
Jean Jaurès, padre e martire della socialdemocrazia, esortava a prendere
dall'altare degli avi non le ceneri, ma la fiamma. Michael Walzer ha raccolto
il testimone di quella gloriosa tradizione. La speranza è che dalla sua
fiaccola scaturisca la scintilla di una nuova socialdemocrazia.
Di Avishai Margalit
(Traduzione di Enrico Del Sero)
Avishai Margalit è Professore emerito di Filosofia all’Università ebraica
di Gerusalemme. Il suo ultimo libro, Sporchi compromessi (Il Mulino 2011), è stato premiato nel
2012 dall’Istituto di ricerca filosofica di Hannover (FIPH). L’autore desidera
ringraziare Nancy Rosenblum per la preziosa collaborazione.
Fonte: reset.it
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